GREGORIO AGIS.

 

 

 

 

 

LA CURA DELL’ANIMA.

Uno studio per il recupero della psicologia socratico-platonica.

 

 

 

 

 

CONTENUTI.

Prologo.

Forma spirituale e libertà dell’anima (Libro I).

L’amore (Libro II).

Punti di alienazione del valore. L’ingigantimento dell’ego (Libro III).

Il male (Libro IV).

Il male (parte 2°) (Libro V).

Il fallimento dei punti di alienazione del valore (Libro VI).


PROLOGO.

 

Tanti anni fa, ero ancora uno studente di liceo, mentre aspettavo l’autobus per andare a scuola, mi capitò di assistere a un brutto episodio che mi colpì assai e si scrisse nella mia memoria per sempre. Una signora vistosamente claudicante, che portava i segni di una poliomielite grave (si era negli anni Settanta, infatti, e quella generazione non aveva conosciuto i vantaggi del progresso medico), stava attraversando la strada, tenendo per mano una bimba, la sua figlioletta. In quella passò un uomo in bicicletta, visibilmente mezzo ubriaco, che nel vedere la donna arrancare penosamente, invece di compatirla, se ne eccitò e, malignamente compiacendosi delle disgrazie altrui, le gridò contro: ma dove galoppi bella? La bimba chiese alla madre: ma che vuole quel signore? Ed ella, con viso cupo, le fece cenno di no, che non doveva preoccuparsene: niente, niente…Mi si strinse il cuore.

Ero fresco di studi, come dicevo, e avevo in mente il cosiddetto “intellettualismo socratico”: nessuno fa il male volontariamente, chi compie un’azione cattiva crede di procurarsi un bene; vuole il bene, ma ignorando che cosa è realmente il bene, credendo di procurarsi un bene, fa il male. In teoria, tutto logico. Ma ora, davanti a un caso concreto di azione malvagia, mi chiedevo: che vantaggio si crede di ottenere quest’uomo basso e volgare umiliando una persona che soffre? Davvero un’azione errata è dettata dalla ricerca di un bene? Che bene sta cercando costui? Allora non seppi trovare una risposta, ma iniziai a cercare. Cercai a lungo, sia nelle visioni filosofiche sull’uomo e sul male presenti nella nostra cultura, sia osservando le persone, nella vita comune, nella storia, ovunque, quando agiscono. E oggi, circa trent’anni dopo quell’episodio posso dimostrare scientificamente che Socrate aveva ragione.

 

Milano, 17.3.2007.


LIBRO I.

 

 

 

 

 

FORMA SPIRITUALE E LIBERTA’ DELL’ANIMA.


LIBRO I.

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Definizione di forma spirituale(1.1).

 

Poiché le tendenze e disposizioni che danno forma all’anima dipendono da ciò che ella crede bene, e le concezioni sul bene cambiano a seconda di quello che si crede sull’essere, la forma spirituale dipende dall’idea di essere(1.2).

 

L’anima, se conosce la verità sull’essere, vede il bene e dunque, se bene è l’essere e se l’essere è il pensiero con i suoi infiniti atti di coscienza (le anime), l’anima vedrà come bene sé stessa e tutte le altre anima, e dunque amerà sé stessa e tutte le altre anime(1.3).

 

Dunque la retta ontologia è terapia dell’anima(1.4).

 

Definizione di anima sana. L’occultamento della retta idea di essere nell’anima provoca la perdita del bene e dunque provoca malattie nella sua forma spirituale(1.5). Errori patogeni presenti nella nostra cultura(1.6).

 

Sull’autonomia dell’anima. Chiarificazione del concetto di libertà(1.7-1.10). Non è nel momento contingente di un’azione che l’anima sceglie esercitando la propria autonomia, ma quando decide che cosa pensare sul bene(1.11).

 

Riepilogo e polemica contro il concetto contraddittorio di inconscio(1.12).


1.1.Nel libro II del nostro scritto Il fondamento della ricerca abbiamo parlato dell’anima come di uno degli infiniti atti di coscienza dell’essere, e abbiamo stabilito che ella è autonoma nel darsi la materia e anche la forma(1). E’ soprattutto della forma spirituale che ora vogliamo parlare: intendiamo per forma spirituale l’insieme di disposizioni che nell’anima vengono prodotte dalle idee in essa contenute. Intendiamo dire che nell’anima si crea la tendenza a provare un certo tipo di desiderio o di sentimento a seconda di ciò che l’anima stessa crede essere il bene. Poiché si desidera ciò che si crede un bene, che lo sia realmente oppure no, l’anima cambierà la serie di disposizioni (cioè la sua forma) a seconda delle sue concezioni sul bene. Anche la tendenza a provare certi sentimenti piuttosto che altri dipende dalle idee che l’anima ha in sé sul bene, perché ci rallegriamo di ciò che ci pare un bene, che lo sia realmente o no, mentre ci rattristiamo per ciò che riteniamo un male, anche se magari non lo è veramente. E, di contro, sul piano fisico, quando una cosa ci fa provare piacere la consideriamo buona, mentre ciò che ci disgusta è definito cattivo. Il sentimento di piacere, però, può cambiare a seconda dell’apparato di idee che si è imposto al nostro spirito: in certe culture il piacere fisico è represso, considerato sporco e peccaminoso, e dunque si prova più piacere delle privazioni e delle sofferenze che delle cose gradevoli, appunto quando l’idea di bene si sia distorta in modo vistoso per qualche tipo di condizionamento culturale. Si dovrà vedere tutto questo (cioè il conflitto tra i sentimenti e desideri ricevuti dall’anima passivamente e provenienti dal corpo organico, che sono specifici, e i sentimenti e desideri prodotti individualmente dall’anima) in dettaglio, in uno studio a parte; per ora basti fissare questo enunciato: l’anima ha in sé disposizioni (o tendenze, o inclinazioni, che dir si voglia) che dipendono dalle idee che ha introdotte in sé stessa, e tale insieme di disposizioni o tendenze si chiama forma spirituale.

1.2.E’ importante notare un fatto: le concezioni sul bene e sul male che operano all’interno dell’anima dipendono dalla sua idea di essere, poiché un assioma sotteso a tutta la nostra esistenza e sordamente inteso anche da chi non abbia sviluppato la ragione e il linguaggio è che bene sia ciò che ci mantiene nell’essere, male ciò che distrugge il nostro essere(2). Perciò, quando la coscienza è ancora in preda di quegli errori concettuali sull’essere che ci siamo affaticati a confutare nel libro I de Il fondamento della ricerca, quelli che Platone (Timeo 52b) chiama “ragionamento bastardo”, e quindi concepisce l’essere irrazionalmete come una realtà extramentale fatta di una materia eterogenea al pensiero, identificando sé stessa col corpo aggregato, crederà che siano beni i mezzi materiali per la sopravvivenza del corpo terreno e la riproduzione della specie, confondendo così l’utile del corpo terreno e gli interessi della specie con il bene. Un’anima così ridotta allo stato animalesco avrà delle tendenze ben precise dentro di sé: se vuole sopravvivere biologicamente deve impadronirsi delle risorse presenti sul territorio e dunque diverrà aggressiva ed egoista. E se vuole riprodurre la specie in un altro individuo, convinta che questa sia la sola forma di sopravvivenza che le tocca, dovrà imporre a un individuo dell’altro sesso di prestarsi ai suoi scopi, dovrà obbligarlo a dedicare la propria esistenza alla prole, e svilupperà dunque sentimenti possessivi e di gelosia. In una parola, l’identificazione col corpo aggregato spegne l’amore.

1.3.Invece, l’anima che abbia in sé intatta la retta idea di essere come l’abbiamo definita nel I libro de Il fondamento della ricerca (§1.9 e segg.) e dunque sa che il vero essere è pensiero e coscienza, sa che, se bene è l’essere e se l’essere è coscienza e conoscenza di sé, il bene non è altro che l’insieme degli atti di coscienza mediante cui l’essere conosce sé stesso, cioè l’insieme di tutte le anime. Dunque le tendenze di un’anima siffatta saranno tutte dirette al vero bene: poiché, come si è detto (§1.1) si desidera ciò che si sa essere il bene e per ciò che si sa essere il bene si hanno sentimenti di contentezza, l’anima che sappia di essere l’essere e dunque di essere il bene, amerà (infatti il desiderio di bene si chiama amore) sé stessa e amerà parimenti tutte le altre coscienze dell’essere che insieme a lei sono il bene. L’anima ove vige la retta idea di essere arde d’amore.

1.4.Si noti qui una cosa importante: da quanto detto nel §1.3 si vede che il solo mezzo per riaccendere nell’anima l’amore che si era spento è ripristinare in lei la retta idea di essere, e dunque l’ontologia, che è lo studio dell’essere, se condotta rettamente, è anche terapia dell’anima. Ogni altro mezzo che si offra per riportare l’anima al suo stato di salute è spurio e ingannevole.

1.5.Infatti noi chiamiamo anima sana quella che conosce la verità, e cioè sa che l’essere è pensiero e coscienza, sa di essere l’essere, e ha in sé solo disposizioni amorose e benigne; come dire che la sua forma spirituale è eletta, è quella scelta dall’essere per rappresentare sé stesso. Invece l’anima è ammalata quando presenti una delle infinite forme che derivano dall’oscuramento dell’idea di essere dovuto all’identificazione col corpo aggregato(3), che induce in lei il “ragionamento bastardo”. Tale forma, come si vedrà in dettaglio nel corso del presente studio, è la somma di tendenze verso ai falsi beni, che per via del fraintendimento della nozione di essere e dunque di bene, l’anima alimenta e nelle quali rimane aggrovigliata.

1.6.Tutto ciò che confonde l’anima sull’essere è patogeno: sia la visione di un’anima creata da un Dio sommo e onnipotente, che sarebbe più essere di lei(4) e da cui ella dovrebbe propiziare favori e grazie con preghiere e riti, cioè con idolatrica piaggeria; sia la convinzione materialista che l’anima non sia l’essere, ma un sottoprodotto della materia inerte, negando all’anima la retta visione di sé stessa come bene, la svalutano(5) e perciò l’ammalano. Vedremo infatti più in dettaglio nel corso della presente opera che le malattie dell’anima dipendono dalla perdita di valore.

1.7.Abbiamo detto che le tendenze dell’anima verso un certo tipo di desideri o di sentimenti dipendono dalle concezioni che ella ha introdotto in sé stessa sull’essere e sul bene, che la portano a ritenere desiderabile, giusto, buono, meritevole, ammirabile un certo tipo di comportamento e a screditare come colpevole, cattivo, ingiusto, empio tutta un’altra serie di comportamenti. Abbiamo anche detto, nei §§2.5-2.7 del nostro scritto precedente, Il fondamento della ricerca, che l’anima è autonoma, cioè si plasma da sé, appunto, scegliendo come pensare, quale concezione avere di sé stessa e dell’essere. Abbiamo usato la parola “autonomia” e non “libertà”, per un motivo ben preciso: l’anima umana è libera, in un certo senso, di scegliere quali idee introiettare sull’essere e sul bene, sul giusto e sull’ingiusto, ma in un altro senso non è libera affatto, perché ella si trova, una volta identificata col corpo aggregato, ad alimentarsi di una cultura tradizionale che la condiziona fin dai primordi del suo pericoloso viaggio nel mondo terreno, quando è immemore e indifesa, e assorbe in maniera irriflessa il sistema di idee e di valori(6) della cultura dominante nella sua epoca e nel suo luogo di appartenenza. E’ vero dunque che ogni anima è autonoma nell’accettare le idee che introduce in sé stessa, ma è altresì vero che la situazione di un essere umano nel mondo dei corpi aggregati è quella di un essere debole, stordito, smarrito, frastornato… Quando siamo bambini, difettiamo delle armi della logica e della dialettica predicativa, che ci difenderebbero dalle intrusioni di errori concettuali spiriticidi, e anche quando siamo adulti, per lo più, continuiamo a difettarne, a meno che qualche evento particolare non ci spinga verso la ricerca. Subiamo sempre pressioni terribili da parte della società, della famiglia: si richiede da noi che ci adeguiamo in fretta e che in fretta otteniamo i risultati richiesti dalle comuni consuetudini. Veniamo mossi dai fili del desiderio di approvazione sociale, poi veniamo spinti a cercare di emergere, di avere successo, di procurarci un ruolo lavorativo che sia prestigioso e ammirato, a mettere su famiglia, ad accumulare benessere in eccesso da esibire. In questo modo ci troviamo invischiati in una rete di fini sbagliati, dove l’anima rimane avviluppata come una farfalla in una tela di ragno. Siamo obbligati a consumare tutta la nostra vita in queste occupazioni, omettendo di impegnarci in quell’unico compito che ci porterebbe fuori dal male, verso il bene: la cura della nostra anima. E perché non ne sentiamo l’esigenza, la società stessa, che vuole da noi dedizione completa ai suoi scopi terreni, sa sostituire la vera cura dell’anima con mezzi accidiosi e fraudolenti, sa offrirci le comode scorciatoie della fede, dei riti e della credulità cieca, che illudono l’anima di essere sana e salva con poca spesa, sì da potersi poi dedicare liberamente ai suoi affari terreni.

1.8.L’anima è dunque autonoma, perché quando accetta di considerare beni i fini che le impone la consuetudine sociale, che derivano dall’ignoranza del vero bene e del vero essere e dalla rappresentazione falsa della realtà, lo fa senza che nessuno la costringa(7); se accetta le idee della cultura dominante, lo fa solo a causa di quello che essa è, non per interventi estranei. Ma non è libera, perché, se per libertà intendiamo la capacità di realizzare ciò che si vuole, a questo stadio l’anima, non essendo libera dai condizionamenti che la portano a errori concettuali, se anche vuole il bene, non è in grado di realizzarlo. Come già detto e dimostrato ne Il fondamento della ricerca, quando un’anima è unita a un corpo aggregato, è indotta a pensare che l’essere sia una realtà fatta di cose estese e visibili in uno spazio extramentale, cose fatte di una materia inerte eterogenea al pensiero, e così dimentica che il vero essere è pensiero e coscienza; e così, dato che bene è l’essere, perdendo la retta idea di essere e alimentando concezioni errate, ha perso il bene. E dunque, mentre, come ogni essere, ella vuole il bene, non sapendo che cosa è il bene non sa procurarselo, e al suo posto riesce solo a procurarsi, invece, ciò che crede bene ma non lo è affatto, illudendosi e venendo ingannata. Dunque vuole il bene ma non sa realizzarlo, non fa ciò che vuole, e quindi non è libera. Possiamo dire, perciò, che l’anima è sempre autonoma, raramente è libera: è, per lo più, nella condizione terrena, debole e incapace e allora la sua autonomia non è sufficiente perché possa liberarsi dal male e procurarsi il bene, perché essa è autonoma nel lasciarsi ingannare.

1.9.L’anima è autonoma e libera quando, avendo ripristinato in sé l’idea di bene, volendo il bene, sa procurarselo. Fuori, però, dal nostro linguaggio, in altri sensi si intende la parola “libero”: innanzi tutto c’è il senso giuridico. Nelle società antiche era libero il cittadino, in antitesi con chi era privo di diritti politici; concetto che si è poi in parte eclissato durante l’evo di mezzo, assieme all’eclissarsi del principio di sovranità popolare e al trionfo dell’impero o monarchia per diritto divino. Ce ne occuperemo in sede di studi storici. Nel Cristianesimo(8) l’uomo sembra in possesso di libero arbitrio, ma solo quando deve rispondere di colpe (o peccati, come in quell’ambito si usa chiamarle) per essere punito in quanto responsabile, evidentemente, perché altrimenti si nega recisamente che l’anima sia autonoma e sappia essere buona e giusta da sé, senza l’intervento divino che, secondo quanto asserito dalle dottrine romane, si realizza misteriosamente dietro a sacramenti e riti di cui ha il monopolio, a prescindere dalla sua degnità e competenza, il clero cattolico(9); mentre nella cultura pseudoscientifica materialista l’uomo diventa il sottoprodotto di una materia che lo determina attraverso il DNA, oppure è in balia di un processo inconscio che sfugge sempre al suo controllo, e da cui egli è inderogabilmente condizionato e manovrato. In quest’ambito la nozione di libertà viene trasformata in quella di licenza e sfrenatezza: l’uomo sarebbe libero di essere quello che è (sottinteso che è un determinismo extraumano, biologico, una inderogabile legge naturale meccanicistica a decidere quello che l’uomo è o non è realmente, e non la coscienza pensante e razionale), quando non reprime i suoi istinti animaleschi o i suoi desideri individualistici, le sue pretese più basse, il suo egoismo e la sua smania di ingigantimento, ma li sfoga senza remore morali e senza istanze ideali di elevazione spirituale. Questa concezione impone violentemente all’uomo di essere il peggiore possibile, spacciando per libertà la bassezza morale e l’egoismo.

1.10.Ma, in generale, nel senso comune, più semplicemente si ritiene libera una persona che non subisca costrizioni esterne sul piano fisico, cioè colui che può fare quello che desidera godendo di libertà fisica, senza gettare nemmeno un’occhiata alla situazione della sua anima, e dunque senza distinguere, come invece facciamo noi, tra desiderio e volontà. Per noi, come abbiamo detto (§1.9), la vera libertà è la capacità di realizzare ciò che vogliamo, cioè il bene. Ma, a voler essere più precisi, potremmo anche dire che “libertà” è un termine relativo, poiché un’anima può essere libera dal male (cioè dall’ignoranza e dall’inganno) quando con la sua forza e il suo impegno personale ha ripristinato in sé la retta idea di essere e di bene e dunque ha rettificato tutte le forze che la muovono (le sue tendenze sono tutte virtuose e nessuna è maligna, e la sua forma spirituale è perfetta); oppure può essersi liberata dalla verità e aver scelto di soddisfarsi con illusioni e falsità, e allora sarà libera di sfogare i suoi desideri più malvagi, salvo impedimenti esterni. Insomma, fermo restando che l’uomo è sempre autonomo, sia chiaro che quando noi usiamo il termine “libertà” in senso positivo, è sottinteso che questa espressione è abbreviata e che va intesa come libertà dal male. In altre parole, per noi l’uomo è libero quando fa ciò che vuole, cioè si procura il bene; per altri l’uomo è libero anche solo quando fa ciò che desidera, anche se poi i suoi desideri sono rivolti verso il male, cioè verso beni illusori, e quindi non riesce a realizzare ciò che vuole veramente,  cioè il bene, poiché tutti vorrebbero il bene. Per questo abbiamo proposto di distinguere la libertà dall’autonomia, perché l’anima è sempre autonoma, ma è libera, nel nostro senso, solo quando si è liberata dal male, che è l’ignoranza del vero essere e del bene.

1.11.Ma se vogliamo indagare più a fondo il concetto di libertà, dobbiamo prestare attenzione a un fatto importante. Osserviamo il momento in cui un uomo (o una qualsiasi anima) compie un’azione: non è quello il momento della scelta. Cioè, le cause che inducono una persona a compiere un’azione, a prendere una decisione, a trasformare un desiderio in realtà, sono le sue tendenze o inclinazioni o disposizioni (che dir si voglia), che danno luogo a una volizione precisa in una precisa situazione contingente. La persona sceglie il comportamento da tenere a seconda di quale desiderio è più forte, cioè di quale risultato è considerato più soddisfacente, e questo dipende da quali cose egli ha classificato come beni nella sua anima. Nel momento della sua azione egli è determinato da cause già in atto, a meno che egli non sia in grado di sospendere l’azione per riflettere e cambiare le proprie idee, e di conseguenza la propria forma spirituale, in quell’occasione. Ma è pressocché impossibile che succeda così, perché le scelte della nostra vita richiedono rapidità, mentre per cambiare una forma spirituale ci vogliono anni di studi. La scelta dunque non viene fatta nel momento contingente in cui si è chiamati a prendere una decisione, e si agisce. La scelta è stata già fatta prima, nel preciso momento in cui l’anima ha deciso che cosa pensare o non pensare sul bene. In altri termini, il momento vero in cui si esercita l’autonomia dell’anima è quello teoretico, non quello pratico, è il momento in cui l’anima decide che cosa pensare e quindi plasma la sua forma spirituale. Dopo, tutto dipenderà rigidamente dalle disposizioni contenute in tale forma, che, ricordiamolo, sono forze che rampollano dalle idee che l’anima ha introdotto in sé stessa sull’essere e sul bene. Possiamo notare anche come il momento o la serie di momenti più importanti della nostra vita siano terribilmente trascurati, poiché, in genere,  l’anima accetta le concezioni che si trova davanti in maniera irriflessa, frettolosa, negligente, senza alcuna attenzione, e spesso affastella concezioni disordinate, oscure e persino contraddittorie, sicché a volte i desideri che la agitano, la lacerano anche, come nel caso del conflitto tra dovere e piaceri o soddisfazioni individualistiche, per esempio. Lo si vedrà meglio più avanti; per ora basti fissare questo, che la disattenzione con cui un’anima accetta idee irrazionali sul bene e sull’essere produce guasti poi a lungo irreparabili.

1.12.Per concludere questo primo libro, che è servito a esporre i postulati della nostra scienza dell’anima, facciamo un riepilogo ordinato di ciò che dobbiamo tener presente nello svolgersi della nostra futura ricerca: dalla definizione di essere e di anima contenute nel nostro scritto Il fondamento della ricerca (essere:§§1.9-1.10 e passim; anima: §§2.1-2.2 e passim) abbiamo potuto ricavare che l’anima, essendo pensiero, e dunque essere, è autonoma perché si pensa da sé; che ella si dà da sé una forma spirituale, definita come l’insieme dei suoi contenuti conoscitivi (idee chiare o concetti oscuri e irriflessi che siano) e delle tendenze o disposizioni che da essi rampollano; le azioni, i desideri, i sentimenti, le volizioni e tutti i comportamenti delle persone sono gli effetti prodotti dalle tendenze contenute nella forma spirituale, che ne sono la causa. Aggiungerei qui che tendenze e contenuti della coscienza sono sempre consci e consapevoli, mai inconsci, anche se spesso assunti acriticamente, in maniera disattenta e magari inespressa verbalmente, o addirittura verbalmente negati (ma in questo caso è per ipocrisia). Nessun contenuto della coscienza può essere mai inconscio(10), per il principio di non contraddizione: infatti per definizione se una cosa non è percepita dalla coscienza, questa non è un suo contenuto, visto che chiamiamo contenuti della coscienza ciò che ella percepisce. Dunque non esistono desideri o sentimenti inconsci: se un sentimento o un desiderio non l’ho prodotto io, ma esiste, vuol dire che lo ha prodotto qualcun altro e questo qualcun altro, se prova desideri e sentimenti, è una coscienza, non un “inconscio”. Dunque, invece di dire assurdamente, con un artificioso gioco verbale, che desidero una cosa inconsciamente, basta dire, con più logica e senza solecismi, che quella cosa io non la desidero affatto. Quante volte capita di sentirsi dire: non è vero che non hai il tal desiderio (in genere si tratta di desideri sessuali o qualcosa di ignobile e meschino, sottintendendo che se lo reprimi ti ammali; è il genere di manovra di chi ti vuole sedurre o imporre di non essere migliore), ce l’hai, ma inconsciamente. Per il principio di non contraddizione, se non provo un desiderio, non lo provo, e se non lo provo non ce l’ho, perché avere un desiderio è la stessa cosa che provarlo. Non posso provare un desiderio senza sentirlo, cioè senza provarlo, perché il desiderio è una sensazione interna e se la sensazione non c’è, non c’è desiderio.

1.13.Ma proseguiamo con il nostro lessico. Libera è solo l’anima che fa ciò che vuole, ma poiché tutte le anime, quando vogliono, vogliono il bene, fa ciò che vuole solo l’anima che sa procurarsi  realmente il bene e non cade in illusioni. Tutte le anime sono autonome perché scelgono da sé quale concezione avere e non avere, cioè si danno la forma da sé, e con la forma decidono la norma di comportamento che poi terranno nei momenti della scelta contingente (la parola “autonomia”, infatti, deriva dal greco e significa questo: darsi la norma da sé); anche se in questa scelta sono condizionate da pressioni esterne, sono comunque autonome, perché una concezione può solo essere pensata, non può essere introdotta con meccanicismi o determinismi: l’anima è pensiero e non una cosa soggetta a qualche tipo di causalità diversa da quella interna al pensiero, e il pensare è sempre un atto autonomo. Per introdurre dentro di sé una concezione l’anima deve essere convinta, e dunque anche se è convinta da pressioni esterne fortissime, nel momento in cui è convinta ad accettare una o l’altra concezione è comunque autonoma, è per la sua forza interna che accetta quella concezione. Ma se tutte le anime sono autonome, non tutte sono libere, solo quelle che sanno che cos’è l’essere e dunque che cos’è il bene. Ricordiamo però che il termine “libertà” è relativo, perché per alcuni essere liberi significa negare la verità ed esserne esenti(11); costoro sono liberi dalla verità e schiavi dell’ignoranza e del male, mentre noi siamo liberi dal male e legati solo alla verità, cioè al bene.


NOTE AL LIBRO I.

 

Nota 1: Il fondamento della ricerca è a disposizione del Lettore sul presente sito. Si raccomanda la lettura preliminare di tale testo, perché in mancanza delle nozioni fondamentali di ontologia contenute in esso, sarebbe difficile accettare i risultati della presente ricerca. Riportiamo qui, per comodità del Lettore, alcuni dei passi in questione: l’essere è uno e infinito, è potenza di pensare; e, in atto, quando pensa -eternamente, perché l’essere è pensiero di sé e quando pensa non è- è infinite coscienze (…)quando l’infinito pensiero si dà rappresentazione, è infiniti atti di coscienza, è infiniti individui, infinite anime; chiamiamo anima, infatti, un atto di coscienza dell’essere (§2.1). L’anima non è soggetta ad alcun determinismo (…)si genera da sé pensandosi (…)Ella è autonoma, è quello che decide di essere, è quello che sa di essere (§2.5).

 

Nota 2: sembra fare eccezione a questo principio nel misticismo orientale la convinzione che meta dell’uomo sia liberarsi dell’individualità e perciò cessare di essere. Costoro pensano che il vero essere non sia individuale, come se l’atto di coscienza individuale fosse un’illusione e una menzogna sull’essere e come se il vero essere fosse qualcosa di inconsapevole, non pensante e inconscio. Ma si potrebbe dire che anche per costoro la meta, e quindi il bene, è sempre l’essere, solo che hanno dell’essere una concezione diametralmente opposta alla nostra e vogliono liberarsi di quello che per noi è l’essere vero, cioè la rappresentazione individuale, ritenendolo qualcosa di illusorio che dall’essere li allontana. La forma spirituale di queste persone contiene tendenze e disposizioni paradossali, perché essi svalutano, in quanto prodotti della coscienza individuale, oltre che i suoi contenuti conoscitivi, anche gli affetti. Sentimenti e desideri sono stigmatizzati da costoro come turbamenti da uno stato perfetto (considerando perfetto uno stato di vuoto, di inconsapevolezza), col risultato che essi alimentano un unico gigantesco e paradossale desiderio: il desiderio di non avere desideri. Quanto essi siano lontani dalle nostre posizioni lo si può capire rileggendo il §2.9 de Il fondamento della ricerca, che per comodità del Lettore riportiamo qui: …Bene non è solo il principio, separato dalle sue coscienze (che siamo noi anime) poiché bene è l’essere, ma l’essere non è se non ha coscienza e conoscenza di sé; il principio è infinita potenza, ma senza i suoi atti di coscienza, cioè noi, non sarebbe nulla, rimarrebbe oscura potenzialità, indefinita e inespressa; ma sarebbe un paradosso un essere privo di coscienza e conoscenza di sé, poiché l’essere è pensiero e per essere deve pensarsi. (…)Esso è la nostra fonte, ma noi lo facciamo essere, noi anime, intendo, noi coscienze; senza di noi sarebbe privo di significato, non sarebbe verità, né bene. Sarebbe essere che non è nulla, sarebbe come una lampada senza luce o un occhio senza sguardo; sarebbe un pensiero che non si pensa affatto. Ivi parlammo contro la superstizione cattolica che personifica il principio e ne fa un Dio sommo, ma l’argomento vale anche contro coloro che pur non personificando il principio, ugualmente sbagliano perché credono che lo stato di potenzialità inespressa sia migliore di quello dell’essere che ha in atto la retta rappresentazione di sé. Il Lettore si ricordi che noi, le anime, la somma di tutti gli atti di coscienza dell’essere, siamo la retta rappresentazione dell’essere: siamo noi Dio, noi siamo il bene.

 

Nota 3: insistiamo col dire che per comprendere appieno i postulati della nostra psicologia, il Lettore deve aver riflettuto su quanto detto nello studio intitolato Il fondamento della ricerca, e cioè che il mondo che si crede normalmente “la realtà” è invece una complicata simulazione e che il corpo aggregato (quello che comunemente si crede il “nostro” corpo) non è affatto il nostro vero corpo, ma una simulazione (§3.15). Come si ricorderà, si è definito il vero corpo come un consapevole atto di pensiero e si è dato conto della vera facoltà percettiva dell’anima (nel libro V dello stesso scritto) e di come, benché le immagini che ella riceve non siano mai errate, ella può essere ingannata e indotta a interpretare erroneamente quello che vede (§3.17). Si tenga anche presente quanto da noi detto ivi, §5.6.

 

Nota 4: cfr. Il fondamento della ricerca, §§2.9; 2.10; 3.18; 4.4; 4.11.

Nota 5: cfr. ivi, §§3.19; 4.11.

 

Nota 6: si dà valore a ciò che si crede bene, quindi si chiamano comunemente valori quelli che la cultura dominante indica come beni. Se nella cultura dominante le idee di essere e di bene sono errate, va da sé che i valori da essa imposti sono falsi e sono da considerarsi “idoli”. Bisognerà esaminare i vari sistemi di valori errati che si sono avvicendati nelle varie fasi della storia umana, ma lo si farà in sede di studi storici.

 

Nota 7: il corpo terreno può essere costretto a fare ciò che non vuole con la violenza fisica, che dipende da quel meccanicismo simulato a cui è soggetto, ma nessuno può usare costrizione sull’anima: ella pensa ciò che vuole pensare e l’unico modo per modificare i suoi contenuti è convincerla. Sicché la vera violenza, quella che si esercita sul vero essere dell’uomo, che è l’anima, è l’inganno. Ma se l’anima si lascia ingannare, questo dipende unicamente da lei, da come la sua coscienza è strutturata e da quali forze (e dunque da quali idee) ella possiede in sé stessa. Si tenga ben presente che sono logicamente impossibili interventi meccanici (cioè che non passano per la consapevolezza, che non siano comunicazioni esplicite) sull’anima, che è pensiero, coscienza, non una cosa extramentale. Si escludano dunque anche gli interventi soprannaturali tanto cari ai cattolici, che vorrebero l’anima rettificata da miracolosi interventi divini propiziati dai loro sacramenti e dal misterioso potere del sacrificio di Cristo, purché si sia con lui in comunione grazie agli offici del loro clero. Per quanto ci riguarda, questi sono riti magici e idolatrici come quelli di qualsiasi religione irrazionale e superstiziosa; e possiamo assicurare che Cristo, che è un’anima eletta nel nostro senso del termine (cfr. supra, §1.5 e infra, §2.1), ed è un maestro della nostra Scienza sacra (è logos e usa la logica, non la magia), soffre molto vedendo il suo nome mescolato a simili ciarlatanerie. Ma di questo parleremo a lungo altrove.

 

Nota 8: delle concezioni di libertà presenti nelle varie correnti della filosofia antica, che possono aver anticipato e influenzato il Cristianesimo, ci occuperemo in altra sede.

 

Nota 9: questa convinzione si è radicata definitivamente nel Cristianesimo dopo la condanna di Pelagio, fortemente voluta da Agostino di Ippona, all’inizio del V secolo.

 

Nota 10: per la polemica contro il concetto contraddittorio di “inconscio” cfr. Il fondamento della ricerca, nota 16 al libro III: …un fantomatico inconscio, inteso come un essere, che è te ma non sei tu, pensa al posto tuo senza avere coscienza di pensare, desidera al posto tuo senza avere coscienza di desiderare etc., è solo un’oscura immaginazione nella mente di questi pseudoscienziati irrazionali… Se si accetta la nostra definizione di essere come pensiero e coscienza, un essere inconscio è una contraddizione in termini.

 

Nota 11: ne abbiamo avuto un penoso esempio nella nostra storia recente, quando qualcuno ha voluto fondare un partito denominato “Casa delle libertà”, intendendo libertà dalla giustizia e dalla legalità, dal rispetto delle norme democratiche e perfino dalla convivenza civile; libertà, insomma, d’arricchire a dismisura a qualunque costo. E’ un caso d’anima particolarmente involuta di cui dovremo parlare.


LIBRO II.

 

 

 

 

 

L’AMORE.


LIBRO II

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Desideri razionali e desideri irrazionali. L’amore di un’anima sana è desiderio razionale, le sue tendenze sono tutte rivolte al vero bene(2.1).

 

Sentimenti razionali e sentimenti irrazionali. Distinzione tra desideri e sentimenti(2.2).

 

L’amore è rivolto all’essere e alle sue coscienze; ma se una coscienza ha una forma errata, per la mancanza della retta idea di essere che produce in essa tendenze irrazionali, l’unico possibile modo di amarla è desiderare la sua rettificazione(2.3).

 

False immagini di amore. Attenzione a non cadervi(2.4-2.6).

 

Assecondare le pretese illegittime delle anime irrazionali non è amore(2.7).

 

Chi abbia rettificato l’idea di essere e dunque tenda al bene soltanto, si trova solo. Inanità dei legami di parentela. Impossibilità di comunicare con le anime “in via” e condizione di nascondimento(2.8).

 

L’unico modo di amare il prossimo, qui nel mondo terreno, è impegnarsi a capire perché non accetta la verità(2.9).


2.1.Abbiamo asserito nel §1.3 che il desiderio di bene si chiama amore e che l’anima che conosce la retta idea di essere, e che sappia dunque che l’essere è pensiero e conoscenza di sé, amerà, sentendole come bene, tutti gli atti di coscienza mediante cui l’essere conosce sé stesso, cioè tutte le altre anime, oltre che sé stessa. Nel §1.5 abbiamo definito questo stato dell’anima che arde d’amore per tutti gli esseri come salute, e abbiamo asserito che tutte le disposizioni di un’anima siffatta sono rivolte al bene e che dunque la sua forma spirituale è eletta, cioè la migliore possibile. Questo tipo di anima ha desideri molto semplici, chiari e razionali. Infatti chiamiamo desideri razionali quelli che rampollano dalla retta idea di bene, irrazionali, invece, quei desideri che nascano dalle concezioni errate sul bene, prodotte da chi irrazionalmente crede che l’essere sia qualcosa di oggettivo, fatto di una materia eterogenea al pensiero ed esteso e visibile in uno spazio extramentale, visione che nel I libro de Il fondamento della ricerca abbiamo già dimostrato essere una trasgressione al principio di ragion sufficiente e quindi irrazionale. Come già più volte si è detto, è quello che Platone chiama “ragionamento bastardo” (Timeo 52b).

2.2.Anche i sentimenti possono essere razionali o irrazionali, visto che anch’essi dipendono dall’idea di essere e di bene che l’anima ha introdotto in sé: se questa è retta, i sentimenti che ne derivano sono tutti razionali, in caso contrario l’anima sarà confusa e mossa da sentimenti irrazionali. Dunque possiamo chiamare amore il legame che l’anima ha con il bene, il quale si specifica in desiderio e sentimenti, tutti rivolti al bene. Ricordiamo che il desiderio è un legame con un bene assente(1), il sentimento un legame con un bene presente, se è positivo; se è negativo (dispiacere, disapprovazione, collera etc.) è il segno che nell’anima imprime la presenza di un male (razionalmente giudicato tale se l’anima è razionale, altrimenti è un sentimento irrazionale). I desideri negativi si chiamano timori o paure. Tutti questi che abbiamo testè chiamato legami, possono dirsi anche “affetti”.

2.3.Dunque l’amore è sia sentimento che desiderio, ed è l’unico legame razionale. Quando gioisco perché le anime consorelle insieme a me fruiscono del bene, questo è un sentimento, e si chiama amore; quando desidero l’essere di tutte le anime (compresa la mia) e dunque desidero la loro perfezione, poiché è essere pienamente solo il pensiero che conosce rettamente sé stesso e dunque solo l’atto di coscienza perfetto (cioè quell’atto di coscienza che rappresenta rettamente l’essere, come dire che è un’anima che conosce la verità) è vero essere, desidero il bene di tutti gli esseri, cioè li amo, e anche questo desiderio si chiama amore. Quando disapprovo la forma errata da cui è afflitta un’anima e desidero la sua rettificazione e cioè il suo bene, anche questo è un desiderio razionale e si può chiamare amore anche questo, anche se bisogna distinguere con sottigliezza: non amo l’anima così com’è, perché è fonte di dolore quando in preda a una forma spirituale errata, cioè a un groviglio di tendenze irrazionali, è indotta a compiere azioni ingiuste che provocano sofferenza. Ma detestare la sua forma non significa odiare lei, anzi, viceversa, se desideri la sua rettificazione, significa amarla. Ed è questo il solo modo di amare un’anima “in via”, cioè priva di forma eletta e tendente al male, perché fino a che è ridotta così non è amabile.

2.4.Perciò è irrazionale cercare legami affettivi con le anime “in via”(2): assecondando le loro pretese illegittime si farebbe solo il loro male alimentandone i vizi(3) (vizio=tendenza irrazionale dell’anima), per questo un eletto nel mondo è sempre solo. Ma spieghiamoci meglio: l’anima che abbia in sé stessa l’idea di bene, e dunque l’amore, quello vero, non può accontentarsi di quei sentimenti falsi, possessivi e feroci che nel mondo umano “normale” vengono spacciati per amore. Poiché l’anima identificata con il corpo aggregato crede che il bene sia la sopravvivenza biologica e la riproduzione della specie, si crede amore, per esempio, quello dei genitori verso i figli, si crede cioè che “mettere al mondo un figlio” sia un atto d’amore. Ma non è così(4). Abbiamo mostrato nel nostro precedente studio, Il fondamento della ricerca, che l’anima non dipende da nulla per esistere, che è essere, e quindi non ha bisogno di essere creata, non nasce e non muore. Nel momento di “mettere al mondo una creatura”, come si dice, non si crea una vita, ma quello che succede veramente è che le forze che governano il mondo aggregato (delle quali abbiamo cominciato a parlare nel libro IV de Il fondamento della ricerca) aggregano un nuovo corpo, servendosi di elementi già esistenti e delle forme consuete, all’interno di un corpo più vecchio, e lo portano poi a compimento gradatamente fino a farlo uscire “dal grembo materno” per simulare (abbiamo già visto, ibidem, che tutto il loro mondo, quello che gli uomini chiamano “realtà” è una sorta di simulazione) un evento che non c’è, cioè una nascita. Quello che realmente è successo è che una forma, quella dell’uomo biologico, è stata sovrapposta ad altre forme, quelle degli organi e dei tessuti, che a loro volta tengono insieme altre forme, quelle delle cellule, che a loro volta sono composte di forme elementari, che sono atomi(5). E tutte le forme così ingegnosamente combinate sono estranee all’anima che le subisce, ma provengono, come detto nella nostra precedente opera, da intelligenze portatrici di forma, che non sono un Dio creatore che ci dona la vita, ma gli organizzatori di una simulazione che ci inganna e ci danneggia. Niente nasce e niente muore, ma il corpo aggregato, che, come si ricorderà, non è un vero corpo, ma è una molteplicità di corpi uniti insieme per simulare una realtà che non c’è, può, appunto, aggregarsi o disgregarsi simulando le vicende dei nostri cicli vitali. Quando l’anima “entra” a far parte del corpo aggregato (cioè le viene nascosto lo spazio che riflette i corpi semplici, i veri corpi che manifestano le anime nel vero mondo, e percepisce solo immagini e sensazioni che dipendono dalle alterazioni che si verificano nel corpo aggregato), in realtà “muore”, cioè dimentica l’essere e sé stessa, la propria vera natura.

2.5.Questo non è un atto d’amore, ma è un’azione distruttiva: l’anima viene intrappolata in stato di smemoratezza e smarrimento in un mondo pericolosissimo, dove verrà invasa da errori spiriticidi che le guasteranno la forma fino a renderla disposta al male. I genitori, in genere, chiamano amore, nel migliore dei casi, un istinto animalesco, che non è prodotto dalla loro anima, ma passivamente ricevuto dalla specie, che è uno di quegli spiriti ingannatori che vogliono far durare la loro simulazione, per i loro scopi(6). Istinto che essi assecondano(7) non per amore, ma perché nella prole essi vedono un’affermazione di sé stessi: essi vogliono sopravvivere nella discendenza (idea quant’altre mai irrazionale, questa, perché l’unica vera sopravvivenza è la vita infinita nel mondo spirituale: l’anima essendo essere in atto è necessariamente esistente e dunque eterna), affermare la propria stirpe a scapito delle altre, rendere forte e dominatore il proprio gruppo sociale (tribù, razza o nazione: si ricorderà l’etica del fascismo, per esempio) o semplicemente far mostra d’aver fatto il proprio “dovere” verso la società per averne in cambio approvazione. Spesso una donna vuol essere madre perché l’unico modo per farsi ammirare in una società maschilista è occuparsi della prole e della famiglia, e dunque il figlio diventa un mezzo per procurarsi maggior importanza e considerazione, mentre nel maschio gioca quel condizionamento culturale che esalta la potenza sessuale e la virilità e fa sentire superiore e dominatore il maschio che si sia impossessato di una femmina e la usi per i suoi scopi riproduttivi a scapito degli altri. Il legame tra genitori e figli biologici non è mai amore: il figlio deve servire al prestigio della famiglia e non ha valore in sé stesso; nessun genitore cerca mai il bene vero del figlio, né quando quest’ultimo mostra aspirazioni di elevazione spirituale viene rispettato e appoggiato: tutti vogliono solo “fare il bene” dei figli, cioè quello falso, uccidendone lo spirito coll’impedire loro di impegnarsi nelle vie che portano alla verità e allo sviluppo delle capacità spirituali e obbligandoli a prestarsi a loro volta nella faticosa impresa di procurarsi il benessere materiale, l’ammirazione sociale, e mettere su famiglia, spendendo così inutilmente il tempo della loro vita.

2.6.Né mi si dica che è amore quell’istinto animalesco che si innesca irrazionalmente tra due persone di sesso opposto e che si chiama impropriamente “innamoramento”. E’ un istinto che proviene dalla specie, che ha i suoi scopi e ci usa per essi; chi ne viene colpito lo asseconda perché crede con questo di guadagnare importanza (ne riparleremo in dettaglio): infatti le persone di entrambi i sessi credono di valere di più se piacciono a un esponente dell’altro sesso e sono al centro della sua attenzione. E’ dunque un sentimento di autoesaltazione, e non amore, quello che induce le persone a stringere vincoli di coppia e con tale autoesaltazione si intrecciano poi gelosia e possessività(8), tutto tranne che amore. La pretesa di monopolizzare in esclusiva l’affettività di un’altra persona rendendola fredda e indifferente a tutti gli altri esseri è piuttosto il soffocamento del vero amore, che è rivolto all’universo intero e non a un essere solo, e questa vicenda di impossessarsi della vita di un’altra persona obbligandola ad occuparsi unicamente della prole e al benessere terreno della famiglia è gravissima deprivazione. La vita va spesa per liberarsi dal male, che è l’ignoranza dell’essere e del bene, non per riprodurre la specie. La via d’uscita da questa orribile famiglia tradizionale(9), quella che piace alla Chiesa cattolica tanto che viene addirittura spacciata per un sacramento, per via della consueta confusione che si fa in quest’ambito tra volontà divina e legge di natura(10), nella nuova società secolarizzata e materialista non si è ancora precisata, non esistendo ancora oggi modelli alternativi chiari; ma diciamo subito che anche i rapporti “liberi” in voga oggi non migliorano le cose e i sentimenti che si sprigionano nelle coppie di nuovo tipo, anche se hanno liberato la donna dall’umiliante posizione di incapace economicamente e intellettualmente, non si sono avvicinati di un passo al vero amore. Continuo a vedere in questi affetti sfoghi di autoesaltazione e prevaricazione reciproca. Ma dovremo parlarne capillarmente in altra sede.

2.7.Perciò, come dicevamo, assecondare questo tipo di sentimenti irrazionali che si spacciano per amore e sono invece odio distruttivo è sbagliato. I genitori che pretendono gratitudine dai figli per il bene falso che impongono loro nel tentativo di ridurli allo stato animalesco, si meritano solo freddezza e bene fanno quei giovani che, potendo, li piantano in asso. Quei mostri di sesso maschile (nel corpo aggregato(11)) che intrappolano l’anima di una donna perché funga da succube spattatrice, devota e piena di ammirazione per la loro presunta superiorità di maschi, proibendole  di rivolgere la sua attenzione altrove (col pretesto, legittimato mostruosamente dalla religione, dei doveri familiari) meritano solo di rimanere soli; e sono quelli che a volte impazziscono di ferocia, quando vengono lasciati e, credendosi nel giusto, dato il sistema di idee distorto che vige nella società ancora improntata di cattolicesimo, si vendicano con la violenza. E quelle madri ricattatorie che c’erano una volta, che dopo aver passato tutto il loro tempo a lustrare la casa e a fare le casalinghe perfette, ti ricattavano coll’averti sacrificato la loro vita e pretendevano in nome di questo di dominarti e annullare la tua volontà, per accollarti vendicativamente e invidiosamente la vita peggiore possibile, non si meritano l’opportuno rancore(12)? Potremmo continuare con molti esempi, e lo faremo analizzando la casistica del male. Per ora sia chiaro questo: che non è amore assecondare le pretese illegittime di persone dalla forma spirituale storpia, perché se non si resiste alle loro pretese, si alimentano sempre di più i loro vizi e si fa il loro male, non il loro bene. E amare significa volere il bene, non il male. Bontà non è assecondare sempre una persona e non contrastarla mai: la vera bontà è anche saper resistere al male.

2.8.Se tutto ciò che è amabile, il bene, cioè l’essere e la verità, che è pensiero e infinite coscienze, qui nel mondo umano è assente, poiché le anime qui non sono rette rappresentazioni dell’essere, ma immagini oscure e carenti, lontane dal vero, che cosa resta quaggiù da amare? Forse nulla. In effetti, un iniziato alla nostra Scienza sacra, che abbia sradicato in sé tutte le tendenze irrazionali, non è legato ai falsi beni di cui parleremo nel prossimo libro del presente scritto, perché avendo in sé la retta idea di bene non ne viene ingannato, non li percepisce erroneamente come beni e dunque non li desidera. Né è un bene per noi essere in un rapporto di coppia, come detto, né mettere al mondo figli; i rapporti di parentela dipendono dal corpo aggregato, che è una simulazione e non è il vero nostro essere e dunque per noi non hanno alcun valore: per noi conta solo la forma spirituale e ci sentiamo fratelli solo con chi abbia ripristinato in sé la forma eletta. Perché dovrei amare una sorella biologica o una madre biologica che non mi rispettano, hanno sempre fatto tutto per distruggermi e mi scherniscono per la mia scelta di vita? Perché abbiamo i cromosomi in comune? E che c’entro io coi cromosomi? Io sono un essere di pensiero e i cromosomi dettano la forma del corpo aggregato, che non è me e ha solo la funzione di occultare e imprigionare il vero me stesso. La discendenza biologica è una simulazione, e perciò è sciocco considerare più importanti le persone che “hanno il nostro stesso sangue”: che abbiamo noi a che vedere con il sangue? Tutte le persone sono importanti allo stesso modo per noi, ma non per intrecciare con loro quei rapporti affettivi che risultano impossibili finché la loro anima è obnubilata e piena di tendenze irrazionali. L’unico sentimento che possiamo razionalmente provare verso di loro è il desiderio che più presto possibile si liberino dal male e condividano con noi il bene, la verità. Ma questo, come si può capire, non è un desiderio immediatamente realizzabile, e non possiamo colloquiare con la loro anima come vorremmo, perché esse oppongono alla nostra scienza ostacoli formidabili e non vogliono ascoltare. E noi non possiamo “destare dal sonno l’amata finché essa non voglia (Ct. 3,5)”, poiché, data l’autonomia dell’anima di cui abbiamo parlato, non si possono mutare i suoi contenuti, finché essa non vuole farlo. Perciò, anche se noi amiamo tutti gli uomini e vorremmo il loro bene, la cura e la guarigione della loro anima, il nostro amore, quaggiù, deve starsene quieto, nascosto e rimanere inefficace. Tutto quello che possiamo fare è domandarci -ed è la domanda chiave di tutta la scienza che si occupa della cura dell’anima- come si può far sì che l’anima desideri il bene? Perché, finché l’anima si appaga di soddisfazioni illusorie e di beni fasulli, non cercherà mai il vero bene e finché non si renderà conto di essere carente e ammalata, non avrà motivo di impegnarsi a colmare la sua carenza e ad accettare il farmaco che può farla guarire dalla malattia, e cioè la vera sapienza.

2.9.Dunque l’unico modo razionale per amare il prossimo su questa disgraziata terra è starsene nascosti ed isolati e impegnarsi a capire che cosa ammala l’anima dell’uomo e perché, quando cerchi di condividere il bene, la sapienza, con le altre persone, queste la calpestano e, disprezzando il tuo amore, si voltano e ti azzannano: è il consiglio che si trova nel Vangelo di Matteo, di non mettere le perle innanzi ai porci (Mt.7,6). Non è dunque vero che per noi quaggiù non c’è nulla da amare, è solo che non possiamo comunicare il nostro amore. Perché, se amore è volere il bene di qualcuno e se il bene è la conoscenza di sé e dell’essere, l’unico vero atto d’amore è quello di donare sapienza. Ma gli uomini non la sanno accettare, perché sono legati ai beni falsi, all’ingigantimento del loro ego, e non vogliono rinunciarvi; è di questo che parleremo nel prossimo libro del presente scritto.


NOTE AL LIBRO II.

 

Nota 1: a voler essere rigorosi, però, anche quando si fruisce presentemente del bene, il sentimento di gioia che rampolla dal possesso del bene si accompagna al desiderio di permanere nel medesimo stato e dunque anche quando si è in possesso del bene il desiderio non è mai spento, solo viene continuamente appagato.

 

Nota 2: chiamiamo così, per intenderci, le anime non ancora arrivate al bene, cioè alla forma eletta (per “forma eletta” cfr. §§1.5 e 2.1).

 

Nota 3: possiamo riprendere la terminologia tradizionale, levandola dalle mani dei cattolici che ne abusano, e renderla di nuovo scientifica, chiamando “vizi” le tendenze o disposizioni irrazionali dell’anima, quelle, cioè, a desiderare beni illusori, e “virtù” le tendenze razionali dell’anima, il desiderio di bene che si chiama anche bontà.

 

Nota 4: abbiamo già fatto notare (cfr. Il fondamento della ricerca, §5.6) come la simulazione in atto nel mondo dei corpi aggregati abbia l’effetto di sostituire alle idee rette dell’anima una serie di concetti errati, sicché nulla viene più chiamato col suo nome e siamo nel mondo alla rovescia. Dopo aver trovato il fondamento nella retta idea di essere, l’anima ha ora il compito di rettificare il linguaggio, confutando le concezioni errate che l’ammalano e ripristinando in sé il sistema di idee rette, la sapienza, che le renderà lo stato di salute. Su questo cfr. anche il nostro Introduzione alla Scienza sacra, libro IV.

 

Nota 5: si rammenti il Lettore che gli atomi sono spiriti tenuti in forma dalle menti che governano il mondo dei corpi aggregati (cfr. Il fondamento della ricerca, §§3.13, 4.3 e 4.4 e passim. Posso aggiungere qui la dimostrazione leibniziana della natura spirituale dell’atomo: poiché ciò che è corporeo è esteso e l’estensione è infinitamente divisibile, se si trova qualcosa di indivisibile, questo non può essere corporeo ).

 

Nota 6: dovremo studiare dettagliatamente in altro luogo la questione degli istinti. Si tratta di contenuti che la coscienza non produce da sé, ma riceve passivamente e che tende ad assecondare finché è debole, finché, cioè, difetta di quella conoscenza di sé e dell’essere che la renderebbe inattaccabile e non manipolabile. Quanto all’asserzione che la specie è uno spirito intelligente, che può di primo acchito dare l’impressione di essere una di quelle fantasie irrazionali proprie degli esoterismi spiccioli, è invece frutto di una rigorosa applicazione del principio di ragion sufficiente (ricordiamo che per definizione è irrazionale chi trascura questo principio, non chi lo applica rigorosamente), o meglio del suo corollario, che dice: se un pensiero, un desiderio o un sentimento non l’ho prodotto io, ma esiste, dev’essere il prodotto della coscienza di qualcun altro. Poiché gli istinti sono tutti o desideri o paure o decisioni strategiche puntuali in ordine alla sopravvivenza (cioè pensieri, perché le decisioni sono pensieri), non possono che esser i prodotti di un’altra coscienza, visto che la coscienza che li riceve non li produce (non sono infatti sotto al suo controllo ed ella non sa perché li percepisce), e visto che pensieri e desideri non esistono da sé, senza una causa che li faccia essere.

 

Nota 7: nessuno asseconderebbe gli istinti se non vi trovasse soddisfazioni illusorie. Cioè, al fine della specie che comunica l’istinto, si giustappone il fine individuale dell’anima che vuole soddisfatto, nella realizzazione del desiderio istintivo, un suo desiderio illusorio. Così, per esempio è il caso dei genitori che seguendo l’istinto della specie procreano, ma perseguendo i loro scopi individuali, come attirare l’approvazione sociale, avere un altro sé stesso che sopravviva alla morte etc.. Vedremo in seguito come dall’istinto deviato a scopi egoistici nascano quei comportamenti assurdi che caratterizzano l’uomo nelle varie epoche.

 

Nota 8: Platone, nel Fedro (238e e segg.) ha dato un quadro chiarissimo degli esiti di un tale sentimento possessivo, che sciaguratamente gli uomini scambiano per amore (il fatto che il filosofo descriva qui un rapporto omosessuale secondo il tipico modello greco della pederastia non conta nulla, le sue osservazioni sono valide anche per il modello eterosessuale): colui che passa per innamorato è invece intento distruttivamente a “foggiare l’amato come più gli piace” e poiché l’interesse che egli prova per l’altra persona non è amore, ma la smania di essere sconfinatamente ammirato e riverito da lui (o lei), “non sopporterà facilmente che il suo amato (scil.: l’oggetto del suo interesse, che però non è amore) valga più di lui o gli sia pari e cercherà di farlo essere inferiore e più inetto”. Il cosiddetto innamorato ha bisogno, in realtà, di un adoratore passivo e succube, che funga da pubblico perennemente stupito per la sua presunta grandezza, al confronto del quale sentirsi un dio, e per questo lo vuole il più possibile incapace: “godendo dei difetti intellettuali dell’amato gli impedisce di colmarli”, è possessivo e distruttivo. Ed è inevitabile che sia geloso: non vorrà intorno termini di confronto che rischino di smascherare le sue presunzioni e gli facciano concorrenza, sicché i rapporti umani ne verranno atrofizzati e le esperienze limitate. Si può vedere su questo argomento il bel film Lezioni di piano (“The piano”, Francia/Nuova Zelanda 1993, di Jane Campion), ma avviso che io stesso non sopporterei più di rivedere la scena in cui il marito possessivo mozza un dito alla moglie per impedirle di suonare il piano, di evolvere cioè il suo linguaggio artistico e di comunicare con persone che la apprezzerebbero, mentre lui ne ha fatto un suo possesso e la vorrebbe usare, appunto, per gli scopi di cui parla Platone nel passo appena citato. Un altro film sulla possessività maschile deve essere stato Boxing Helena, del 1993, di J.C.Lynch, ma ammetto che di questo ho solo informazioni indirette, dalla critica e dai provini, perché non ho avuto la forza di vederlo neanche una volta: si tratta di una donna cui vengono amputate braccia e gambe da un “innamorato” chirurgo, che la tiene poi chiusa in una scatola. E’, in effetti, un’eloquente metafora di quello che le anime si fanno a vicenda quando si incarcerano in un rapporto di coppia. Il problema, in sintesi, è che nel mondo alla rovescia dove le cose non ricevono mai il loro vero nome, il cosiddetto innamorato chiama amore quello che realmente è la disponibilità da parte dell’altro a ingigantire la sua importanza; e questo pretende dal partner, non amore vero, ma ingigantimento, chiamandolo amore, con tutto ciò che ne consegue, e cioè, come dice Platone, che il partner deve farsi inetto ed incapace, annullarsi per esaltare lui. Nel matrimonio di vecchio tipo l’uomo riusciva ad ottenere questo dalla donna tenendola in stato di minorità economica ed intellettuale, oggi non è più così e i rapporti di coppia sono diventati delle vere e proprie guerre fra “giganti”, cioè tra due persone che, chiamandola amore, pretendono invece dall’altro la disponibilità all’ingigantimento del proprio ego. Ricordiamoci bene, per non cadere in queste trappole, che assecondare la smania di ingigantimento di un egocentrico esaltato non è amore, perché amore è volere il bene di una persona, mentre chi asseconda un vizio lo alimenta e lo peggiora, e dunque fa il male, non il bene.

 

Nota 9: avevo già dato una descrizione della famiglia di vecchio tipo nel precedente scritto Introduzione alla Scienza sacra, §3.6 come esempio di violenza spirituale.

 

Nota 10: la dottrina autentica del Cristo, di cui si trovano ancora tracce nelle lettere di Paolo e nel tema evangelico della vittoria sul mondo, vedeva, come noi, il mondo terreno governato da potenze nemiche dell’uomo, una Natura operante per allontanare l’uomo dal bene e tenerlo invischiato nell’ignoranza e nel male. Era compito del vero cristiano combattere e vincere tali forze ostili per poter ritrovare la vera natura del proprio essere, quella spirituale (si ricordi la tematica dell’uomo nuovo, spirituale, che deve nascere dopo l’uccisione dell’uomo vecchio, che è quello identificato col corpo terreno e che dunque ignora il vero essere e il vero bene ed ha tendenze mondane); ma, caduto nelle mani sbagliate, il Cristianesimo è tornato a essere una religione naturalistica e idolatrica, come le altre, perché interpretato secondo le abitudini mentali dei greci e dei romani, che tradizionalmente vedevano la norma stabilita dagli dèi nella legge naturale e il divino come un potere sul mondo da propiziarsi mediante un culto. Sicchè la confusione tra legge di natura e volontà divina vige ancora oggi nella Chiesa cattolica e in nome di essa si impongono come doveri quelle che sono vere e proprie mostruosità. Di recente abbiamo assistito al comportamento crudele dell’alto clero nei confronti del sig. Welby (ne abbiamo parlato in uno scritto, una preghiera intitolata Sull’eutanasia) che chiedeva di essere liberato dalle sofferenze insopportabili che gli infliggeva un corpo troppo ammalato, e alle ingerenze clericali nell’attività legislativa italiana per impedire le ricerche scientifiche sugli embrioni (idolatrati come qualcosa di sacro, quando invece sono grumi di cellule e aggregati di atomi che, disaggregati, non subiscono alcun male); ora è in corso un feroce attacco clericale contro i diritti delle coppie di fatto, in nome appunto della famiglia tradizionale e della concezione che vede il matrimonio, assurdamente, come un sacramento.

 

Nota 11: già dicemmo (Il fondamento della ricerca, §§2.11 e 2.13) che l’anima sana possiede i due principi, maschile e femminile, e che dunque nella vera realtà non esiste distinzione fra i sessi; ne ho parlato anche in un breve scritto del 27.9.2006, destinato a rintuzzare un’accusa di maschilismo rivolta a Cristo da una persona molto ignorante, sconfinatamente presuntuosa e petulante quant’altre mai -di solito non faccio così, ma costei mi aveva proprio esasperato- che è a disposizione di chi lo voglia leggere, richiedendolo all’Autore. Il corpo aggregato è una simulazione e nasconde il vero essere dell’anima, e dunque tutti coloro che credono di essere maschi solo perché il loro corpo aggregato ha genitali maschili, non possedendo il principio maschile (cioè la visione retta delle idee eterne) nella vera realtà non sono maschi affatto. E magari, invece, proprio perché maschi (nel corpo aggregato) si credono di avere più intelletto delle donne, come se essere razionali fosse un istinto che viene dal corpo! Simile pregiudizio è assai radicato nella nostra cultura e ancora oggi si sente ripetere, anche da gente acculturata e progressista (l’ho sentito dire, per esempio, da Gad Lerner in una sua trasmissione di qualche anno fa), quell’idiozia che suona: “l’uomo è intellettuale, la donna viscerale”.

 

Nota 12: era questa una volta la reazione più tipica di una donna intrappolata nella famiglia tradizionale e relegata dal marito in un ruolo subalterno, umiliante e riduttivo, tanto che si parlava, a quei tempi, di “nevrosi della casalinga” senza però intenderne il senso e le vere cause. Cfr. infra, §5.8.


LIBRO III.

 

 

 

 

 

PUNTI DI ALIENAZIONE DEL VALORE. L’INGIGANTIMENTO DELL’EGO.


LIBRO III.

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Richiamo alla definizione di essere e di bene; all’autonomia dell’anima nel darsi materia e forma, all’effetto devastante che la simulazione dei corpi aggregati ha su di essa(3.1-3.2).

 

Perdita del valore: l’anima che non ama sé stessa si ammala. Questa è la radice del male spirituale(3.3).

 

Digressione: la cultura umana, sia quella religiosa che quella materialista, svaluta l’uomo e dunque peggiora il suo male(3.4-3.5).

 

Conseguenze della lesione al valore dell’anima: ingigantimento dell’ego o superbia(3.6), tendenza a negare la propria normalità umana e dunque a evitare l’eguaglianza col prossimo, tendenza a deprivare gli altri del bene (primo accenno)(3.7).

 

Richiamo alla definizione del retto amore di sé, questa è la medicina(3.8).

 

Definizione di “punto di alienazione del valore”(3.9).

 

Puntualizzazione: la differenza tra il semplice spegnimento dell’amore nell’anima allo stadio animalesco e lo sviluppo di “punti di alienazione del valore”, che portano l’anima a un grado più profondo di malattia(3.10).

 

Riepilogo e: accettare la forma umana senza sentirsene svalutati è l’unico modo per evitare che essa diventi patogena(3.11).


3.1.Se vale l’assioma che essere è pensiero e conoscenza di sé, e se bene è essere e male non essere, è bene la retta conoscenza di sé e dell’essere, male l’ignoranza. Dunque tutto ciò che alimenta la conoscenza dell’essere è un bene, è un male tutto ciò che allontana l’anima dalla retta conoscenza dell’essere e di sé. Ma l’anima dimentica l’essere e sé stessa quando è aggregata a un corpo terreno e ignorando che il vero essere è pensiero e coscienza, si inganna rappresentandosi l’essere come una realtà fatta di cose oggettivamente esistenti in uno spazio extramentale. La simulazione del mondo dei corpi aggregati, di cui parlammo nel nostro precedente studio, Il fondamento della ricerca, ha effetti devastanti sull’anima, che dovremo studiare ora in dettaglio. Ivi dicemmo, lo si ricorderà, che l’anima sana è autonoma nel darsi la materia e anche la forma (§§2.6 e 2.7); infatti avevamo definito la materia come idea di essere (che l’anima ha in sé stessa, essendo essere) riflessa nello spazio (definito, appunto, come immagine dell’immaginazione dell’essere, capacità di rendere visibili le cose invisibili, cioè i contenuti della coscienza), e la forma, che è ciò di cui ci siamo affaticati a parlare nello scorso libro del presente testo, anche se da un altro punto di vista, come somma delle caratteristiche specifiche mediante cui l’anima completa il proprio essere (§2.11). Questo è lo stato dell’anima sana e bella, che splende nel vero mondo come un lago d’acqua viva e cristallina che risplenda al sole. (§2.12).

3.2.Ma, si ricorderà, allora ci chiedemmo (§3.7): se l’anima sana, che abbia in sé la retta idea di essere, specchiando questa ne ricava materia fluida e cristallina (l’immagine di sé), che accade a un’anima nella quale l’idea di essere si sia offuscata? E, si ricorderà, allora rispondemmo, dal punto di vista dell’ontologia, che la materia, cioè l’immagine di sé prodotta da quell’anima nello spazio, è una guazza buia sinistra e incomprensibile, instabile e paradossale (§§3.7 e 3.8). Poi, nel medesimo testo, ci affaticammo a spiegare qual è la causa dell’offuscamento della retta idea di essere nell’anima: è la simulazione di realtà che abbiamo chiamato mondo dei corpi aggregati, ed è ciò che gli uomini comuni si ostinano a chiamare realtà e mondo reale, quando è solo una simulazione. Ora dobbiamo valutare gli effetti di questo offuscamento non più dal punto di vista ontologico, ma da quello di chi studia le patologie dell’anima.

3.3.Abbiamo già detto (cfr. supra, §§1.2 e 1.3) che l’anima che abbia in sé stessa la retta idea di essere, poiché essere è bene, conosce anche il bene, mentre chi crede che l’essere sia oggettivo ed extramentale e fatto di una materia indipendente dal pensiero, si inganna anche sul bene. L’anima che sa di essere l’essere sa di essere il bene e si dà valore, in quanto il bene è ciò a cui noi diamo valore; insieme a sé stessa, l’anima, sapendo che l’essere è infiniti atti di coscienza, cioè infinite anime, darà anche a tutte le altre anime lo stesso valore che a sé stessa. Ma l’anima che ha perso la retta nozione di essere e ignora di essere l’essere, e cioè il bene, ha perso il suo valore. L’uomo si trova svalutato nel mondo terreno, ed è questa la radice di tutte le sue malattie spirituali: lo smarrimento del suo vero valore, la svalutazione di sé, perché un essere, che pensi di non valere nulla, soffre, chi pensa di esser spregevole, non può sopportarsi, chiunque si ritenga indegno, incapace e privo di importanza, si odia. E, se amando sé stessa, l’anima gioisce, odiandosi è in preda al dolore.

3.4.Tale svalutazione dell’uomo, che già risulta dal suo stato naturale terreno, è poi amplificata dalla cultura dominante, quando essa imponga (finora è sempre stato così) un sistema di idee non rettificato, soprattutto se legato a una tradizione religiosa. Non è solo il Cristianesimo storico a svalutare l’uomo perché essere caduto e tarato da una colpa originaria, ed incapace con la sua ragione di arrivare al bene senza aiuti soprannaturali; anche le religioni del mondo antico annullavano il valore dell’uomo di fronte a quello degli immortali che vivono sicuri, esenti da malattie e intemperie, mentre gli uomini sono mortali, deboli e tribolati. L’uomo è destinato a vivere una breve vita di cui non è padrone, essendo sottomesso al fato, che è in mano agli dèi e, a meno di non essere promosso a eroe, in casi del tutto eccezionali, ed essere accolto nelle isole dei beati, gli spetta di soggiornare dopo la morte nel mondo buio di Ade in stato di semicoscienza e sonnambulismo, per sempre. Il Cristianesimo, anche in questo caso, non ha fatto che continuare senza svolte gli errori delle religioni antiche e, anzi, ha peggiorato la situazione parlando di un peccato originale trasmesso per via ereditaria a partire dal progenitore Adamo (il dogma non è di Cristo, ma di Ireneo di Lione), cosa che ha diffuso nelle anime la cupa convinzione che è tarato e incline alla colpa ogni essere semplicemente in quanto umano. Vedremo come l’idea che essere umani significa essere spregevoli abbia prodotto in un gran numero di persone il rifiuto della forma umana, il tentativo irrazionale di negare la propria umanità con mezzi assurdi, rifiutando patologicamente rapporti di uguaglianza con gli altri esseri umani. Ancora oggi uno dei terrori fondamentali che si legge dietro ai comportamenti di chi, per esempio, rifiuta di dare valore allo stato, alla convivenza civile, alla legge e alla giustizia, per non parlare del principio della condivisione delle risorse(1) e di solidarietà sociale, è proprio quello di doversi ammettere umano come gli altri, di sentirsi uguale agli altri uomini, che è come dire, per costoro, doversi disprezzare. E lo stesso terrore è alla base di molti blocchi affettivi: desideri e sentimenti ti fanno sentire umano, ma se ti hanno convinto che essere umano significa essere spregevole e privo di valore, sentirti umano ti terrorizza e ciò ti induce a negare la tua umanità reprimendo gli affetti.

3.5.Né migliora di molto le cose la cultura materialista, per la quale la coscienza è un incomprensibile e casuale sottoprodotto della materia (intesa nel vecchio modo, come eterogenea al pensiero; visione totalmente irrazionale, come abbiamo più volte fatto notare, perché l’esistenza di una simile materia è impossibile, dato che ciò che non si causa da sé e non è causato da altro è impossibile, per il principio di ragion sufficiente) e, inoltre, non sarebbe nemmeno sotto il proprio controllo perché sottoposta a un determinismo biologico o all’oscura tirannia di un misterioso altro sé stesso, chiamato contraddittoriamente inconscio(2). Il fatto di credersi mortale, inoltre, fa impazzire l’anima, perché ella, convinta di avere pochissimo tempo per procurarsi il bene e per fruirne, cercherà, presa dal panico, le soddisfazioni più rapide e immediate e, a costo di accontentarsi anche di fingere, cercherà di arrivare a un successo più rapido possibile, fondato però sull’apparenza e sulla millanteria, in una parola, sul bluff. Chi non ha tempo di procurarsi competenze e doti prestigiose, ma vuole ciò nondimeno il prestigio, non ha altra scelta che fingere di averle. Il risultato è, per esempio, una pletora di pappagalli dottorati che infestano il mondo della cultura e dell’informazione, occupano ogni spazio editoriale e oppongono muri di invidia e gelosia a chi sia realmente competente. Tutti costoro, dicevamo, sono preda di quell’impazzimento che consegue alla perdita del proprio retto valore e del bene.

3.6.Ma esaminiamo ordinatamente quali siano le conseguenze della perdita del valore che colpisce l’anima in seguito alla sua identificazione col corpo aggregato. Dicemmo (cfr. supra, §3.3): un essere, che pensi di non valere nulla, soffre. Ed è proprio questa sofferenza che spinge l’anima a cercare un rimedio: deve trovare il modo di darsi valore. Ma, evidentemente, finché ella è identificata col corpo aggregato ed è nel mondo frastornata e confusa dalle cattive idee della cultura dominante, non è in grado di farlo rettamente: poiché nella tradizione trova idee di valore sbagliate, difettando la cultura umana dell’idea di bene e dunque della capacità di dare il retto valore alle cose, troverà solo valori spuri, che non la guariranno realmente. Crederà di darsi valore occupando posizioni di potere, per esempio, o esibendo ricchezze e lussi; crederà di darsi importanza con un ruolo lavorativo prestigioso, o guadagnandosi fama e gloria compiendo imprese ammirate; vorrà un pubblico, se è un artista e se diventa famoso, magari fino a essere considerato un divo… Abbiamo già accennato a come il modo più comune di ingigantire il proprio valore sia l’innamoramento, cioè il mettere in atto una vicenda dove all’altro viene assegnato il ruolo di adoratore passivo e inetto, e come anche mettere al mondo prole può soddisfare questa patologica esigenza di procurarsi un maggior valore. I mezzi sono tanti, e svariati, ma il fine di queste anime è uno solo: avendo perso il loro retto valore, ne cercano uno spurio per colmare la mancanza; avendo dimenticato il valore che hanno, cercano quello che non hanno. Questa tendenza ad attribuirsi un valore illegittimo, avendo perso quello legittimo, può chiamarsi “ingigantimento dell’ego”, ma un tempo si sarebbe potuta chiamare “superbia”, se i cattolici non si fossero impadroniti del termine distorcendone completamente il senso. Infatti per costoro è superbo chi si procura delle competenze e delle capacità, compresa la sapienza, e non si affida alla fede cieca, cioè per loro è superbo chi raggiunge il bene.

3.7.Osserviamo una cosa importante: l’anima può trovare sollievo alla mancanza di stima di sé che le deriva dalla condizione umana, quando può distinguersi dagli altri esseri umani, quando cioè può negare una normalità che sente come screditante. Per questo abbiamo chiamato questa tendenza “ingigantimento” o “superbia(3)”, perché a simili persone non basta trovare un mezzo per darsi valore, devono anche deprivarne gli altri, vogliono sentirsi gli unici ad avere quel valore, e dirsi superiori alla normalità umana. Dunque questo “gonfiore”, questa tendenza a ingigantire la propria importanza e a volersi distinguere a tutti i costi è un sintomo che nasconde una lesione grave dell’anima: la perdita dell’amore di sé stessa conseguita all’oscuramento dell’idea di essere dovuto all’identificazione col corpo aggregato. E’ sbagliato, perciò, definire la superbia come eccessivo amore di sé: l’amore che ha l’anima di sé non è mai eccessivo, perché il suo valore è infinito. Ed è proprio quando l’anima ama sé stessa infinitamente che può tornare a essere sana, se si ama del retto amore. Chi cerca di curare la superbia con l’umiltà, spacciando magari per umiltà l’umiliazione(4), cioè la rinuncia all’amore di sé, non fa che peggiorare la malattia.

3.8.Abbiamo già dato la definizione del retto amore. Ricordiamola, essa è la medicina: ricordiamo, cioè scriviamo nella nostra anima, che se bene è l’essere, e se l’essere è coscienza e conoscenza di sé, è bene che l’essere abbia coscienza; ma l’essere è infinito, infinita potenzialità e una sola coscienza finita non gli darebbe la retta conoscenza di sé, sarebbe una menzogna, sarebbe male. L’essere conosce sé stesso per mezzo di infiniti atti di coscienza, e questi siamo noi, le anime e noi siamo il bene. Si ricorderà il Lettore ciò che scrivemmo nel §2.9 de Il fondamento della ricerca e che abbiamo già riportato nella nota 2 al libro I del presente scritto. E se, per definizione, è amore il sentimento di gioia rivolto verso il bene e il desiderio di bene, se il bene siamo noi, è retto amore amare noi stesse, le anime, gli atti di coscienza dell’essere, e cioè amare Dio, perché noi e la nostra fonte siamo Dio. Ritroviamo il retto amore, recuperando la retta idea di essere, e allora non avremo più bisogno di trovare i mezzi per ingigantire indebitamente il nostro valore a scapito di quello degli altri, perché troveremo che il nostro valore è infinito, ma insieme a quello di tutti gli altri. Non avremo più bisogno, cioè, dei “punti di alienazione del valore”.

3.9.Infatti chiamiamo “punti di alienazione del valore” i mezzi che usano le persone per ingigantire il proprio valore indebitamente, o, in altre parole, per soddisfare la propria superbia. Questo deriva dal fatto che quando l’anima cerca un mezzo per coprire la svalutazione di sé e attribuirsi un valore illegittimo, ricava questo valore da qualcosa che è fuori di sé, non dentro a sé stessa. Il vero valore dell’anima, invece, sta nell’anima stessa. Per questo diciamo che l’anima “aliena” il proprio valore, perché sposta all’esterno quel valore che invece dovrebbe trovare all’interno di sé stessa. Se uno, per esempio, crede di accrescere il proprio valore esibendo un lusso, mettiamo che sia un’automobile costosa, cioè prende valore da qualcosa che è esterno a sé, possiamo dire che ha alienato il proprio valore, cioè lo ha collocato in qualcosa di altro da sé, nell’automobile di lusso, invece che in sé stesso. Vuol anche dire che si crede di valere meno di quell’automobile, se crede di aver bisogno di essa per darsi valore.

3.10.Ma qui dobbiamo fermarci un momento e tornare a quanto si è detto nel §1.2 del presente scritto, e puntualizzare una cosa. Ivi dicemmo che quando l’anima, in stato di aggregazione, scambia l’utile del corpo terreno, e cioè della specie, per il bene, diventa egoista e possessiva e spegne l’amore. Ma, notiamo ora: fosse solo per quello, non sarebbe difficile guarirla, non è lì tutto il male. L’aver scambiato il corpo per l’essere e il suo utile per il bene è solo il primo stadio dello smarrimento del bene, poi subentra quello dell’ingigantimento dell’ego e dei punti di alienazione, che, come vedremo in questo e in altri scritti, imbrogliano l’anima in una serie complicatissima di tendenze irrazionali che la rendono malvagia e da cui è difficile liberarsi. Gli uomini che vivano allo stadio animalesco, solo per la sopravvivenza del corpo terreno e per la riproduzione della specie, potrebbero anche sembrare graziosi, come gli altri animali, del resto; è per questo che a volte subiamo il fascino delle società primitive o preistoriche e qualche volta alimentiamo un ideale di ritorno alle origini, di ripristino di una forma di vita semplice e naturale (secondo il concetto terreno di natura), in antitesi con l’artificio, le complicazioni e la violenza che caratterizzano il nostro stadio culturale, perché a questo stadio primitivo il male è quasi assente o è limitato a pochi e più semplici fenomeni: all’interno dei gruppi primitivi c’è una certa coesione, non vigendo in essi l’individualismo proprio delle società moderne, e l’ostilità, in genere, è rivolta solo verso l’esterno, verso chi è estraneo al gruppo sociale, e, inoltre, la semplicità di vita e la vicinanza alla natura fanno sembrare tutto molto poetico, quasi paradisiaco… Ma un simile paradiso terrestre non può durare a lungo (e non avrebbe nemmeno senso(5) che lo facesse), perché comunque, essendo gli esseri umani soggetti a quelle vicende di malattia, morte, debolezza di fronte alle incombenti forze naturali che li fanno sentire piccoli e in balia del destino, è inevitabile che essi soffrano della deprivazione del valore e che poi si ammalino spiritualmente cercando di compensarsi, come dicevamo appunto, per mezzo dei “punti di alienazione del valore”. Ma dell’involuzione della coscienza concomitante all’evoluzione della società si dovrà parlare in sede di studi storici, non nella presente opera, perciò basti quanto accennato, con l’aggiunta che ogni periodo storico e ogni stadio evolutivo della società offrono a chi li abita un diverso repertorio di “punti di alienazione del valore” (cioè falsi beni mediante cui darsi importanza), sicché la storia può essere intesa come un lungo susseguirsi di forme spirituali errate, e le varie rivoluzioni o svolte culturali come passaggi dall’una all’altra.

3.11.Terminiamo il presente libro III con un riepilogo e alcune notazioni. Abbiamo individuato la causa fondamentale del male spirituale che colpisce l’uomo nello smarrimento del suo retto valore, e nel conseguente spegnimento dell’amore dell’anima per sé stessa e per tutti gli esseri, abbiamo notato che l’uomo smarrisce il proprio retto valore per via dell’identificazione col corpo aggregato che gli nasconde il suo vero essere e lo costringe a dimenticare la sua natura di bene. Abbiamo poi asserito che questo male genera un sintomo ben preciso  nell’anima dell’uomo, perché chi soffre per tale perdita di valore tenta di rimediare alla sofferenza che ne consegue nel modo sbagliato, cercando di coprire la propria mancanza di valore coll’attribuirsi un valore illegittimo, in maniera irrazionale. Come una lesione nel corpo fisico produce gonfiore tutt’attorno alla parte danneggiata, anche nell’anima si produce “gonfiore”, cioè una tendenza all’ingigantimento, in concomitanza con questa grave lesione che è la disistima e l’odio di sé. I mezzi con cui l’anima cerca di mostrare un valore che non ha, nel nostro gergo, si chiamano “punti di alienazione del valore”, e abbiamo anche spiegato che cosa intendiamo per “alienare il valore”: trovare in qualcosa di esterno il nostro valore, invece che in noi stessi. Aggiungiamo le seguenti notazioni: anche per noi l’uomo è debole, obnubilato, pieno di difetti e ridotto all’incapacità ed è dunque la prima cosa che un ricercatore della verità ammette quando inizia il suo itinerario per uscire dal male: siamo ammalati spiritualmente, abbiamo bisogno di guarire. Ma questa professione di debolezza non diventa patogena per chi abbia ben chiara in mente una cosa: anche uno spirito ammalato ha valore infinito. Noi non svalutiamo noi stessi, e tanto meno gli altri esseri umani, né la forma umana, per via della condizione di debolezza e di oscurità in cui siamo caduti. La coscienza, per quanto confusa e smarrita sia, è sempre essere e l’essere ha sempre valore infinito, anche quando non conosce più sé stesso e non ama più. Coloro che pensano di valere più degli altri per il fatto di essere iniziati a qualche scienza particolare o per qualche competenza che s’attribuiscono (presuntuosamente o realmente), hanno fatto della sapienza un punto di alienazione e dunque non se ne servono rettamente, ma ne abusano al fine di ingigantirsi: evidentemente, non hanno capito. Il retto atteggiamento verso la forma umana è accettarla (senza esaltarla, naturalmente!) come un male che non dipende da noi: la subiamo, ne siamo vittime e perciò non ci svaluta; ed è anche un male superabile, perché, se riusciamo a recuperare la fiducia nella nostra capacità di esseri pensanti, che possono servirsi della logica e della ragione per rettificare i contenuti della propria coscienza, possiamo anche ricavarne qualche merito. Chi non si svaluta non si ammala spiritualmente, ricordiamolo, e ricordiamoci anche che nessuno ha  motivo di sentirsi svalutato, neanche il peggiore degli uomini.


NOTE AL LIBRO III.

 

Nota 1: questa è la molla, per esempio, dell’etica del capitalismo, e di quell’anticomunismo viscerale che ha caratterizzato gli anni dell’immediato dopoguerra negli Stati Uniti; abbiamo assistito da poco noi, in Italia, al grottesco spettacolo di chi bollava come “comunismo” la giustizia e la legalità, terrorizzato dall’idea di dover rinunciare alle proprie fonti di smodato arricchimento, e cioè al proprio modo di negare in sé stesso la normalità umana.

 

Nota 2: per la polemica sul cosiddetto “inconscio”, cfr. supra, nota 10 al libro I.

 

Nota 3: nell’italiano antico la parola “superbo” significava anche “ripido, scosceso, difficilmente raggiungibile” nel senso fisico (cfr. per esempio, Dante, Purg.IV, 40-41). In effetti, l’intenzione del superbo è sentirsi unico e inarrivabile, tenendo lontane le altre persone (onde si deduce la presenza di questa viziosa tendenza nell’anima delle persone quando si mostrano particolarmente scostanti), che è l’esatto rovesciamento del vero amore che vige nel mondo reale dell’essere che è infinite coscienze, dove massimo valore ha la condivisione del bene, sapienza e luce, paritariamente tra tutti gli esseri. Dio, l’Assemblea di tutti noi, è una fratellanza, un organismo egualitario, siamo tutti dèi, e Dio è la nostra somma: Dio non è il vertice di una gerarchia piramidale, come dire un tiranno, né la vera comunità è una piramide gerarchica come quella che ne è la satanica parodia, la Chiesa cattolica. Anticipo qui questa asserzione, che il Cristianesimo storico e la Chiesa cattolica siano la parodia satanica della Scienza sacra e dell’assemblea vera di Cristo, ma se ne dovrà disquisire capillarmente in studi più avanzati. (Nota: satanico=irrazionale, contro logica, contro il logos).

 

Nota 4: la vera umiltà è la capacità di dare valore anche a chi non ci è pari, alle anime delle creature piccole (gli animali non umani) e agli uomini involuti nel male. La religione impone ai fedeli di umiliarsi davanti a un Dio onnipotente, spacciando questo per umiltà, quando è un rivoltante atto di piaggeria. La persona umile sa di avere valore infinito e dà valore a tutto quanto la circonda; l’umiliato ha perso il suo valore e questo è fonte di malattia.

 

Nota 5: sul senso dell’esperienza nel mondo aggregato ho già anticipato qualche conclusione in due scritti: Introduzione alla Scienza sacra e la preghiera Sull’eutanasia. Ma poiché mi sono reso conto che tali conclusioni suscitano reazioni molto violente, essendo alquanto sconvolgenti, sono diventato propenso ad invitare le persone interessate ad arrivarci per gradi, seguendo un iter più ordinato e sistematico. Tali scritti sono fruibili solo da coloro che siano già stati capaci di porsi le giuste domande sul senso della nostra storia e soprattutto sul significato del Cristianesimo istituzionale. Invito perciò il Lettore a procrastinarne la lettura fino a che non sia arrivato ad inquadrare chiaramente la condizione umana sia in chiave ontologica che dal punto di vista storico.


LIBRO IV.

 

 

 

 

 

IL MALE.


LIBRO IV.

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Distinzione tra tendenze irrazionali e tendenze rivolte al punto di alienazione del valore(4.1).

 

Solo il falso bene che fornisce all’anima un mezzo di ingigantimento è un punto di alienazione del valore(4.2). L’attaccamento(4.2). Il terrore fondamentale(4.2). Attaccamenti e terrori fondamentali muovono la storia(4.2).

 

L’anima che vede il bene ha tutte le sue forze allineate verso di esso, è “semplice” e non divisa in sé stessa; l’anima obnubilata ed ammalata ha il desiderio scisso e disperso in mille direzioni diverse, è dunque “complicata”(4.3).

 

Esempi di punti di alienazione del valore: essere nobili di sangue, essere ricchi(4.4-4.5); essere maschi(4.6); essere mamme(4.7); il potere(4.8).

 

Ulteriori notazioni sui termini: “fantasmagoria di comodo”(4.9). Gelosia e invidia; prepotenza(4.9).

 

E’ pericoloso tentare di ricondurre alla ragione chi ha in sé un attaccamento(4.9).


4.1.Ora che abbiamo arricchito il nostro repertorio di strumenti con i termini “ingigantimento dell’ego” (o “superbia”) e “punto di alienazione del valore”, possiamo dedicarci a esaminare vari tipi di forme spirituali errate, e cioè in preda a tendenze irrazionali. Ricordiamo che intendiamo per tendenze irrazionali la disposizione a provare sentimenti e desideri irrazionali, che sono quelli fondati su un’idea di bene non retta ma errata. Non tutte le tendenze irrazionali sono punti di alienazione, perché vi sono anche desideri che non si rivolgono all’ingigantimento dell’ego, ma ciò nondimeno sono irrazionali: per esempio, chi si dedica ai piaceri terreni senza per questo darsi eccessiva importanza, solo per provare sensazioni gradevoli. Simili persone che si danno alla crapula e al divertimento saranno pure frivoli e inconcludenti, ma non sono -almeno per questo verso- superbi; anzi, cercando il piacere dimostrano di non aver rifiutato la propria umanità e di essere predisposti alla ricerca della felicità(1) e dunque del vero bene. Ugualmente dicasi per chi si dedica a sviluppare un linguaggio artistico, senza prima aver rettificato le idee, come se si potesse impiegare un linguaggio senza sapere che cosa sia retto esprimere. Se costoro non usano l’arte per ingigantire la propria importanza (e potrebbe essere questo il criterio per distinguere un vero artista da un pallone gonfiato), i loro sentimenti e desideri irrazionali non sono punti di alienazione del valore e, anzi, vanno apprezzati perché portano nel mondo di quaggiù qualche visione del bello e cioè del vero mondo, grazie all’ispirazione(2) che li muove.

4.2.Quando, però, un desiderio irrazionale è rivolto verso un falso bene, che sia sentito dall’anima come un mezzo per ingigantire la propria importanza, questo diventa un punto di alienazione del valore e ingenera nell’anima un attaccamento(3) tenacissimo. Intendo dire che l’anima che abbia costruito un’immagine di sé ingigantita e che abbia con questo allontanato la penosa sensazione di svalutazione e disprezzo di sé, non vorrà facilmente rinunziare al mezzo che le ha consentito di ingigantirsi; anche perché su un tale attaccamento avrà costruito tutta la sua vita. Uno che abbia dedicato tutta la sua vita ad arricchire, per esempio, convinto che il benessere materiale ingigantisca l’importanza delle persone, sarà terrorizzato dall’idea di diventare, o anche solo di sembrare, povero e modesto come gli altri. Infatti, la negazione del punto di alienazione di una persona è il suo terrore fondamentale. Chi ha come punto di alienazione piacere all’altro sesso, per fare un altro esempio, avrà come terrore fondamentale quello di perdere la propria bellezza, e dunque sarà terrorizzato all’idea di invecchiare; attaccamento, questo, che fa prosperare una gigantesca industria cosmetica e impingua le tasche di molti chirurghi estetici. Lo stesso dicasi per l’attaccamento al potere, e così via… Queste forze che muovono l’anima umana, attaccamenti e terrori fondamentali, sommate insieme muovono anche la storia, perché riflettendosi nelle ideologie dei sistemi di potere possono anche scatenare guerre: si pensi all’imperialismo nelle sue varie specificazioni storiche, da quello degli Assiri e dei Babilonesi, attraverso Roma, fino a quello del capitalismo americano(4); oppure alla tendenza di certi ceti italiani ad accettare il fascismo e la conseguente alleanza con Hitler pur di non vedere il dilagare di nuovi ideali di eguaglianza e giustizia sociale; oppure alla guerra fredda, dove un’intera enorme nazione era in preda al proprio terrore fondamentale, l’abolizione della proprietà privata e dunque della possibilità di distinguersi mediante arricchimento, mentre di contro una ristretta cerchia di tirannelli (la cosiddetta nomenklatura), dopo che una rivoluzione aveva promesso una forma di egualitarismo conciliare (soviet significa “concilio”), si era impadronita dello stato e, tenendolo nelle proprie mani come un unico gigantesco giocattolo, se ne serviva per esaltarsi di potere obbligando una smisurata massa di uomini a vivere in stato di minorità. Ma di questo parleremo in sede di studi storici.

4.3.Aggiungiamo solo un’osservazione, prima di entrare nel vivo del problema: che mentre nell’anima sana, che ha in sé unicamente tendenze razionali, l’idea di bene è unica (perché il bene è uno solo, l’essere), nelle anime ammalate l’idea unica di bene si eclissa e la rappresentazione del bene si sbriciola in tanti diversi concetti errati, a volte addirittura in contraddizione tra loro. Mentre per l’anima sana il bene è uno solo e dunque tutte le sue forze sono allineate verso quell’unica meta, nell’anima ammalata il desiderio si scinde e si disperde in mille rivoli, rivolgendosi verso una pletora variegata di beni falsi; il groviglio di tendenze che ne consegue rende l’anima molto debole e instabile, scissa in sé stessa, mentre l’anima sana è capace di eccezionale stabilità. Diciamo dunque “semplice(5)” l’anima sapiente e sana, “complicata” l’anima ottenebrata e ammalata, aggrovigliata in mille desideri irrazionali. Ma è ora di iniziare ad esaminare approfonditamente e più ordinatamente possibile le specificazioni del genere delle forme spirituali ammalate dalla superbia. A seconda del mezzo (o dei mezzi, perché in un’anima possono essere attivi anche più punti di alienazione in una volta) che ogni persona usa per soddisfare la propria superbia, la incaselleremo in una specie differente di forma spirituale ingigantita.

4.4.Il più arcaico punto di alienazione di cui si abbia notizia nel nostro sistema di idee europeo è quello di discendere da un antenato illustre e di far parte quindi di un tipo di nobiltà che si eredita per via biologica. Così erano gli esponenti dei gene nella Grecia arcaica e delle gentes latine, e di quella nobiltà di sangue che dal medio evo (quando le concezioni di una superiorità proveniente dal sangue devono essersi corroborate e riaffermate in Europa per via dell’apporto germanico) all’età moderna è sopravvissuta nel suo tenace attaccamento a privilegi e impunità fino alla Rivoluzione francese. In tutte e tre le esperienze storiche appena citate, a queste primitive élites (come si chiamano in sede storica, ma a noi, in sede di psicologia sacra può riuscire più consono definirle come gruppi di individui in preda allo stesso punto di alienazione) si sono col tempo giustapposti dei nuovi ceti emergenti, la cui importanza si fondava sul censo invece che sul sangue; sicché il nuovo punto di alienazione, affermatosi sia nell’Atene democratica che nelle poleis oligarchiche della Grecia centrale, sia a Roma, dove si è esteso per tutta la durata dell’impero, sia nel basso medio evo fra le borghesie cittadine e, soprattutto, presso la borghesia capitalistica del XIX e XX secolo (e XXI, se le cose non cambieranno rapidamente), è quello, appunto, dell’arricchimento, cui abbiamo fatto cenno più volte in varie occasioni, essendo l’esempio più comune e dilagante di punto d’alienazione del valore. Lasciando perdere i difetti spirituali dei nobili di sangue, i cui ultimi esponenti, in Italia, stanno dando squallido spettacolo di sé nelle cronache e sulle riviste di pettegolezzi, che verranno esposti in sede di analisi storica, vediamo, invece, di completare l’osservazione della forma spirituale del ricco.

4.5.Il suo attaccamento al guadagno si chiama avidità; e a tale idolo egli è disposto a sacrificare tutto il resto. Pur di fare profitto è disposto a degradarsi a sfruttatore: che altro è uno che usa le vite altrui per ingrassare i propri capitali e che poi li sperpera in lussi idioti? Già sarebbe tale un capitalista che riconosca i diritti dei lavoratori sanciti dalla legge italiana, a maggior ragione sono sfruttatori quelli che spostano l’attività in paesi ancora arretrati dove i lavoratori, avendo meno diritti, costano meno; in nome del suo profitto farà strame di principi irrinunciabili, come quello della salute pubblica e del rispetto per l’ambiente e del paesaggio, macchiandosi così di gravi colpe. Declasserà, insomma, la giustizia a intralcio e dirà a sé stesso che il più grande nostro valore è uno zimbello per gli allocchi; e dopo che avrà ridotto così la sua anima, dopo che si sentirà basso e squallido per aver perso ogni inclinazione nobile, avrà peggiorato il proprio male, perché sentirà di disprezzarsi di più(6). E avrà allora bisogno di intensificare il suo falso rimedio, dandosi più soddisfazioni, umiliando chi gli sta intorno, ad esempio, col far pesare più che può il proprio danaro(7), perché avrà bisogno di rassicurarsi continuamente, sarà continuamente spinto dall’ansia di dire a sé stesso: non è vero che sono spregevole, io ho un grande valore, cercando incessantemente la conferma di questo suo presunto valore nell’ammirazione del prossimo. Ma non si rende conto che più che ammirazione troverà o invidia o disprezzo, e ipocrisia. Inoltre, dovrà raccontarsi che era impossibile agire altrimenti, che nessun uomo può essere migliore, che è una necessità inderogabile per gli uomini, è legge di natura, fare i propri interessi, che chi rispetta il prossimo è solo un debole destinato a soccombere. Avere termini di confronto che mettano in risalto la sua inettitudine sarebbe per lui insopportabile, perciò deve crearsi una fantasmagoria di comodo nella quale nessuno è realmente nobile e onesto, nessuno è realmente temperante o virtuoso: gli uomini così, dice a sé stesso, sono solo dei falliti, dei frustrati, degli incapaci, degli sciocchi, degli ipocriti… Colui che sente di aver perso un bene è invidioso di chi invece abbia saputo procurarselo. Tenterà di distruggere, quindi, l’onestà e la temperanza altrui in tutti i modi possibili, o negando la realtà calunniosamente o intervenendo su di essa per modificarla, o negandone il valore. Un simile uomo dovrà convincere sé stesso che il suo sacrificio, aver abbassato così la propria anima, era indispensabile, che ne è valsa la pena: dovrà convincersi che chi non ha tanti soldi come lui è infelice e vive male. Impazzirebbe, se venisse a sapere che una vita temperante è migliore e più serena, che anche una persona economicamente modesta può vivere bene, e dunque tenderà ad impedire che questo caso si verifichi: tenderà, potendo, ad aggredire e distruggere tutti quei dispositivi di cui si dota la comunità per provvedere al benessere e alla tutela dei cittadini medi o meno abbienti. La cosa pubblica(8) è per lui fumo negli occhi, proprio perché il buon funzionamento degli enti e dei servizi pubblici darebbero a tutti agio di vivere bene. Noi italiani abbiamo assistito, negli ultimi decenni della cosiddetta “prima repubblica”, alla sistematica distruzione del nostro stato, capillarmente, da parte di chi, rifiutando di farne parte per superbia, danneggiava ogni ambito della vita pubblica con il sistema della corruzione; certamente il movente principale sarà stato appagare la propria avidità di danaro, ma in molti casi avrà pesato anche questo secondo motivo, la soddisfazione di vedere le persone che danno valore alla convivenza civile come sciocchi straccioni, incapaci di fare i propri interessi, umiliandole in strutture mal funzionanti e deprivandole dei loro diritti. Arricchirsi, abusando del danaro pubblico e impedendo nello stesso tempo il buon funzionamento, per esempio, delle strutture sanitarie pubbliche, per gioire malignamente dei disagi dei malati comuni,  e poi avere il privilegio di farsi curare (o ammazzare, visto che dove vige il criterio del profitto i risultati non sono ottimali) in cliniche costose ed esclusive non è un’azione da persone razionali; è un’azione da superbi che non sopportano di condividere il bene.

4.6.Un altro punto di alienazione altrettanto diffuso, altrettanto antico (se non di più) e altrettanto tenace è quello di credersi superiori perché maschi. Ne abbiamo già accennato sopra (cfr. supra, §2,7), ma dobbiamo qui completare l’argomento. Il movimento femminista, che ha avuto la sua acme negli anni Sessanta del secolo appena trascorso, ha posto un argine (non voglio dire che l’abbia sradicato, perché sarei troppo ottimista) a un fenomeno che deve essere iniziato addirittura nell’Età del bronzo, con l’invenzione dei metalli e della guerra, e con l’affermarsi delle società patriarcali indoeuropee (secondo una tesi ancora accreditata, nonostante le molte critiche, e che si fonda su studi di linguistica e sui dati dell’archeologia). La dimensione storica del problema verrà affrontata in altra sede; qui notiamo il lato psicopatologico: da allora tutti gli individui aggregati a un corpo terreno con genitali maschili credono di essere per natura dotati di capacità e diritti superiori a quelli degli individui dell’altro sesso. E per quella legge psicologica secondo cui chi crede già di essere in possesso di una cosa non la cerca, in genere i maschi tendono a trascurare di più la ricerca dell’intelletto e della ragione, visto che presumono di essere già intelligenti e razionali solo perché maschi. Sicché per condizionamento culturale essi rischiano di più delle donne di avere un’anima tanto presuntuosa quanto inetta. In compenso, le donne che se ne lascino ancora condizionare sono spinte a trascurare di sviluppare ed esprimere la propria intelligenza dal fatto che per essere accettate da un maschio e per piacergli bisogna sottomettersi al ruolo che egli, nella sua “fantasmagoria di comodo(9)” assegna di prepotenza alla propria compagna, e cioè quello di un essere inferiore, stupido e incapace, eternamente ammirato della sua presunta superiorità di maschio; già, lo si ricorderà, ne abbiamo accennato (cfr. supra, nota 8 al libro II). Ora le cose forse stanno cambiando, speriamo; ma per secoli è stato impedito alle donne di accedere a un’istruzione superiore, di svolgere attività che non fossero casalinghe e perfino di muoversi liberamente nel mondo. Così si sono sprecate le risorse spirituali di metà dell’umanità. Ancora oggi (lo dicono le statistiche) il mondo del lavoro è in mano agli uomini, i quali, negando di prepotenza la realtà, ignorano la capacità e la competenza delle lavoratrici donne e le tengono lontane a bella posta dai ruoli di responsabilità. Roccaforte di questo atteggiamento maschilista è la Chiesa cattolica, dove un clero tutto di maschi (nel senso fisico del termine, ma cfr. supra, nota 11 al libro II) si è inventato di chiamare “nuovo femminismo” quella serie di pregiudizi idioti che più appropriatamente si chiamerebbe “vecchio maschilismo”, e cioè che la donna non è uguale all’uomo, per natura, e che dunque non deve ambire a ruoli “maschili”, ma dedicarsi esclusivamente o prioritariamente alla maternità; che è la natura(10) stessa femminile a occupare un posto particolare nella società; che la donna non può vivere per sé stessa, ma è chiamata da Dio a diventare un sostegno importante della famiglia(11). La pretesa che le anime aggregate a corpi femminili non debbano vivere per sé stesse, cioè che non abbiano valore in sé stesse, che non siano fini ma solo mezzi, pretesa che accolla loro per dovere il ruolo di serve del maschio, il quale riserva per sé tutto il valore, è illegittima e, anzi, mostruosa. E’ un atto di indicibile violenza, compiuto col pretesto della legge di natura, come di consueto confusa con la volontà di Dio. Noi sappiamo che le coscienze sono tutte l’essere, e che l’essere è il bene; e che dunque è bene che ogni essere rappresenti l’essere pienamente e non in maniera oscura e carente. Il bene, per l’anima obnubilata dall’identificazione col corpo aggregato, maschile o femminile che sia, è liberarsi dell’inganno e della tenebra, tornare a conoscersi come essere e come bene, e diventare dio. Bene, perciò non è far figli, riprodurre la specie, vivendo così allo stato animalesco, ma dedicarsi all’evoluzione spirituale verso la perfezione dell’essere. Chi vuole spacciare per norma morale quello che è un feroce atto di annullamento del valore del prossimo, un vero e proprio spiriticidio, ha bisogno di una sanzione soprannaturale, deve cioè inventarsi che le proprie pretese illegittime siano, invece, legge voluta dalla volontà divina, intendendo questa, però, fraudolentemente, come un’istanza misteriosa e incomprensibile, che può imporre i suoi dettami senza darne conto dal punto di vista razionale. La vera legge, al contrario, è un enunciato razionale, e sa imporsi da sé, così come non c’è bisogno né di coercizione né di minacce di punizioni infernali, per far accettare a una persona razionale un teorema di geometria, ma basta la dimostrazione. Giustizia è dare a ciascuno ciò che gli spetta, ma l’anima è essere e dunque le spetta l’essere. E se essere è pensiero e conoscenza di sé, spetta all’anima (a tutte le anime, senza distinzione, prescindendo dal sesso del corpo a cui sono aggregate) di conoscere, di procurarsi la verità e la luce su sé stessa e sull’essere, e nascere così da sé stessa bella ed eterna. Non di figliare corpi aggregati, che non sono l’essere, ma ingannevoli agglomerati di atomi estranei e forme spurie(12), per appagare la superbia del maschio che la vuole dedita a servire lui e ad accudire la prole mediante cui dà importanza  ingigantita a sé stesso e si afferma nel mondo terreno.

4.7.Ma anche la maternità può diventare un punto di alienazione del valore, visto che è così socialmente apprezzata, e perciò assistiamo allo spettacolo di quelle donne che diventano mostri soffocanti assumendo un ruolo ipertrofico all’interno della famiglia, tendendo cioè a enfatizzare l’importanza del proprio servizio alla famiglia e della cura dei figli. Esse tendono a tenere in stato di minorità i loro figli (e spesso anche il marito) vita natural durante, per via dell’attaccamento (cfr. supra, §4.2) a ciò che le ingigantisce, scodellando così degli incapaci egocentrici(13): la mamma ossessiva e possessiva è l’animale diseducativo per eccellenza. A volte, però, la sua tendenza ad annullare la volontà dei figli e a negarne le capacità intellettive provoca in essi un salutare moto di ribellione, nel migliore dei casi, nel peggiore può farne degli spiantati, o, al limite può indurli al suicidio(14). Quando poi i figli diventano adulti ed escono di casa, è il momento peggiore, soprattutto se un figlio maschio si sposa. La nuora scatenerà una gelosia feroce, perché, come già dicemmo, gli spiriti ingigantiti vogliono valore in esclusiva, la superbia non ammette concorrenza: contro la malcapitata nuora si scatenerà la distruttività del mostro, che non le risparmierà rimproveri di inadeguatezza e negligenza, e calunnie d’ogni sorta… E’ situazione comune, perciò non mi dilungo; il miglior testo per studiare i punti di alienazione e i loro effetti è la vita stessa(15).

4.8.Lo stesso dicasi per quell’altro punto di alienazione del valore tanto universalmente diffuso da essere la principale molla che muove la storia: la sete di potere. Quando un uomo può annullare la volontà del prossimo e imporre la propria, si sente potente. Se volessimo esaurire la casistica di questo fenomeno, dovremmo riempire milioni di pagine, ma, appunto, la vita è il miglior libro di testo, ed anche la storia. Noi italiani ci possiamo ricordare dell’attaccamento al potere di tutto un ceto politico, quello della cosiddetta “prima repubblica”, e degli abusi che si sono fatti di esso fino alla degenerazione rovinosa in corruzione che ha portato alle inchieste di Tangentopoli. E se torniamo al fascismo potremo assistere al modello della prepotenza al potere con l’annullamento dei più elementari diritti e della dissidenza. Ma degli abusi del potere politico bisognerà parlare in sede di studi storici; per ora basti averne dato la definizione dal punto di vista della psicologia sacra. Aggiungiamo che anche in ambito privato può scatenarsi la sete di potere: nella famiglia la responsabilità dei genitori verso i figli minorenni può degenerare in potere, se per esempio un padre geloso o invidioso proibisce al figlio di seguire le sue inclinazioni e gli impone una strada (“a fin di bene”, come sempre) che gli tarperà le ali; e non occorre certo che descriva io il comportamento arrogante di un capoufficio verso i suoi sottoposti, che è cosa fin troppo comune. La fenomenologia di questo tipo di superbo, in sintesi, è la seguente: egli vuol sempre dare ordini, anche quando non ha nessuna competenza in materia, e tenderà a zittire chi propone soluzioni migliori; vorrà omaggi formali che esprimano il suo potere come titoli o posti d’onore; tenderà a legittimare ideologicamente la sua prepotenza, riferendosi a principi autoritativi inesistenti (per esempio la volontà di Dio come la intendono le religioni) e a bollare come ribelli e cattivi coloro che non si sottomettono. Tenderà a deprivare gli altri dei mezzi di giudizio, perché nessuno possa giudicare la sua conduzione del potere, e a negare le capacità di intendere e di volere dei sottoposti, essendo geloso del suo ruolo normativo e decisionale; e tenderà ad allontanare chiunque, mostrando qualche capacità, potrebbe fargli ombra. Sarà geloso dei successori, perché il suo attaccamento non si esaurisce con la vecchiaia e la vicinanza della morte. E’ emblematico, su questo argomento, il rapporto che ci fu tra Federico II di Svevia e il suo disgraziato figlio Enrico, finito suicida, dopo che suo padre aveva stroncato gelosamente qualunque sua iniziativa politica e, spodestatolo, l’aveva destinato alla prigionia, facendo arrestare e rinchiudere anche un altro suo fratello. Ma potrei più semplicemente raccontare di un piccolo industriale marchigiano, a me parente per parte di madre (in senso biologico, s’intende), che impedì a suo figlio di occuparsi della minuscola industria laniera di famiglia, salvo poi che la sua direzione fu così dissennata che questa fallì, nello stesso periodo in cui, invece, decollava la Benetton. Il giovane, mio cugino, non ne morì, per fortuna, ma è certo che se ne addolorò parecchio; sua madre finì suicida.

4.9.Terminiamo questo libro raccogliendo alcune osservazioni importanti che abbiamo toccato di passaggio, ma sulle quali non abbiamo focalizzato a sufficienza l’attenzione. Abbiamo parlato di “fantasmagoria di comodo” (§§4.5 e 4.6) e abbiamo descritto la tendenza, propria delle anime ammalate di superbia, a negare la realtà e a sostituirla con uno scenario fittizio, che sia soddisfacente e in linea con le proprie pretese: il ricco, abbiamo detto per esempio, nega che qualcuno possa essere temperante, nobile e giusto e si inventa che tutti siano meschini come lui; il maschilista nega tenacemente le capacità delle donne e le inclinazioni che esse abbiano differenti da quella verso la maternità e la cura della prole, e si convince che esse sono tutte irrazionali e viscerali, e così via. Abbiamo poi nominato di sfuggita due tendenze distruttive: l’invidia e la gelosia. Possiamo aggiungere una quarta tendenza, che è quella a modificare con la prepotenza le cose in modo che corrispondano il più possibile alla situazione che soddisfa la nostra superbia (cioè a quella che per comodità abbiamo chiamato, appunto, “fantasmagoria di comodo”): il ricco che cerca di impedire che stiano bene anche gli altri, per dirsi che chi non ha soldi è un fallito e non vale nulla; i maschi che impediscono alle donne l’esercizio intellettuale per poi sostenere che esse non hanno intelligenza, e così via. Menzogna, prepotenza, gelosia (che è la tendenza a deprivare gli altri di un bene che si crede, a torto o a ragione, di possedere) e invidia (che è la tendenza a odiare distruttivamente chi abbia saputo procurarsi un bene, vero o presunto, che invece a noi manca) sono vizi che inevitabilmente accompagnano l’anima che tende all’ingigantimento dell’ego. La tendenza a sostituire la realtà con una fantasmagoria di comodo è indispensabile all’anima che voglia coprire la propria mancanza di valore per mezzo di un punto di alienazione, altrimenti non riuscirebbe nel suo intento di procurarsi i mezzi per darsi un valore fittizio. Per esempio, chi abbia preso come punto di alienazione del valore quello di essere più intelligente e colto degli altri, per potersi convincere di esserlo realmente, deve rappresentarsi gli altri come tutti quanti stupidi e ignoranti, e dunque fingerà di non capire le ragioni esposte dal suo interlocutore, dimenticherà le sue parole, o fingerà di farlo, salvo poi attribuirgli forzatamente argomenti congegnati apposta per sembrare i più sciatti e banali possibile, e se uno tenta di esibire davanti a questo tipo di persona un po’ di cultura troverà reazioni infastidite, come lo chiudersi in un corrucciato mutismo o parlarti sopra per impedirti di esprimerti, o insultarti con l’epiclesi di “saputello”. Quanto all’invidia, è naturale che un uomo che fugge da sé stesso e che cioè si autoinganna da un lato, recitando il ruolo della persona superiore, mentre dall’altro sa di stare mentendo a sé stesso e sa benissimo che quel valore che si dà è spurio, che dunque sente ancora intatto come prima, dopo essersi sfinito a negarlo inutilmente, tutto il dolore della sua mancanza di amore per sé stesso, è naturale -dicevo- che un’anima ridotta così sia presa da odio invidioso verso chi ha saputo evitare questo male e ha saputo conservare intatte nobiltà ed elevazione. In generale, chi ha sacrificato un vero bene per alimentare un punto di alienazione del valore invidia ferocemente la persona che invece ha fatto la scelta giusta e ha saputo procurarsi il bene vero sacrificando quello falso. Questo dimostra che tali persone sentono ancora, anche se in maniera oscura, l’attrazione verso il vero bene, solo che questa è più debole dell’attaccamento al loro punto di alienazione del valore, e dunque non sanno correggersi. Inoltre, ammettere di avere sbagliato e che si poteva fare altrimenti, screditerebbe ancora di più l’anima ai propri stessi occhi e la costringerebbe a disprezzarsi ancora di più. Ed è ovvio, dunque, che costui non voglia aprire gli occhi e odi ferocemente coloro che minacciano di farglielo fare: cercare di strappare una persona dal suo punto di alienazione è un’operazione rischiosa. Non a caso chi cerca di distogliere i superbi dai loro comportamenti insensati con prediche o ragionamenti, come minimo rimane inascoltato, come massimo fa una brutta fine.


NOTE AL LIBRO IV.

 

Nota 1: chi cerca il divertimento e il piacere senza superbia (ci sono anche quelli che si sentono importanti quando possono appagare tutti i loro capricci, e allora per questi diventa un vero punto di alienazione) ha chiara in mente una cosa: di avere il diritto alla felicità, è questo è un pensiero razionale. E’ solo che non sapendo che la felicità è lo stato di fruizione del bene eterno, e non sapendo che c’è un bene eterno, si contentano dei piaceri effimeri, nei quali c’è pure una pallida immagine delle sensazioni del bello (=manifestazione sensibile del bene) che si trovano nel vero mondo, quello dei corpi semplici, che durano in eterno e non muoiono (si veda, sul concetto di “corpo spirituale” o “corpo semplice”, Il fondamento della ricerca, §§2.6; 2.12; 3.5 e passim).

 

Nota 2: dovremo parlare dell’ispirazione a lungo in altri studi e da altri punti di vista. Per ora basti dire che, come gli istinti, anche le ispirazioni (artistiche e di ogni altro tipo) sono contenuti che la coscienza riceve passivamente da una fonte nascosta, che ovviamente non è l’”inconscio” (cfr. supra, nota 10 al libro I), secondo il principio di ragion sufficiente e del suo corollario, che recita: se un pensiero non l’ho pensato io, ma esiste, deve averlo pensato qualcun altro. Tutto sta a capire chi è questo qualcun altro e che intenzioni ha.

 

Nota 3: attenzione a non ritenere attaccamenti tutti i desideri. Solo la tendenza a desiderare un falso bene da cui si ricavi ingigantimento dell’ego è un attaccamento. Ho conosciuto una persona orribile, tempo fa, che considerava attaccamenti tutti i desideri; il suo punto di alienazione del valore era, appunto, essere completamente distaccato da tutto e dunque non provare alcun affetto e nessun interesse per nulla, senza distinguere tra desideri o sentimenti razionali e desideri o sentimenti irrazionali. Questo è il risultato del contatto tra un’anima accidiosa e una versione rimasticata e distorta di etica buddista. Grazie a questa storpiatura del concetto di distacco (ottima cosa è distaccarsi dai falsi beni, non da quelli veri! E inoltre il vero distacco si ottiene mediante confutazione logica del loro essere dei beni, non con la negazione prepotente del proprio desiderio di essi) egli aveva trovato il modo di ingigantire sé stesso con poca spesa, visto che non si dedicava a nulla tranne che a sciocche pratiche medianiche o a leggere i tarocchi, e  di disprezzare tutti gli altri, sia per i desideri comuni che per i loro interessi spirituali, compreso me, per il mio amore per la sapienza, che chiamò “menare e rimenare nella merda”, e per il mio impegno negli studi storici, per il quale mi guadagnai l’etichetta di “intellettuale scoppiato”.  Mi fece velatamente capire che se avessi accettato lui come mio “guru”, mi avrebbe insegnato come si fa a raggiungere lo stato “superiore”, cioè secondo lui quello di totale impassibilità (che per noi è volgare insensibilità e ottusità rozza), gettando via la mia facoltà di pensare e di amare, che lui, chissà perché, chiamava “coscienza cerebrale (anzi celebrale, solecisticamente)”. Fu terribile.

 

Nota 4: l’attaccamento di una nazione imperialistica al suo ruolo di guida del mondo, di cultura dominante e di egemone, viene in genere trasformato in ideologia religiosa, per cui ciò che è prepotenza, prevaricazione, avidità e acculturazione forzata diviene missione civilizzatrice e ordinatrice voluta da Dio (o da un dio o dagli dèi, che non cambia nulla). Non è raro che gli uomini chiamino in soccorso la volontà divina per corroborare i loro punti di alienazione del valore e rendano sacro ciò che è abominevole. Persino il capitalismo con la sua etica di arricchimento a ogni costo pretende di essere il modello di società voluto da Dio.

 

Nota 5: è questo il vero senso dell’esaltazione evangelica della semplicità: soltanto il sapiente sa essere veramente semplice, mentre nel falso Cristianesimo si chiama “semplice”, e lo si loda detestando come atto d’orgoglio la ricerca della sapienza, il sempliciotto credulo, facile da indottrinare e dominare e da cui ricavare onori e riverenza.

 

Nota 6: infatti l’anima che cerca di ingigantirsi, e che dunque mente a sé stessa attribuendosi un valore illegittimo e spurio, è come sdoppiata, perché mentre da un lato riesce a credersi superiore agli altri e può raccontarsi di essere soddisfatta di sé, dall’altro sa benissimo che si sta ingannando e dunque la sua vita è tutta una fuga dal vero sé stesso, è tutta una lotta per evitare di guardarsi realmente e per negare la verità e ignorare la propria scontentezza. Questo lega ancora di più le anime ai loro punti di alienazione perché, dopo che una persona ha sacrificato tutta la sua vita a un idolo crudele e mai sazio, il suo punto di alienazione del valore, a cui è incatenata dal suo attaccamento, soffocando gli affetti più sani e rinunziando a ciò che più dolce rende l’esistenza (e cioè all’amore vero, l’amicizia col prossimo, e a una vita tranquilla, paga di piaceri quieti e colma di poesia), scoprire, quando è troppo tardi per recuperare quello che si è perso, che con ciò non si è ottenuto nulla, scoprire di avere sbagliato tutto, getta la persona nel più disperato terrore. E per difendersi da tale terrore è costretta a chiudersi ancora di più nel suo autoinganno.

 

Nota 7: posso qui raccontare un episodio fra mille e mille che mi è capitato di vivere. Molti anni fa un mio prozio, che aveva proprio questa configurazione spirituale, era ricoverato in clinica per un piccolo intervento; durante l’ora di visita ero lì insieme ad altri parenti ed egli, di fronte a noi, mise in atto una volgare manovra per umiliare uno dei paramedici (o forse era addirittura un medico? aveva un camice verde) che lo stavano curando. Disse ad alta voce: bisognerà che dia la mancia al tal de’ tali e con una banconota in mano lo chiamò nella stanza, salvo poi quando quello entrò e chiese: che c’è? voltarsi dall’altra parte, e, sempre con la banconota in mano, passare alcuni minuti chiacchierando del più e del meno. Rimase molto deluso, quando, voltandosi di nuovo per porgere la banconota al paramedico, si accorse che questi non era rimasto ad aspettare la sua mancia come un mendicante, ma se n’era andato indignato. Volevo sparire per l’imbarazzo; tra l’altro mi dissero che non era la prima volta che faceva una cosa del genere.

 

Nota 8: uno dei sensi dell’associarsi civile è proprio questo, che la collettività può realizzare ciò che l’individuo non potrebbe, a meno di sforzi soverchianti. Una comunità può avere un parco, per esempio, ma per mantenere un parco privato bisognerebbe sostenere tali costi da obbligare una persona a sacrificare al guadagno troppe energie, la vita intera, sicché le persone temperanti pagano volentieri le tasse cittadine pur di avere un bel parco pubblico da godersi. Al contrario, il superbo che non sa condividere alcunché e vuole usare il parco non per godere qualche ora all’aria aperta ma come esibizione di un privilegio esclusivo, potendo, impedisce agli altri di stare bene, perché non gli basta esibire i suoi lussi, deve dimostrare che chi non fa come lui ha sbagliato scelta, in quanto sarebbe insopportabile accorgersi che mentre lui si è venduto l’anima per arricchire, poi stanno bene anche i cittadini economicamente modesti. Penso, dunque, che il movente dell’evasione fiscale non è solo l’avarizia, ma anche questo odio verso il buon funzionamento della cosa pubblica, e certe situazioni di degrado o certi scempi si possono spiegare così, quando cioè chi ha in mano le leve dell’amministrazione pubblica ha una forma spirituale di questo genere. In un piccolo comune a 650 metri sopra il lago di Como, che conosco io per avervi trascorso tanti mesi estivi, ci sono numerose grandi ville di lusso, e nella mentalità comune godere di un bel panorama dal proprio giardino è uno status symbol; ma vi è anche un grazioso belvedere pubblico per chi non ha parchi e ville. Ebbene, il sindaco di un’amministrazione passata ha dato a qualcuno il permesso di installare una gigantesca e deturpante antenna proprio a coprire il punto panoramico più bello, e nell’area adiacente, che, ora che è stata bonificata, è adatta a pic-nic e a giochi dei bambini, aveva invece collocato una discarica di rifiuti, brutta e maleodorante. Non si capirebbe il perché di simili comportamenti dissennati se non si tenesse conto di quanto stiamo dicendo sui punti di alienazione. Una vicenda dello stesso tipo e, anzi, peggiore, stava per compiersi anche a Milano, dove le inchieste su Tangentopoli che hanno fatto cadere la vecchia classe politica hanno fermato per un pelo un progetto che voleva trasformare il vecchio zoo dei giardini pubblici di Porta Venezia in uno shopping center, rovinando così un piccolo parco storico e demolendo anche edifici d’epoca di tipica architettura milanese, e sottraendo ai cittadini l’unico spazio verde di cui goda questo quartiere. Tra l’altro, avevano già sgomberato gli ultimi animali rimasti; ed è vero che l’istituzione ottocentesca andava superata perché crudele verso gli animali in cattività, ma è vero anche che la vecchia elefantessa, quella dolce elefantessa che aveva passato la sua vita a divertire tanti di noi bambini milanesi degli anni Sessanta con i suoi numeri, quando ha capito che la trasferivano altrove, è morta d’infarto. Non credo che si tratti solo di avidità e speculazione, in un progetto tanto assurdo e deturpante traspare anche il movente della deprivazione e dello scempio di beni pubblici, in odio alle persone modeste. Forse quei “verdi” che stanno lottando da anni contro il beneamato assessore Goggi, il quale, novello Attila, ha progettato di distruggere quasi tutte le macchie d’alberi che ornano le piazze e le piazzette milanesi e danno ristoro nell’estate torrida di questa disgraziata città, per sostituirle con box sotterranei (pretendendo con questo di risolvere i problemi del traffico), osservandolo bene potranno riconoscere in lui una forma spirituale del tipo di quella che abbiamo tentato di descrivere.

 

Nota 9: per il significato di questa espressione vedi infra, §4.9.

 

Nota 10: la confusione tra legge di natura e volontà divina (cfr. anche supra, nota 10 al libro II) storicamente è un’incrostazione che nel Cristianesimo ha eclissato la vera dottrina del Cristo e proviene dalle abitudini mentali dell’uomo antico, dalla religione naturalistica dei greci e dei romani; è un errore particolarmente disastroso, perché, come si può ricavare dalla lettura del nostro precedente studio Il fondamento della ricerca, il mondo terreno è governato da leggi ingannevoli, e la Natura è una serie di forze che ottenebrano l’uomo, nascondendogli il vero essere e il vero bene e gettandolo nel male. Il vero pensiero di Cristo avrebbe condotto l’uomo a liberarsi dal male mediante la conoscenza del vero essere e a vincere il mondo, mentre il Cristianesimo storico si è fatto strumento delle forze ingannevoli che imprigionano l’uomo e spaccia il potere della Chiesa per vittoria sul mondo, quando esso è invece una vittoria nel mondo, che è cosa ben diversa: vincere il mondo significa liberarsi degli errori concettuali che provengono dall’identificazione col corpo aggregato e nascondono all’uomo la retta idea di bene e dunque lo ammalano di malvagità, mentre la vittoria della Chiesa nel mondo è pura espressione di smania di potere e non certo forza salvifica.

 

Nota 11: cfr. La Repubblica del 7 giugno 2003, pag.24. Sull’argomento avevo mandato una breve lettera alla rubrica della posta di E.Scalfari in seguito a questo articolo, firmandomi con un nome femminile, ma il direttore del quotidiano, in cui, evidentemente, ha più peso un irrancidito maschilismo che il valore della laicità, ha preferito pubblicare la missiva fumosa e prolissa di una signora in preda ai sensi di colpa e lacerata da dubbi irrisolti, dall’esito inconcludente e poco chiaro.

 

Nota 12: si veda su questo Il fondamento della ricerca, §§3.13-3.15 e libro IV.

 

Nota 13: posso citare a mo’ di esempio l’episodio con una persona che avevo conosciuto tanti anni fa, quando ero studente di musica, perché cercava qualcuno che l’accompagnasse al pianoforte negli esami di flauto. I suoi compagni di corso lo avevano soprannominato “agonia”, io, fra me e me, lo chiamavo “lo zombie”. Non era capace nemmeno di respirare se non glielo diceva la mamma; in compenso, essendo abituato a essere servito e riverito (la mamma gli faceva trovare gli abiti che doveva indossare piegati e stirati ogni mattina accanto al letto) si collocava al centro del mondo e riusciva a percepire soltanto sé stesso. Avevo tentato di portarlo in compagnia d’un gruppo d’amici e amiche, ma se ne stava sempre in un angolo, senza spiccicar parola, incapace di comunicare; salvo poi compiere una manovra predatoria nei confronti di una ragazza del nostro gruppo, che mi aveva gentilmente sostituito nel compito così sgradevole di star dietro al suo flauto (oltre tutto, la sua mamma stava continuamente appollaiata sulla mia tastiera e non le andava mai bene quello che facevo, non potevo nemmeno prendere un respiro prima della cadenza perché mi diceva che ero fuori tempo; non mi andava di suonare come un robot): le telefonò dicendo che aveva dei biglietti gratuiti per un concerto interessante, che avrebbe attratto qualsiasi studente di pianoforte, anche perché difficili da reperire, ma senza dirle che accettando l’invito si sarebbe trovata non in mezzo a un gruppo di amici, bensì sola con lui e i suoi genitori (l’immancabile mamma col marito, un ometto avvilito e insignificante). Meno male che la ragazza (un tipo libero e anticonformista, dotata di grande talento musicale) subodorò l’inganno e rifiutò l’invito: si sarebbe trovata invischiata in un fidanzamento tradizionale, e io mi sentii male al pensiero di quello che sarebbe potuto accaderle per colpa mia. Si noti la classica manovra del maschio prepotente e possessivo: pone alla donna una domanda alla quale non è possibile non rispondere di sì, come: vuoi venire a un concerto? e poi dà per scontato che la domanda a cui la donna ha risposto sì sia stata un’altra: vuoi fidanzarti con me? E se poi la ragazza tenta di chiarire le cose, le rinfaccia violentemente una promessa che si è inventato lui. Ecco, dunque, come si diceva nel testo, l’effetto che hanno sull’anima di un figlio le operazioni di una mamma alienata: inettitudine ed egoismo mostruoso, prepotenza, incapacità di comunicare e totale ottusità affettiva.

 

Nota 14: intendo dire che un simile esempio di autorità illegittima, violenta e distruttiva può indurre un giovane a rifiutare in toto il principio d’autorità, se è un’anima che non accetti di essere ridotta allo stato disumano che ho cercato di descrivere con il caso emblematico riportato alla nota precedente, mentre un’anima sensibile ed elevata con un tale mostro addosso (vivere con chi nega continuamente la tua capacità di intendere e di volere, soffoca i tuoi sentimenti e disprezza i tuoi desideri più nobili, e che ti vuol accollare a ogni costo le sue squallide scelte, rovinandoti la vita col pretesto di fare il tuo bene, è un inferno insopportabile, soprattutto quando si è giovani, incerti e bisognosi di guida) può vedere, quando a causa dell’età non può ancora sperare nell’indipendenza economica, come unica via di fuga la morte.

 

Nota 15: non mi dilungherò a descrivere la casistica riguardante il punto di alienazione delle ragazze o delle donne che cercano la “passione”. Vogliono un uomo ai loro piedi, si capisce, ed è vicenda troppo nota perché metta conto parlarne. Sottolineo solo come sia privo di scientificità parlare di “isteria”: quello di darsi importanza avendo come adoratore esclusivo un uomo è un punto d’alienazione come un altro, non un portato della natura femminile, come vorrebbe la psicoanalisi. Quanto alla fenomenologia dell’innamoramento, non ne sono affatto esperto, perché essendo precocemente risvegliato dalle esperienze nel mondo spirituale, anche quando non mi ero ancora munito di un completo apparato di idee scientifico e di un linguaggio rigoroso, ero comunque indifferente alle vicende del corpo terreno e ai suoi istinti, e dunque non mi sono mai impegolato in un rapporto di coppia né, tanto meno, ho avuto contatti sessuali con qualcuno. Chi vive il vero amore non sa che farsene della sua copia contraffatta, squallida e disgustosa. Ho vissuto da aner monachòs in mezzo alla folla della metropoli milanese per tutta la mia vita. Ma da quello che osservo e che mi racconta qualche amico, le persone di sesso femminile nell’innamoramento pretendono, a volte, di essere riverite come regine, esigono l’attenzione in esclusiva, si inventano un mucchio di capricci per attirarla, ma non sono così possessive e distruttive come gli alienati maschi, perché vogliono un uomo pieno di capacità utili alla sopravvivenza del costituendo nucleo familiare e dunque ne apprezzano l’intelligenza, almeno quella pratica; ed anche un ruolo prestigioso nella società è apprezzato dalle femmine nel loro maschio. Comunque, lo richiamano sempre al dovere se si distrae con qualche interesse scientifico o artistico che non rechi utile alla famiglia. Ma non sempre è un punto di alienazione, a volte è un semplice istinto. Le donne nell’innamoramento, e anche nell’atto sessuale, tendono a insuperbirsi meno dei maschi, perché, mentre per motivi culturali per l’uomo il rapporto di coppia e il sesso sono atti di dominio, nella donna sono atti di sottomissione; con le debite eccezioni, naturalmente, e tenendo conto che le cose stanno rapidamente cambiando nelle ultime generazioni. Ma mi sembra di poter dire che ancora oggi, al contrario del maschio, che ne fa un punto di alienazione, vi sono molte donne che danno importanza al legame di coppia non per ingigantire il proprio valore, ma perché si illudono di essere oggetto di reale interesse da parte del compagno, si illudono di essere considerate, e che vi sia davvero uno scambio affettivo; e non riuscendo a discernere tra l’interesse sincero e la smania possessiva di cui abbiamo parlato alla nota 8 del libro II del presente scritto, a volte si sentono legate a un compagno che le tratta in modo possessivo e violento (chiamiamo violenza anche quella che si esercita esclusivamente sul piano spirituale) dall’illusione di vedere soddisfatto il loro desiderio di considerazione affettuosa, e così si fanno loro stesse vittime di simili mostruosità.


LIBRO V.

 

 

 

 

 

IL MALE (II parte).


LIBRO V:

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

La radice dell’odio(5.1).

 

Il male dell’anima ha origine dall’identificazione col corpo aggregato che ingenera in lei ignoranza del vero essere(5.2). Non ne è responsabile l’uomo(5.2-5.3).

 

La domanda chiave(5.3).

 

Punti di alienazione del valore: essere buoni e santi(5.4-5.5); essere dediti al dovere(5.6.-5.8).

 

Punti di alienazione del valore: essere scientifici e razionali(5.9-5.11).

 

Invito all’osservazione fenomenologica(5.12).

 

Chiarificazione del concetto di male e malattia dell’anima(5.13).


5.1.Abbiamo terminato lo scorso libro IV con una notazione sull’invidia; vogliamo, in questo inizio di libro V, riprendere l’argomento. Osserviamo: se l’egoismo, che come dicemmo (cfr. supra, §1.2) deriva dall’identificazione col corpo aggregato, e dalla conseguente esigenza di provvedere ai suoi bisogni, è lo spegnimento dell’amore, gelosia(1) e invidia, che derivano dall’aver preso per bene l’ingigantimeno dell’ego, ne sono il rovesciamento completo, sono cioè forme di odio. L’anima, se è illuminata dalla retta visione dell’essere, dall’uguaglianza con le altre anime prende valore, perché sa che tutti gli atti di coscienza dell’essere, tutti insieme, sono l’essere e dunque, tutti insieme, sono il bene. Un’anima isolatamente, se fosse sola, non potrebbe dirsi il bene, perché non esprimerebbe rettamente l’essere infinito, l’infinita potenzialità del pensiero, essendo un essere finito: sarebbe una menzogna e non la verità e noi chiamiamo bene l’essere che esprime rettamente sé stesso, non quello che mente. Ma, come già dicemmo (cfr. supra, §3.3), l’uomo, invece, dall’uguaglianza con gli altri esseri umani ricava solo discredito e disprezzo di sé, se crede che il corpo aggregato sia il vero uomo e il mondo dei corpi aggregati sia la vera realtà, perché in questa realtà fittizia l’uomo è debole, effimero, costretto a bassezze, e la sua vita manca di significato; e i condizionamenti culturali, come si è visto, peggiorano le cose in questo senso. Dunque, se l’anima che prende valore dalla fratellanza con le altre anime le ama, l’essere umano, che invece dalla fratellanza con gli altri esseri umani si sente svalutato, li odia. E’ qui la radice dell’odio, nel rifiuto della forma umana. Il superbo non vuole essere umano come gli altri e vuole tenere distanti tutti gli altri uomini, non vuole avere niente in comune con loro. Insistiamo qui su questo punto, perché è molto importante.

5.2.Ma focalizziamo l’attenzione su una cosa già detta, che però vogliamo rammentare qui dopo aver provato quel po’ di inevitabile disgusto per i difetti delle varie forme spirituali schematizzate nel libro appena scorso: quello che provoca il male nell’anima dell’uomo è l’identificazione col corpo aggregato. Nessun uomo è responsabile del proprio stato di ignoranza ed ottenebramento: egli lo subisce. L’anima che si è ammalata di superbia è così perché ha subito una lesione: abbiamo visto che se si dà credito alla nostra analisi, il bisogno di darsi un valore illegittimo consegue alla sensazione di svalutazione, che è una lesione nell’anima prodotta dalla debolezza e dalla mortalità del corpo aggregato. Nessun uomo è responsabile dell’esistenza dei corpi aggregati e del mondo della simulazione. Abbiamo visto ne Il fondamento della ricerca che le forze che aggregano i corpi e che fanno funzionare il nostro sistema nervoso sono intelligenze nascoste, per noi misteriose, che hanno creato, aggregando materia (cioè atomi, elementi spirituali), la simulazione di un mondo dove gli oggetti sono fatti di una materia estesa che sembra eterogenea al pensiero, collocati in uno spazio che sembra extramentale, governati da leggi naturali che sembrano meccanicistiche. Non possiamo sapere che intenzioni abbiano queste forze intelligenti nei nostri confronti, ma possiamo sapere che effetto ottengono: ammalare la nostra anima, abbiamo visto come.

5.3.Se l’anima non lotta contro il male che viene provocato in lei, è perché non può: non ne ha la forza. La forza che servirebbe all’anima per vincere il male, che è la propria ignoranza dell’essere e di sé stessa e dunque del bene, è la volontà(2) di bene, ovvero l’amore per la verità, che è il bene. Ma come può amare la verità e volerla se non sa che essa è il bene? Come può volere la verità se crede che il suo bene maggiore sia ingigantire il proprio valore, cioè mentire? Come può amare la verità se si illude di trovare maggior soddisfazione dall’illusione e dunque dalla menzogna? Che cosa può spingerla ad abbandonare le sue soddisfazioni illusorie e cercare il vero bene? Abbiamo detto (cfr.supra, §1.4) che il solo mezzo per riaccendere nell’anima l’amore di sé e dell’essere che si era spento e guarirla dunque dal bisogno di ingigantirsi è ripristinare in lei la retta idea di essere. Già, ma come fare? La nostra ontologia è pronta da ventiquattro secoli, ma quando qualcuno si è provato a diffonderla, è andato incontro al fallimento. Socrate è stato giustiziato, Platone è rimasto inascoltato, e Cristo è stato crocifisso due volte, una volta nella carne terrena e una volta nello spirito, quando cioè la sua dottrina, che è il suo corpo spirituale, è caduta nelle mani di Roma ed è stata guastata e trasformata in quell’abominevole congerie di superstizioni e dogmi irrazionali che passa oggi per Cristianesimo, il quale, ben lungi dall’essere una religione salvifica, è invece proprio ciò che inceppa il cammino degli uomini verso la verità e li ammala di più. Noi oggi ci troviamo nella dolorosa situazione di un medico, che in mezzo a un’epidemia terribile e mortifera di peste, ha in mano il farmaco, ma non può somministrarlo a nessuno perché gli ammalati, tutti resi folli dalla peste, non vogliono guarire e rifiutano la medicina, magari azzannando il medico che gliela offre o tentando di convincerlo ad ammalarsi anche lui, perché scambiano la malattia per salute e la salute per malattia. Finché non sapremo rispondere alla domanda: che cosa può dare all’anima la forza di abbandonare le sue soddisfazioni illusorie e cercare il vero bene? come far sì che l’anima accorgendosi di essere ammalata, desideri guarire? fino ad allora ci troveremo in questa triste condizione.

5.4.Dunque non biasimiamo le anime involute nel male, trepidiamo per il loro destino. Ma riprendiamo il discorso sui punti di alienazione del valore. Nel presente libro vogliamo presentarne di due tipi: chi vuole credersi più buono e santo degli altri; chi vuol credersi più razionale, o intellettuale o scientifico degli altri. Iniziamo dal primo e vediamone il rapporto con la religione. Chi non ha cercato la verità, ma si è accontentato delle credenze tradizionali e dei riti come mezzi di salvezza, e di tutto ciò che impone ufficialmente l’istituzione al potere, evidentemente, non ama la verità, altrimenti la cercherebbe e non si appagherebbe di una falsa immagine di essa. Non ci sono, dunque, credenti in buona fede; se fossero in buona fede avrebbero la volontà di cercare, e troverebbero, perché chi cerca, trova; e non sarebbero credenti, ma sapienti. La fede cieca serve a chi ha fretta e vuol dedicarsi ad altro (cioè ai suoi attaccamenti e legami col mondo terreno) che alla ricerca della verità, che è lunga e faticosa e richiede un impegno totale, e cionondimeno vuole dirsi salvo; inoltre, come già abbiamo accennato (cfr. supra, nota 4 al IV libro), la religione fornisce supporto ideologico ai punti di alienazione e ai poteri forti che li traducono in istituzione, e dunque la sua fenomenologia patologica è sterminata. Non possiamo occuparcene qui, ma bisognerà affrontarne lo studio in monografie apposite. Qui ci limitiamo ad osservare l’anima che abbia come punto di alienazione la bontà erroneamente intesa come devozione a un Dio onnipotente. Questo tipo di anima accetterà negligentemente il sistema di valori imposto dalla religione, senza indagare se siano valori veri o fasulli. Ha fretta, infatti, di trovare un modo per ingigantirsi, e non può prendersi l’agio di studiare e riflettere. Ma, poiché, come si può osservare in sede di studi storici, da quando il Cristianesimo è diventato la religione ufficiale di Roma, si è iniziato a chiamare morale cristiana quello che era il sistema di valori tradizionale romano, proprio quello che Cristo si era affaticato a combattere nella sua vita, e cioè quella morale che fondandosi sull’identificazione col corpo aggregato, impone come doveri gli interessi della specie terrena e sacralizza erroneamente la vita intesa in senso biologico, si capisce che una simile anima si troverà, illudendosi di servire Dio, a fare gli interessi di quelle intelligenze che ci vogliono imprigionati nella simulazione, lontani dalla verità e dal vero essere, e perciò dal bene, e li servirà con zelo fanatico, dato che il suo scopo è quello di mostrarsi superiore per devozione e osservanza. Racconterà a sé stessa di essere buona, scambiando piaggeria e adulazione verso quel presunto onnipotente(3) per bontà, e tenderà a disprezzare il prossimo in una fantasmagoria di comodo dove tutti sono colpevoli e peccaminosi, inventandosi magari di classificare come colpe quelli che sono invece comportamenti perfettamente legittimi, se non addirittura meritori. Si trasformerà cioè in un mostro tanto presuntuoso quanto inetto e terribilmente aggressivo.

5.5.Inoltre, chi nella religione non cerca la verità ma ingigantimento di sé e distinzione dalla normalità umana, tenderà a enfatizzare la fede e i suoi enunciati irrazionali disprezzando la ricerca razionale. Poiché il sapere razionale è condivisibile, non gli interessa. La verità dimostrata non serve al suo scopo, che è quello di procurarsi meriti speciali: che merito c’è nel credere a ciò che è dimostrato? Son capaci tutti. Credere a ciò che è incomprensibile, misterioso, perfino assurdo, questo sì che è un merito! E’ solo così che uno può dirsi speciale. L’irrazionalità e il misologismo della dogmatica cattolica uscita dai quattro grandi concili del IV e V secolo fa al caso loro(4). Dimenticano una cosa: che Cristo è logos, cioè pensiero logico, e dio è l’essere che ha coscienza e conoscenza di sé, e per conoscersi bisogna capirsi, e per capirsi bisogna applicare la logica; Dio è essere, cioè pensiero e infinite coscienze, che sono le sue rappresentazioni, ma se una rappresentazione non è razionale è errata e dunque non è immagine dell’essere, non è dio. La sua fede cieca è per noi menzogna, tutta la sua devozione è per noi ripugnante piaggeria, e la sua anima, ben lungi dall’essere buona, e cioè sana, è invece malata gravemente di superbia e di tutti i vizi che ne conseguono.

5.6.Ma anime di questo tipo, che hanno scelto cioè come mezzo per ingigantirsi una bontà erroneamente intesa, non stanno solo nella religione, ce n’è anche nel mondo secolarizzato. Sono i cosiddetti “doveristi”. Il concetto di dovere andrebbe cancellato dal nostro vocabolario: un’anima sana non fa nulla per dovere, ma tutto per amore. Se fai una cosa per dovere, vuol dire che la fai per costrizione, contro la tua volontà, cioè contro il tuo desiderio (perché la volontà è un tipo di desiderio); ma dunque non la senti come un bene, perché, per definizione, sentire una cosa come un bene significa desiderarla. Che cosa ti spinge a fare una cosa che non ti sembra un bene contro la tua volontà? Evidentemente, il desiderio di approvazione sociale: chi fa il dovere, reprime i suoi impulsi più sinceri (razionali o irrazionali che siano) per fare ciò che la società terrena impone al fine di conservare e accrescere sé stessa, perché ha più peso per lui ottenere il plauso della società, godere di buona reputazione, essere ammirato nel suo ambiente, che soddisfare gli altri desideri. Il punto di alienazione di chi fa il dovere, dunque, è l’approvazione sociale. La società chiama dovere tutta quella serie di falsi beni che derivano dall’idea errata di essere e dunque dall’identificazione col corpo aggregato: è un dovere sopravvivere e procurarsi il benessere, è un dovere fare figli e mantenere la famiglia, è un dovere la fedeltà coniugale, è un dovere servire lo stato terreno e renderlo potente e prospero, è un dovere riverire le autorità, obbedire ai genitori e curarsi di loro quando sono vecchi, e così via. Tutto ciò che si chiama dovere è bene falso. Quando noi cerchiamo il vero bene non lo facciamo per dovere, ma perché lo amiamo, e l’amore è la forza libera dell’anima, non si può amare per dovere o per comandamento, per definizione: se l’amore è il desiderio ovverosia la volontà di bene, non si può amare per dovere o per comandamento perché non si può volere contro la propria volontà, o desiderare contro al proprio desiderio, per il principio di non contraddizione(5). O l’amore è libero o non è amore. E se desidero e voglio il bene, cioè se amo, non c’è bisogno di un comandamento che mi imponga di amare per dovere: quando percepisco una cosa come bene, la desidero, senza che nessuno me lo comandi. Dunque se faccio una cosa per dovere, non la amo e se la amo non la faccio per dovere. Se aiuto il mio prossimo sinceramente, non lo faccio per dovere, ma perché lo amo; se dedico tutta la vita alla sapienza sacrificando carriera, prestigio, ricchezza e così via, è perché amo la sapienza più di quei falsi beni, non perché è un dovere… Chi fa le cose per dovere vuole l’approvazione pubblica, e perciò ha bisogno di esibire in pubblico tutto quello che fa; chi ama il bene se ne sta nascosto senza badare ai giudizi dei benpensanti su di lui, né ha bisogno di mostrare ad alcuno la propria sapienza e il proprio amore. Tutto quello che spera è di poterla un giorno condividere con qualcuno che l’accetti, ma non adegua il suo sistema di idee e di valori al sentire comune, per cercare approvazione e plauso; il suo motto è: “mi lodano? E che ho fatto di male?(6)”

5.7.Il “doverista”, invece, accetta il sistema di valori comune, perché deve andare incontro alle concezioni correnti per essere approvato e ammirato in società; sicché il comportamento del “doverista” cambia a seconda di quello che nel suo gruppo sociale viene ritenuto dovere. Per esempio, qui a Milano è dovere far soldi, è questo che fa contenti i genitori, che il figlio si dedichi all’arricchimento. Perciò tutti questi ricchi indaffarati fanno mostra d’esser bravi figlioli e sanno raccontarsi che arricchire e diventare imprenditori è un merito sociale, anche perché così si creano tanti posti di lavoro (come se in una forma economica scevra da rapporti di sfruttamento e in una società meno sperequata fosse inderogabile che tutti se ne rimangano con le mani in mano senza saper che fare), e presentano come un atto di generosità quello di andare nei paesi sottosviluppati a sfruttare il lavoro a basso costo, perché è un merito dar lavoro ai poveri… Insomma, il concetto di dovere è così flessibile, almeno in questa città disgraziata, che quello che è un abominevole atto di sfruttamento viene fatto passare per azione encomiabile e doverosa. Per il milanese medio, che non arriva all’ingigantimento del patrimonio, ma che riesce comunque a trovare il modo d’ingigantire il suo ego, il dovere che elegge a suo punto di alienazione è dedicare la vita al lavoro. La devozione agli uffici e alle aziende qui ha preso il luogo dello zelo religioso. Ho conosciuto una signora che si credeva buona, brava e perfetta perché ha passato la sua vita a lavorare devotamente per l’industria della Coca-Cola. Tu vivi in un mondo tutto tuo, ricordo che mi disse. Non ho avuto cuore di avvisarla che il vero mondo non è la fabbrica della Coca-Cola e che il vero bene non è il suo profitto. Comunque, ella qualcosa ha ricavato da sessant’anni spesi a fare la segretaria devota di un pezzo grosso arrogante e superbo, che lei, chissà perché, ammirava sconfinatamente, quasi adorava: quando è andata in pensione l’azienda le ha regalato un orologio Rolex. E così dicasi per tutte quelle personalità saputelle che disprezzano come capricci infantili tutto ciò che non sia saper stilare un contratto o scrivere una lettera commerciale, appiccicare una marca da bollo e seguire un iter burocratico, saper scaricare dalle tasse quello che c’è da scaricare e cose del genere. Una mia vicina di casa, una di queste segretarie d’azienda che si credono perfette perché passano la vita in ufficio e ritengono ogni altra attività un acchiappamento di nuvole, una volta mi invitò gentilmente a pranzo insieme ad altre persone della sua famiglia, approfittando poi della situazione per farmi capire che mi considerava pressocché un deficiente, visto che mi dedicavo per tante ore allo studio e alla lettura (mi vedeva tutto il giorno sotto al portico con un libro in mano, questo deve esserle sembrato proprio una bizzarria) invece di fare il mio dovere e trovarmi un lavoro d’ufficio e metter su famiglia; ma, bontà sua, mi comunicò anche che in fondo mi tollerava, come si tollera lo scemo del villaggio, dicendo con tono di accondiscendenza: il mondo è bello perché è vario. Ho apprezzato lo sforzo.

5.8.Ah, povero Agis, che gli tocca sopportare! Mi scuso per lo sfogo autobiografico. Ognuno troverà nel suo ambiente tanti casi di un simile sfoggio di “doverismo” sicché non mette conto dilungarsi oltre. Vorrei solo aggiungere che le cose diventano estremamente tragiche quando una donna senza alcuna vocazione per la maternità si impone di fare un figlio per dovere. Devo dire che in questo campo sono veramente esperto, perché, a suo tempo, sono stato, appunto, uno di questi figli messi al mondo esattamente per questa ragione. Una madre che fa così, ti odia fin dall’inizio, perché le sei stato imposto dalla società (la pressione dei nonni, in particolare, sa essere pesantissima) e le hai rovinato la vita, sicché per tutta la tua infanzia riuscirà a comunicarti un solo sentimento dominante: il suo rancore verso di te, il fastidio di doverti accudire, e quanto ti considera colpevole solo per il fatto di esistere… non è piacevole. In compenso, ti usa come oggetto da esibizione e quando ti porta in giro, volendo dimostrare per mezzo tuo che è una madre perfetta ti lustra come un damerino e ti agghinda con abiti di lusso, scomodissimi per un bambino che ha bisogno di sviluppare le sue capacità motorie; e di fronte alla famiglia recita il ruolo della casalinga perfetta: tutto inutilmente lucido, tutto inutilmente spolverato(7); ma più lavora, più te lo fa pesare. E poiché sa benissimo di essere una madre fredda e inadeguata, tenta di rassicurarsi raccontandosi che per te fa tutto ciò che occorre, che non potrebbe darti di più, che non ti fa mancare nulla: in pratica, cercherà di ingozzarti con cibi di lusso, perché questa è l’unica cosa che sa fare, completamente incapace com’è di capire i tuoi veri bisogni, e di ascoltare e rispettare i tuoi desideri legittimi e le tue inclinazioni, convincendosi che questo è tutto ciò che ti occorre, cibo a sufficienza, a iosa. Ma il bambino, che sente benissimo che quell’offerta di cibo non è accompagnata da amore ma da un sentimento malsano, l’ansia di chi sta mentendo a sé stessa in una fantasmagoria di comodo, lo rifiuta, gettando la madre nel panico ed esasperandola. Bisognerebbe indagare se alla base di tante vicende che vedono le madri assassinare atrocemente il loro figlio piccolo non ci sia una situazione di questo genere. Ma, a onor del vero, devo dire che mia madre non mi ha assassinato, se non nello spirito(8); perché diventi un caso di cronaca nera, la situazione deve complicarsi ancora di più. Ho osservato spesso nella mia vita, e questa è una delle cose che mi hanno fatto soffrire di più e mi hanno spinto verso la riflessione e l’indagine, che troppe persone rifiutano di avere sentimenti: tutto ciò che dovrebbe fare tenerezza, tutto ciò che è bello e dovrebbe suscitare compiacimento estetico o gioia, provoca invece in moltissime persone sentimenti di rifiuto che vanno dal fastidio e dalla semplice insofferenza a tutta una serie di sentimenti negativi di grado crescente, fino a uno spaventoso odio distruttivo (mi viene in mente l’esempio di un orribile anziano, che quando vedeva dei micetti appena nati nel suo cortile, li seppelliva vivi). Mi sono a lungo chiesto perché, cercando a lungo di capire queste persone, fino ad arrivare a quella conclusione che già ho esposto nel presente testo (§§3.3-3-7), e che è alla base della nostra teoria psicologica: il rifiuto della forma umana. Sentimenti e desideri ti fanno sentire umano, ma se sentirti umano ti terrorizza perché per secoli ti hanno inculcato che essere umani significa essere spregevoli e senza valore, tutto ciò che suscita in te sentimenti e desideri ti terrorizza e tu lo odi. Ora chiediamoci: che cosa succederebbe se una donna che abbia un’anima di questo tipo, affetta a grado grave da tale lesione che provoca in lei il terrore di dirsi umana, e che dunque tende a rifiutare i sentimenti che la fanno sentire umana odiando chi in lei li suscita, fosse anche, contemporaneamente, una “doverista”? Si troverebbe, evidentemente, in un impasse, perché recitando il ruolo della mamma perfetta per ingigantire il proprio ego, e dunque occupandosi del neonato, inevitabilmente sentirebbe in sé sorgere quei sentimenti di tenerezza che le creature piccole e indifese suscitano in tutte le anime. Se la superbia è molto approfondita, se il disprezzo per la forma umana è allo stadio grave, l’anima non è capace di “sciogliersi” e di accettare questi comuni sentimenti umani; nei casi più gravi questo può suscitare in lei una reazione di collera violenta verso la causa di quel sentimento intollerabile che la terrorizza (9).

5.9.Il secondo punto di alienazione che ci eravamo proposti di osservare in questo V libro è quello di chi vuole credersi più scientifico e razionale degli altri. Come chi è religioso ha fretta e si appaga della prima immagine di verità che trova nella cultura comune, anche il razionalista si appaga del primo modello di razionalità che trova nel comune mondo scientifico: è sufficiente negare tutto ciò che è soprasensibile, per accreditarsi come razionale. Il razionalista (cioè colui che abusa del termine ragione, chiamando razionale quello che non lo è affatto) sarà massimamente zelante nel negare le cause spirituali delle cose (che è irrazionalità, visto che è trasgressione al principio di ragion sufficiente(10), inoltre in questo modo, contraddittoriamente, la ragione nega sé stessa, perché la ragione è spirito), e come l’anima religiosa si lascia andare ad atteggiamenti colpevolizzanti nei confronti del prossimo, il razionalista non vedrà l’ora di disprezzare come irrazionali tutti quelli che ha intorno. E come i bigotti, quando avevano un po’ di potere, perseguitavano gli eretici e le streghe perché portatori di altre sapienze, i razionalisti, intolleranti verso modelli di pensiero diversi dal loro, perseguitano i malcapitati che per innocente curiosità o per ingenuità o eccesso d’entusiasmo, o anche per smania di esaltazione, si dedicano al cosiddetto “paranormale”(11). Tutti noi ricordiamo le battaglie razionaliste di un Piero Angela contro le medicine alternative, le tecniche orientali per il corpo e tutto ciò che non avesse l’imprimatur di scientifico da parte della cultura ufficiale; ricordo in particolare un episodio in cui umiliò tanto un’ingenua astrologa(12) fino a farla piangere in diretta TV. Tanto  zelo sarebbe degno di miglior causa: è facile prendersela col paragnosta di turno, e svergognarlo con metodi empirici più o meno forzati o argomentazioni più o meno artificiose, ma è vigliaccheria prendersela con i più deboli. Mai visto il medesimo giornalista impegnarsi a combattere l’irrazionalismo al potere, quello dell’istituzione ecclesiastica o quello nascosto e strisciante nella scienza ufficiale: la ciarlataneria degli psicoanalisti, per esempio. Un vero scienziato rispetterebbe i fenomeni e non li negherebbe per partito preso, ma li indagherebbe con il retto metodo, con serietà e con sincera curiosità. E’ ovvio che a questo tipo di persona non interessa nulla accrescere la propria scienza, quello che cercano codesti razionalisti è di credersi razionali con poca spesa, umiliando il prossimo e così ingigantire sé stessi.

5.10.Inoltre, il razionalista è convinto che provare sentimenti significa essere irrazionali, scambiando così, tragicamente, la cecità affettiva e l’insensibilità per razionalità. Noi abbiamo visto che chi è più razionale e capace di logica, meglio vede l’idea di bene e dunque più intensamente ama, perché amare qualcosa è intenderla come bene, e che dunque i desideri razionali provengono, appunto, dalla scienza stessa dell’essere e del bene, e che sono irrazionali solo quegli affetti che abbiano origine dagli errori concettuali sull’essere per via dei quali l’anima scambia per bene quello che non è bene affatto. Questo disprezzo per l’affettività umana è, evidentemente, un succedaneo laico del disprezzo per l’uomo caduto e corrotto dal peccato della visione religiosa(13). Anche il razionalista disprezza l’uomo, perché vede la coscienza come un sottoprodotto della sua assurda materia inerte ed extramentale che si evolve a caso, e dunque non accetta di condividere la forma umana con gli altri uomini, convinto che essi siano per natura esseri bruti e privi di ragione, e vede la via d’uscita dall’insopportabile eguaglianza col prossimo nel farsi intelletto sommo, sicché negando l’esistenza di un mondo di spiriti liberi e sapienti (ha buon gioco nel negare l’assurdo Dio creatore onnipotente della religione, e con questo crede di poter negare in toto  il soprasensibile), usurpa il ruolo di massima intelligenza dell’universo, e “si siede additandosi come Dio nel tempio di Dio (2Ts, 2,4)”(14). Questa è la fantasmagoria di comodo dell’uomo pseudoscientifico.

5.11.E naturalmente questo lo si vuole spesso ottenere in fretta e con poca spesa: quale altra pseudoscienza può far sentire onnipotenti e onniscienti se non la psicoanalisi(15)? Essa dà agio al sedicente terapeuta di esercitare un potere sconfinato sul suo paziente, quello di negare la sua capacità di intendere e di volere, e di soddisfare la propria superbia mediante una fantasmagoria di comodo nella quale egli rappresenta sé stesso come massimo intelletto, capace di sondare il mistero, l’abisso ignoto dell’animo umano, impenetrabile per le persone comuni. Non c’è da sprecare troppo tempo e troppa energia per impararne il metodo, che è: quel che mi salta in capo, è oro colato. Ben lungi dall’osservare umilmente e con pazienza il male dell’anima nella sua normale banalità, che non servirebbe alla sua smania d’esaltazione, il sedicente terapeuta si inventa vicende psichiche complesse ed oscure, delle quali esibisce interpretazioni profonde completamente infondate e confusissime, che tirano in ballo a sproposito miti greci, presunti archetipi da pescarsi nei riti dei primitivi e nelle credenze dei selvaggi; entità misteriose come l’inconscio e il superego e chissà che altro; leggi inderogabili completamente inventate come quella del transfert, del ritorno del rimosso, della sublimazione; parla di meccanismi, di scissione dell’ego, di introiezioni e proiezioni, pretende che certi sintomi derivino, con spiegazioni di un intricato quanto improbabile simbolismo, dall’isteria… il tutto condito con un’interpretazione dei sogni arbitraria e farneticante(16). Tutto questo ha una sola funzione: trascinare il paziente in uno scenario fittizio nel quale il sedicente dottore fa mostra di essere unico conoscitore dei segreti della coscienza e dell’inconscio, delle occulte leggi della natura, dei misteri e delle indicibili complessità dell’essere, mentre al paziente viene accollato il ruolo di essere irrazionale, incapace di conoscere e governare sé stesso (se lo fa gli viene detto che è un represso, vittima del suo mostruoso superego, e che i suoi desideri più autentici, che sono quelli più bestiali possibile -si capisce- così rimossi torneranno sotto forma di sintomi e lo faranno ammalare), e gli viene imposta una normalità che altro non è che bassa forma animalesca, priva di ogni nobile aspirazione. Attenzione a simili mostri perché sono ciarlatani farneticanti e pericolosi, sono folli spiriticidi. Non cura l’anima chi la spodesta, negando le sue capacità, chi le nasconde la sua vera natura di pensiero potenzialmente logico e nega la sua autonomia, perché, come abbiamo già più volte ripetuto, l’anima sana è quella che conosce la retta idea di essere, che è pensiero e coscienza, sa di essere l’essere e lo ama, e si ama; e sa di essere autonoma nel darsi la materia, che è immagine della coscienza, e la forma, che è immagine dei contenuti della coscienza, cioè della serie di idee mediante cui ella si pensa liberamente e si conosce e delle tendenze affettive che da tali idee rampollano. E l’anima può difendersi dal male e guarire, confutando quegli errori concettuali sull’essere e sul bene che la sviano e l’ammalano, solo se vuole farlo ed è autonoma nel farlo; se l’anima viene privata della sua autonomia con l’inganno, convincendola a pensarsi succube di qualche processo meccanico, o determinata da qualche forza esterna inderogabile, ella peggiora nella sua malattia, le viene interdetta la via della guarigione, avendo perso le sue capacità e avendo dimenticato il suo valore. Questo è il mondo alla rovescia, già lo dicemmo, dove si chiamano sapienti gli stolti, dove si spacciano per sacerdoti coloro che ottenebrano l’anima con dogmi irrazionali, falsi valori e riti superstiziosi, per privarla della sua autonomia e dominarla, e dove si presentano come terapeuti dell’anima coloro che, come minimo, ne ignorano completamente la vera natura e scambiano la sua salute per malattia e la sua malattia per salute, come massimo degli esseri folli di ferocia, pieni di gelosia e invidia nei confronti del prossimo, che hanno come unico scopo annullarti ed esaltare sé stessi. Siamo nel mondo alla rovescia, bisogna fare molta attenzione, perché qui si spacciano per dottori i matti.

5.12.Non pretendiamo di elencare qui in maniera esaustiva i possibili punti di alienazione del valore che possono presentarsi nell’esperienza umana: abbiamo voluto soltanto dare qualche esempio, scegliendo dalle vicende più comuni della vita quotidiana, per chiarire più possibile quello che intendiamo significare con questo termine che non fa parte del linguaggio consueto, ma che abbiamo coniato noi (nel 1983, traendo il concetto dalle tesi platoniche di Severino Boezio, nella Consolatio Philosophiae, la sua opera più nota) come nuovo strumento al servizio della cura dell’anima. Ci siamo ricollegati a una tradizione molto antica, quella che parla di immagini illusorie di bene che ingannano l’uomo, che è tema fondamentale della filosofia socratico-platonica; abbiamo anche usato i termini “attaccamento” e “idolo”: l’idolo è un bene illusorio che produce nell’anima attaccamento, cioè una tendenza fortissima, difficile da sradicare, ed è dunque sinonimo di “punto di alienazione del valore”. Questi due termini dovevano essere chiari e scientificamente definiti nel Cristianesimo autentico; invece, difettando completamente al Cristianesimo storico una comprensione scientifica dell’anima, vengono usati oggi, come lo erano nell’evo di mezzo, in maniera nebbiosa e a sproposito. Ora il Lettore attento e incline al bene, che abbia la buona volontà di osservare sé stesso e gli altri uomini potrà scoprire da sé una casistica sterminata di questo fenomeno: mentre il vero bene è uno solo, la conoscenza che l’essere, il pensiero infinito, ha di sé, di punti di alienazione del valore ce n’è una varietà inimmaginabile, quali più comuni, quali strani, quali di profilo apparentemente elevato, quali assurdi e meschini. Avevo un compagno di studi all’università che riusciva a sentirsi superiore perché arrivava prima degli altri a procurarsi i programmi d’esame: giocava a fare il professionista accademico che conosce le bibliografie! E’ chiaro che tentare di elencare tutti i punti di alienazione del valore possibili, o anche solo quelli che mi è capitato di osservare effettivamente durante la mia vita, renderebbe questo scritto ipertrofico e per nulla maneggevole, perciò mi fermo qui. Ma prima di arrivare alla conclusione del presente studio, ci manca ancora di affrontare un argomento: che cosa  succede alle persone che, per motivi contingenti, non riescono a darsi sollievo, a lenire la sofferenza di dover vivere nella condizione lesa e svalutata dell’essere umano perché non sono riuscite a realizzare la propria fantasia di ingigantimento? Lo vedremo nell’ultimo libro di questo scritto, dove tra l’altro troveremo la risposta al quesito -il Lettore se ne ricorderà- che avevo posto nel prologo del presente studio, quello che si era affacciato alla mente di un ingenuo e attonito Gregorio Agis ancora liceale e che da allora per lungo tempo era rimasto in sospeso.

5.13.Ma, prima di affrontare l’argomento conclusivo, vorrei focalizzare l’attenzione su una cosa importante. Il Lettore attento se ne sarà già reso conto: noi non troviamo la malattia dell’anima nei sintomi di anormalità, nei comportamenti vistosamente devianti rispetto alla cosiddetta norma, in fenomeni inquietanti ed eccezionali come allucinazioni, sdoppiamenti della personalità, delirio, comportamenti strani o fissazioni e sintomi fobici(17). No: noi, dopo aver fondato la retta ontologia e definito l’essere e aver ripristinato dunque l’idea di bene e la corretta concezione di salute dell’anima, abbiamo trovato il male proprio in quella che gli uomini considerano normalità, e la malattia dell’anima nei comportamenti considerati più normali, che vengono comunemente accettati nella società umana. La radice del male è l’ignoranza, che proviene all’anima dall’essere aggregata con un corpo terreno, che la nasconde il vero essere e dunque il vero bene: dunque la radice del male è la stessa condizione umana in quanto tale, e la malattia dell’anima è quella che gli uomini chiamano normalità: la norma terrena è legittimazione del male. Non è lo “schizofrenico” che sente le voci ad avere una personalità scissa(18), ma l’anima incoerente, complicata da tendenze in contrasto fra loro, lacerata tra il dovere, cioè l’esigenza di approvazione sociale, e il desiderio degli altri falsi beni, le soddisfazioni individualistiche; non è l’”isterico” ad avere comportamenti aberranti e patologici, ma le persone che normalmente (dal punto di vista umano) si esaltano nell’innamoramento e sfogano nel rapporto di coppia la loro possessività e il loro egocentrismo; non è il “ritorno del rimosso” a produrre sintomi patologici, ma è invece segno di malattia tutta quella serie di comportamenti ben accettati e, anzi, a volte encomiati dalla società che abbiamo descritto nell’anima in preda ai suoi punti di alienazione. Le famiglie normali, il mondo del lavoro, le chiese, gli studi medici, le scuole, le università, le sedi del potere, le strade e le piazze delle nostre città, il nostro mondo intero, questo è il teatro del male, non l’ospedale psichiatrico. La vita umana normale è il campo di esperienza del male; la normalità umana è malattia. Storia umana è sinonimo di esperienza del male, di viaggio attraverso le diverse forme spirituali guaste e distorte che si succedono nelle varie epoche, prodotte dalle varie culture; la storia umana è il luogo dove si mostrano in tutta la loro devastante tragicità gli effetti del male.


NOTE AL LIBRO V.

 

Nota 1: per essere precisi bisogna distinguere tra quella gelosia che è un istinto e che hanno anche gli animali non umani quando lottano per il possesso di una femmina dalla gelosia che è una tendenza dell’anima individuale, e precisamente il desiderio di chi presume di possedere un bene ma lo vuole in esclusiva, impedendo agli altri di raggiungerlo. A volte istinto specifico e tendenza individuale si giustappongono e si sommano in una stessa anima.

 

Nota 2: la volontà si distingue dal desiderio, perché è la facoltà che ha l’anima di mettere in atto nell’immediato quel desiderio che senta come più impellente e realizzabile. Definiamo dunque volontà la facoltà di scegliere quale bene sia di prima istanza in una situazione precisa; va da sé che l’insieme delle volizioni (atti della volontà) è un sottoinsieme dell’insieme dei desideri, e che la volontà è una specificazione del desiderio. Anche la volontà, dunque, come tutti i desideri può essere razionale, quando l’anima che vuole trae le sue decisioni dalla visione della retta idea di bene, oppure irrazionale quando l’anima è guidata nelle sue scelte da false concezioni sul bene. Quando la volontà vuole il bene, quello vero, si chiama anch’essa amore (cfr. supra, §§1.3;2.1-2.3). Nell’intellettualismo socratico (l’asserzione che l’anima vuole sempre il bene ma se fa ciò che desidera, quando sbaglia desiderando un falso bene, non fa ciò che vuole) si usa il termine volontà, volere come sinonimo di “generica facoltà di scelta “, “facoltà deliberativa”; si intende dire che in ogni suo atto decisionale l’uomo è guidato dall’intenzione di arrivare al bene, ma che non sempre ci riesce. Cioè, quando la volontà non è determinata dalla retta idea di bene, sceglierà di realizzare il desiderio sbagliato, che invece di procurarle il bene come crede, la allontana da esso.

 

Nota 3: quei precetti morali, la cui osservanza i Cattolici scambiano per bontà, e che invece sono atti di piaggeria verso quello che loro chiamano Dio, ignorando che esso altro non è se non l’insieme di intelligenze ostili che ingannano l’uomo nella simulazione di un mondo terreno, inducono a veri e propri atti di crudeltà. Tale è il rifiuto dell’eutanasia a un’anima che soffre in un corpo troppo ammalato, o il rifiuto della sperimentazione su quei grumi di cellule che essi chiamano irrazionalmente “progetti di vita”, e che porterebbe sollievo da tante malattie fisiche terribili, tale è l’imposizione della fedeltà coniugale che legittima quei rapporti di mostruosa possessività di cui già abbiamo parlato e che essi santificano come amore, tale è la proibizione dell’aborto, soprattutto in quei casi di disagio sociale, violenza carnale, o gravidanza di adolescenti che rendono la situazione straziante (è comunque pesante che nasca un figlio indesiderato), e la proibizione dell’uso del preservativo, in particolare ora che si è diffuso l’AIDS. Dovremo parlarne in sede di ricerca etica.

 

Nota 4: questa smania di credersi speciali, che vediamo all’opera nelle asserzioni della peculiarità del cristiano, nell’atteggiamento di superiorità (che una volta era violenta intolleranza) verso le altre religioni e così via, ha prodotto la falsa credenza nella unicità del Figlio. La Chiesa di Roma insiste sul Figlio unigenito, che non è un essere come gli altri ma un’incomprensibile seconda persona di un’assurda Trinità, fattosi uomo in via del tutto eccezionale ed irripetibile e così via, perché vuol credersi unica destinataria privilegiata di una rivelazione irripetibile, e unica depositaria dei mezzi soprannaturali di salvezza donati da lui, come favore speciale, chissà perché, proprio al suo clero. Chi conosca l’amore e l’umiltà di Cristo, che è un’anima santa e un vero medico (che è come dire un vero sacerdote), il cui unico interesse è guarire le anime dal male, ma con i mezzi opportuni, non con riti misteriosi, capirebbe che a lui tutta questa esaltazione non interessa per nulla e, anzi, ripugna. Un vero medico (o un vero sacerdote, che dir si voglia, perché è sacerdote solo chi sia competente e impegnato nella cura delle anime, non chi entra a far parte di un sistema di potere mediante un inutile rito di unzione) non vuole un culto per sé stesso, non atti di piaggeria e idolatria verso sé stesso, ma amore verso le anime ammalate e cura per loro.

 

Nota 5: si può notare come sia una manovra subdola quella della religione, che impone ai suoi fedeli il comandamento di amare il prossimo, omettendo poi completamente di fornire all’anima l’unico mezzo efficace per ripristinare l’amore, e cioè la conoscenza della retta idea di essere. Il risultato è che i fedeli sono costretti a mentire a sé stessi, fingendo ipocritamente di amare il prossimo con comportamenti inconcludenti, cercando di imporre al prossimo un bene errato, e sentendosi così continuamente intrappolati tra l’obbligo di amare e l’impossibilità di amare realmente. Questa sensazione di inadeguatezza, unita alla presunzione e alla superbia tipiche del cattolico che crede di aver in mano la verità rivelata e d’essere già santo con riti e preghiere, è estremamente patogena e può scatenare nell’anima ammalata da un tale attaccamento quell’invidia distruttiva e quella violenta gelosia farisaica nei confronti di chi sia seriamente interessato alla ricerca del bene che, quando potevano, si sono tradotte in forme istituzionali, fino ad originare il Sant’Uffizio e l’Inquisizione, e, ora che il superamento che si sta attuando dell’associazione fra trono e altare (salvo gli ultimi residui) non lo consente più, si sfogano in una sorda ostilità, disprezzo e scherno.

 

Nota 6: attesta Diogene Laerzio (VI,5) che il filosofo Antistene, quando una volta si sentì lodare, rispose, appunto: Temo di aver fatto qualcosa di grave. Se chi è in preda a false idee sul bene ti loda, vuol dire che hai sbagliato qualcosa; è per questo che non diamo nessun valore alla buona reputazione e al prestigio, qui nel mondo terreno.

 

Nota 7: non bisogna confondere questo tipo di madre con quella del §4.7, che si esalta con la maternità. Quest’ultima dà molto valore alla maternità tanto da farne un punto di alienazione del valore; la madre “doverista” non dà alcun valore alla maternità, anzi se ne sente svalutata, la giudica qualcosa di degradante, perché desidererebbe dedicarsi ad altro, a qualcosa di meno animalesco e più intellettuale, sente di avere altre inclinazioni e capacità, ma se la impone per dovere, o le viene imposta e lei non sa opporsi alla pressione che proviene dall’ambiente, sicché poi non trova di meglio che usare la sua abnegazione verso il dovere come mezzo per ingigantirsi e manipolare marito e figli col vittimismo e con la taccia di ingratitudine, facendo pesare il proprio sacrificio. La madre possessiva enfatizza il proprio ruolo ingigantendone il valore, mostra una dedizione totale nell’accudimento del marito e dei figli e così se ne impossessa per usarli nella propria fantasmagoria di comodo, dove ella è l’unica persona capace e responsabile della famiglia, mentre gli altri sono tenuti in stato di minorità e nell’incapacità decisionale, anche nelle questioni più banali e quotidiane; la “doverista” non fa altro che sottolineare quanto sia faticoso e umiliante accudire la famiglia, e quanto abbia sacrificato ad essa onde poter ricattare i familiari e ottenerne sottomissione. Per compensarsi, infatti, la “doverista”, che si ritiene vittima della società, tende ad appropriarsi della vita dei figli e ad usarla per darsi soddisfazione, imponendo loro i suoi ideali, spodestandone la volontà e cancellandone l’autonomia di pensiero. Ne fa, cioè, dei surrogati di sé stessa, che realizzino quello che lei non ha potuto realizzare per via dell’oppressione che ha subito da parte della società che le ha imposto il dovere di fare da madre. Se i figli sviluppano una volontà autonoma, sono ingrati, se non danno retta in tutto alla mamma, che sa tutto e vede tutto e la cui volontà si identifica dunque con il bene, sono cattivi, protervi, matti. Nel momento in cui tu ti sei ribellato e hai compiuto le tue scelte, prende ad odiarti ancora più ferocemente e a metterti i bastoni fra le ruote: deve dimostrare che le tue scelte sono sbagliate e che sei un fallito perché non le hai dato retta. Quando mi sono rotto una spalla e a causa di ciò non ho potuto concludere gli studi di pianoforte che avevo scelto imponendomi e rifiutando i suoi disgustosi ideali piccolo borghesi, quello è stato il suo momento di trionfo: ha inalberato il famoso “hai visto che cosa succede a non dar retta alla mamma” e mi ha cacciato di casa, quando magari avrei potuto risolvere il problema semplicemente rimandando gli esami di un anno o due. A causa sua ho buttato via otto anni di studi. Non è riuscita ad impedirmi di laurearmi in filosofia, ma poiché, dovendo lavorare per pagarmi l’università e anche per la mia abitudine ad approfondire tutto, ero lento, andava dicendo a tutti che non sarei mai stato capace di laurearmi (avevo la media del trenta); finché non le piovve in capo il pretesto giusto per incepparmi: si ammalò mio padre. Ebbe buon agio di impadronirsi del mio tempo e delle mie energie e farmi perdere quasi altri due anni, non perché fosse realmente impossibile studiare durante le ore di accudimento del malato, o magari darsi dei turni: era lei piuttosto, con le sue manovre, a rendere tutto complicato e difficile e a non lasciarmi un momento di tregua. Sono stati i diciotto mesi più terribili della mia vita, ma quando poi, finita questa estenuante vicenda, mi sono laureato a pieni voti, lei è impazzita, cadendo totalmente nel panico. Mi scuso di nuovo per questa caduta nell’autobiografismo, ma l’esempio è pertinente e una simile fenomenologia non è per nulla rara né eccezionale, anche se in questo caso il “doverismo” deve essersi innestato su una smania di dominio e di annullamento del prossimo particolarmente tenace.

 

Nota 8: la fenomenologia di mia madre è sterminata, e non possiamo affrontarla qui nel dettaglio; ma forse metterà conto occuparsene in altri scritti per avvisare chi cerca la bontà di non cadere in un simile abbaglio, credere che è buono chi rispetta i genitori. Se per rispettare i genitori si intende lasciarsi distruggere dalla loro ferocia, è meglio essere cattivi. Ma per noi il vero rispetto del prossimo (a prescindere dai legami biologici che, come già detto, non contano nulla perché sono fittizi) è desiderare il suo bene; e non si fa il bene di una persona quando se ne assecondano le tendenze viziose, perché i desideri soddisfatti si rinforzano, e col soddisfarli si dà loro una legittimazione, e dunque nell’anima le tendenze viziose, se assecondate, si radicano sempre più, cosa che è un male e non un bene, e non si rispetta il prossimo facendo il suo male.

 

Nota 9: ho avuto notizia, molto di recente, delle difficoltà di una signora alla sua prima gravidanza che dopo il parto è stata colta da una depressione terribile e non sopportava la vista della neonata. L’ambiente in cui è vissuta è di quelli che inculcano il valore del dovere e non tollerano in una donna la diserzione dal ruolo di mamma; perciò quando ho saputo dei suoi ripetuti tentativi di suicidio, ho pensato che poteva essere un’anima incline a sviluppare altre capacità che si sentisse compressa e prigioniera in un ruolo non suo. Ma da alcune frasi che mi sono state riferite, che esprimevano chiaramente il desiderio che la bambina morisse, e da altre descrizioni del suo comportamento (rifiutava qualsiasi aiuto offertole nell’accudimento della bambina, come se così la si deprivasse di un mezzo per sentirsi importante o “a posto”, e anche prima del deflagrare della crisi il suo comportamento era stato strano, perché mentre tutte le donne, in questa situazione, cercano più contatti possibile, per ricevere i consigli che servono a una puerpera alla prima esperienza, lei e il marito, invece, si erano chiusi in un completo isolamento, dichiarando che volevano vivere esclusivamente fra loro due, senza interferenze, questa esperienza), mi è parso di capire che è proprio il caso della “doverista” che però poi non tollera il contatto con una creatura che provochi in lei sentimenti di tenerezza e chieda generosità e dedizione. Aggiungo solo che la depressione, post partum o no che sia, non è un sentimento prodotto dall’anima individuale, non è semplice disperazione o tristezza, perché in genere viene descritta come qualcosa “che ti salta addosso quando meno te lo aspetti”, mentre dei propri sentimenti le persone si accorgono di essere la fonte, e ne conoscono i motivi. Ne parleremo in uno scritto riguardante le operazioni che le intelligenze che governano la Natura compiono sull’anima umana, perché di questo si tratta, di un’interferenza di costoro, e non di fenomeni legati al cosiddetto “inconscio”, che non esiste (cfr. supra, nota 10 al libro I e anche nota 6 al libro II); si ricordi il corollario del principio di ragion sufficiente: se un pensiero, un desiderio o un sentimento non l’ho prodotto io, ma esiste,  deve essere il prodotto della coscienza di qualcun altro.

 

Nota 10: si veda Il fondamento della ricerca, §3.2 e passim.

 

Nota 11: questo è uno dei termini che va abolito dal nostro vocabolario, perché se una cosa è reale a maggior ragione è possibile e dunque tutto ciò che è reale è normale. Solo che gli uomini privi di rette conoscenze ontologiche hanno un’idea sbagliata di normalità e quando un fenomeno non risponde a questa idea, invece di adeguare la propria idea di normalità al fenomeno, negano il fenomeno oppure creano la categoria fittizia di “paranormale”, cioè fatto che si verifica contro la normalità, senza ragioni precise, per miracolo o per magia, misteriosamente, annebbiando così vieppiù il proprio riflessivo (ogni concetto errato o fumoso, ogni parola vuota o mal definita è un velo di nebbia che ci nasconde l’essere). Si veda su questo Il fondamento della ricerca, §§4.6-4.10, e si consideri, per favore, come la normalità stia nel mondo vero, nel mondo dei corpi spirituali, non nel mondo dei corpi aggregati, che è una simulazione e dove niente è realmente quello che sembra.

 

Nota 12: nemmeno io ho simpatia per le sciocchezze degli astrologi, che legano l’anima a un determinismo astrale e ne negano l’autonomia, vedendo le cause dei suoi vizi chissà dove nel cielo invece che negli errori concettuali che ne offuscano la capacità riflessiva, ma penso che sia più impellente combattere la falsa scienza e la falsa religione che sono al potere e che fuorviano l’umanità intera, piuttosto che queste conventicole minoritarie, pressocché innocue o che al massimo spillano qualche soldo a pochi ricchi babbei.

 

Nota 13: è evidente che per esaltarsi il razionalista della nostra epoca, mettendo in atto il suo falso modello di ragione, scimmiotta un Dio onnipotente e onnisciente, sovrumano, scevro da debolezze e dunque (assurdamente, secondo una falsa immagine di Dio, foggiata fantasiosamente in antitesi con la forma umana) privo di desideri e sentimenti, convinto com’è che questi in quanto contenuti soggettivi della coscienza non abbiano valore conoscitivo e siano qualcosa di irrazionale, e anzi, secondo la sua definizione di realtà, che abbiamo già dimostrato assurda nel primo libro de Il fondamento della ricerca (per tutta la discussione sulla soggettività e l’oggettività si veda ivi, §§1.3-1.8 e §1.18), che essi non abbiano nemmeno realtà. Noi abbiamo visto, invece, quale legame causale ci sia tra idee e affetti, e abbiamo chiamato desideri e sentimenti razionali quegli affetti che dipendono dalla retta idea di bene e dunque dalla retta conoscenza dell’essere, irrazionali quei desideri o sentimenti che rampollano dalle concezioni errate sul bene, inoltre abbiamo definito realtà la coscienza con tutti i suoi contenuti, e dunque sentimenti e desideri, insieme alle idee, sono la vera realtà, di cui i corpi semplici (non quelli aggregati) sono l’immagine; l’anima divina nutre dunque profondi, purissimi sentimenti, tutti razionali e desidera il bene, gioisce per il bene; non è dio chi non ama. E Dio siamo noi, tutte le anime che rappresentano l’essere nel proprio atto individuale di coscienza e che amano l’essere, per avere in sé ben chiara l’idea di essere, e che amando l’essere si amano tutte reciprocamente dello stesso amore. Si veda su questo il libro II del nostro precedente scritto, Il fondamento della ricerca.

 

Nota 14: si legga attentamente tutto il passo, i primi quattro paragrafi della seconda lettera ai Tessalonicesi di Paolo. Si noterà come gli effetti del fallimento del Cristianesimo storico, cioè il trionfo del pensiero ateo (apostasia) e razionalista (l’uomo che si contrappone a ciò che viene detto Dio), fossero già previsti fin dall’inizio. Mi aspetto che il Lettore attento cominci a riflettere su questo e si ponga le giuste domande sul senso della storia di questi ultimi duemila anni.

 

Nota 15: intendiamo dire che mentre i veri scienziati, cioè coloro che si impegnano a studiare i fenomeni non per punto di alienazione ma per sete di conoscenza, si dedicano a faticose sperimentazioni e scoprono quelle connessioni causali che, benché siano solo una simulazione dovuta a un complicato artificio, poi funzionano realmente all’interno del mondo della simulazione (su questo concetto vedasi il libro IV de Il fondamento della ricerca), cioè nel mondo dei corpi aggregati, perché, pur non essendo arrivati alla retta conoscenza ontologica, hanno però colto qualcosa di reale (la connessione causale, anche se non è quello che sembra ed è una simulazione, nel momento in cui la simulazione viene posta in atto, diventa comunque qualcosa di reale), le persone che hanno fretta di ingigantire il proprio ego col ritenersi scienziati trovano una scorciatoia comoda e accidiosa nella psicoanalisi, per la quale non occorre alcun rigore metodologico né seria sperimentazione, bastano fumo e chiacchiere, e nella quale non si ha l’obbligo di dimostrare alcunché con risultati tangibili.

 

Nota 16: data la definizione della realtà, da noi esposta nello scritto Il fondamento della ricerca, come pensiero e suoi contenuti, siamo obbligati a considerare reali, come tutte le altre immagini, anche le percezioni che abbiamo in sogno (cfr. ivi, §3.16). Ho iniziato a registrare i miei sogni ordinatamente per data nel 1990 (prima prestavo attenzione solo a certe esperienze, diverse da quelle nel corpo aggregato, che non erano sogni), e poi ho preso sistematicamente a confrontarli con quanto mi capitava di vivere successivamente, anche a distanza di anni. Dopo più di sedici anni di osservazioni posso assicurare che essi sono messaggi scritti in un criptico linguaggio simbolico, molto difficile da decifrare, con un suo vocabolario, una grammatica e una sintassi ben precisi. Chi pretenda di interpretare i sogni “per associazione”, cioè a casaccio, agisce come chi pretenda di tradurre un testo in lingua straniera senza conoscerne né il vocabolario né la grammatica, solo sostituendo a ogni parola una parola della propria lingua con l’unico criterio dell’assonanza casuale; si immagini il Lettore che cosa può venirne fuori. Per comprendere il simbolismo dei sogni, come ogni altro simbolismo dello Spirito, bisogna essere profondamente edotti sugli enunciati della Scienza sacra, perché essi parlano di cose nascoste e non facilmente comprensibili. Né si può improvvisare lì per lì l’interpretazione di un sogno, perché i sogni, come tutte le profezie (anticipo qui questa informazione, il Lettore che non sappia accettarla, per favore sospenda il giudizio, prima di disprezzarmi; assicuro che anche del fenomeno della profezia si può dar conto con metodo logico-razionale, una volta che si sia progrediti nella retta conoscenza) non sono comprensibili se non a posteriori, dopo cioè che l’evento a cui si riferiscono si sia verificato, e dunque solo a distanza di tempo, anche di anni, secoli, millenni. Bisognerà dimostrare in uno scritto apposito che l’uso che fanno dei sogni gli psicoanalisti, come tutte le altre loro pretese del resto, è completamente infondato.

 

Nota 17: vale per tutti questi sintomi ciò che abbiamo detto per la depressione (cfr. supra, nota 9 al libro V, in fondo) e cioè che non provengono dalla coscienza individuale, ma sono interferenze ricevute passivamente dall’anima, che non provengono da un “inconscio” (che non esiste) ma da un’altra coscienza (sono pensieri, devono essere prodotti da un pensiero, cioè da una coscienza, non da un inconscio). Anticipo qui che l’effetto ottenuto dalle intelligenze che governano la Natura con queste manovre è diffondere un’immagine contraffatta e confusa, che induca negli uomini una concezione fittizia di malattia mentale, e questo per distoglierli dalla comprensione del vero male dell’anima, che è l’ignoranza dell’essere e del bene e il conseguente spegnimento dell’amore e cioè, come già dicemmo, la normale condizione umana.

 

Nota 18: se un uomo sente delle voci e non sono prodotte da lui, vuol dire che le ha prodotte qualcun altro; dunque bisognerebbe rispettare i cosiddetti “schizofrenici” e non bollarli come anormali. La schizofrenia non esiste: nessuna coscienza, poiché l’anima per definizione è individuo, cioè per definizione indivisibile, può mai scindersi. Se in un uomo sembra che ci siano due o più personalità, vuol dire che ci sono due o più coscienze che si manifestano attraverso il suo corpo, per qualche motivo. Si dovrà chiarire in studi seri e ben fondati il concetto di medianicità e di trance, anche servendoci delle acquisizioni della moderna etnologia. In altre culture chi sente le “voci” può essere visto come un ispirato e le sue capacità, se socializzate, possono divenire qualcosa di utile, si pensi agli oracoli e alle sibille del mondo antico.


LIBRO VI.

 

 

 

 

 

IL FALLIMENTO DEL PUNTO DI ALIENAZIONE DEL VALORE.


LIBRO VI.

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Quando la smania di ingigantimento dell’ego non trova mezzi per soddisfarsi, l’esito è il totale rifiuto della forma umana (6.1-6.2).

 

Conseguenze: tendenza all’autodistruttività, verso il corpo terreno e verso l’anima. Incapacità di tollerare i sentimenti e i desideri che ci fanno sentire umani (6.2-6.3). Una scappatoia può essere esaltarsi per l’appartenenza a un’identità di gruppo(accenno)(6.2).

 

Chi avrebbe voluto ingigantirsi con capacità conferite in dono dal cielo o dalla fortuna, alimenta in sé tendenze all’invidia feroce e alla gelosia infantile. Comportamento di tipo “teppistico”, anche contro lo spirito(6.4).

 

Comportamenti distruttivi messi in atto da chi non tollera di avere desideri umani: la pedofilia(6.5); la pornografia(6.6.).

 

Analisi dell’episodio contenuto nel prologo: un caso di scherno, un odioso atto di sfregio verso una persona sofferente, si può vedere ora la forma spirituale che ne sta alla base(6.7).

 

Conferma dell’intellettualismo socratico e rimprovero verso chi ha rifiutato la retta filosofia che cura l’anima per sostituirla con mezzi irrazionali e inefficaci di salvezza(6.8).

 

La cura dell’anima(6.9).


6.1.Che cosa succede quando un uomo non ha i mezzi per mentire a sé stesso e ingigantirsi, e conserva intatta la pena prodotta nella sua anima dalla lesione del valore dovuta alla sua identificazione col corpo aggregato e alla sua appartenenza alla natura umana? Questo succede in genere alle persone che si trovino prive di opportunità, per esempio in ambienti sociali degradati dove tutte le energie di un uomo o di una donna devono essere spese per la semplice sopravvivenza, o a chi si trovi senza capacità, e senza la possibilità di svilupparne. Vi sono persone che non riescono a ingigantirsi perché non si bastano mai; intendo dire che per alcuni, a causa di una smania di ingigantimento veramente smisurata, i “normali” punti di alienazione del valore che usano gli altri non sono sufficienti e dunque trascurano di procurarsi questi falsi beni non perché han capito che sono falsi, ma perché non servono al loro scopo, che è quello di ingigantirsi non in maniera normale, ma smisurata. Molti talenti vanno sprecati in questo modo: acquisire una conoscenza imparandola? Certo, si potrebbe fare così, ma a che servirebbe? E’ una situazione troppo normale: tutti gli esseri umani sono capaci di acquisire conoscenze o competenze imparando le cose. Ma questa persona irrazionale allo stadio grave non vuole procurarsi normalmente, come fanno tutti gli altri, una conoscenza o una competenza, mediante cui potrebbe poi darsi un po’ di importanza: no, non è questo che vuole, lui (o lei) vorrebbe, sì, esibire quella capacità o quella conoscenza, ma senza averla imparata in maniera normale, come tutti, bensì vorrebbe ottenerla per via soprannaturale, per dono divino, per ispirazione. Vuole sentirsi straordinario e straordinariamente favorito dalla Fortuna. O riesco subito, per un dono naturale del tutto speciale conferito solo a me, perché sono diverso dagli altri, o niente, dice a se stesso questo tipo di persona, che non tollera di impegnarsi sentendo in sé l’umana fatica di avvicinarsi per gradi al risultato. E non si accontenta di buoni risultati, ma in ogni cosa che fa vuole ottenere il coup d’éclat, l’evento eccezionale, tutti attoniti ed estasiati intorno a sé, o altrimenti si chiude in una corrucciata inattività(1). O genio soprannaturale, o niente; e la Natura, che semina, sì, qui e là, l’ispirazione che fa di un uomo un genio, ma lo fa con criteri incomprensibili ai più e con intenti beffardi(2), risponde: allora niente. Così costoro rimangono al palo, con la loro smisurata superbia insoddisfatta, ormai irrimediabilmente inetti a tutto.

6.2.Ecco, è di questo tipo di persona che vorrei parlare ora, quella affetta da un gigantismo fallito. Sia gli uomini a cui la povertà e l’ambiente degradato abbiano negato la possibilità di procurarsi soddisfazioni, sia le persone di quest’ultimo tipo, la cui forma spirituale può verificarsi ovunque viga ancora quel sistema di idee irrazionale, estremamente primitivo, che è stato proprio di tutte le culture indoeuropee a un certo stadio del loro sviluppo(3), il quale vede i beni e le capacità venire dal cielo in dono ai prescelti e ignora il legame causale che vi è realmente tra apprendimento e competenza, tra sforzo e risultato, si trovano in una situazione di estrema sofferenza: la loro lesione non ha trovato alcun rimedio, non sono riusciti a costruirsi un valore fittizio sotto il quale nascondere la svalutazione di sé, e, dunque, mentre i superbi soddisfatti di sé, anche se in quella maniera precaria che li fa vivere in continua ansia, in qualche modo si sono adattati alla propria forma umana e, per così dire, sono scesi a compromessi con essa e riescono ad accettarla, purché, appunto, ingigantita, i superbi di secondo tipo, quelli frustrati nel loro desiderio di ingigantimento, con la propria forma umana non sanno affatto convivere e in quanto umani si odiano. Il più tipico comportamento da cui è messa in evidenza questa forma spirituale è dunque una sorta di autodistruttività, una tendenza a distruggere in sé la forma umana. Alcolismo e droga, compreso l’abuso del fumo di tabacco, dipendono da questo, dall’inclinazione a distruggere in sé la forma umana, e credo che anche l’anoressia abbia questa radice. Trattare il proprio corpo, laddove è stampata la forma umana, in maniera priva di rispetto e senza cura, per esempio guidando in maniera spericolata, mettendolo a rischio in sciocche pratiche acrobatiche, trascurando le norme igieniche, infliggendogli un’alimentazione sciatta e dissennata, o anche deformandolo con l’aggressione di piercing e tatuaggi, col rasarsi i capelli e dipingerli in colori bizzarri, è segno di una raffrenata smania autodistruttiva e dunque della presenza nell’anima della forma spirituale del superbo fallito. C’è da aggiungere che a volte questo tipo di superbo va a colmare il vuoto di valore di cui si trova a soffrire con un’appartenenza identitaria: riesce cioè a ritrovare il valore perduto nell’appartenenza a un gruppo etnico, a una razza, a una nazione, storicamente reale o fantasmagorica che sia. La forza psicologica che ha sostenuto a livello popolare nazismo e fascismo, nella prima metà del secolo ventesimo, è stata principalmente questa: l’uomo che si sentiva mediocre e fallito riusciva a darsi una qualche importanza col raccontarsi d’essere appartenente alla razza superiore, alla nazione dominante. Le farneticanti ideologie di regime gli fornivano una fantasmagoria di comodo preconfezionata perfettamente adatta allo scopo. Il fenomeno dunque è stato massiccio, e oggi ne osserviamo le frange residuali: per esempio, nei nazi-skin, che confusamente ripetono le tematiche nazistoidi della superiorità della razza ariana e mettono in atto comportamenti simili a quelli appena descritti; o nel successo della Lega lombarda, divenuta poi Lega nord, dove ancora allignano tendenze xenofobe e dove l’appartenenza identitaria è piuttosto fantasmagorica, visto che non è molto chiaro che cosa sia codesta Padania per la quale i leghisti si commuovono; oppure nel fenomeno allarmante delle bande giovanili.

6.3.Ma non è solo nel corpo che il superbo fallito tende a distruggere la forma umana: è soprattutto nell’anima(4). Già si è detto di coloro che non tollerano di provare sentimenti e desideri umani, e che si mostrano ostili verso tutto ciò che li suscita: questo sintomo è presente in maniera assai violenta nei superbi falliti, che diventano distruttivi. Spesso ci si chiede che gusto ci sia nel vandalismo o nella crudeltà verso gli animali; nessun gusto, ma solo un momentaneo sollievo da un male inguaribile: chi non tollera di provare sentimenti umani dentro di sé ne distrugge la fonte. Peggio ancora con i desideri: una lunga tradizione religiosa ha represso i desideri come peccaminosi e sporchi, soprattutto quelli sessuali(5); molte persone che disprezzano la propria umanità si sentono sporcati dai desideri sessuali e se la loro mente è troppo rozza e la situazione non lo consente non sanno provvedere a questo con una fantasmagoria di comodo (come quelle degli asceti che hanno come punto di alienazione la rinuncia ai piaceri della carne), ma rimangono in balìa degli istinti sessuali e dei desideri ad essi connessi, che li terrorizzano e scatenano in loro odio verso chi li provoca. E’ la radice della misoginia, ma nei casi più gravi può sfociare nella mania sessuale degli omicidi e dei serial killer.

6.4.Le persone che non sono riuscite a sviluppare nessuna competenza, e a procurarsi alcun bene illusorio, ma che cionondimeno si aspettavano che la vita, il destino, o un qualche potere superiore li portasse a una facile esaltazione, non possono tollerare che quelle capacità e quei vantaggi che a loro mancano siano invece presenti in altre persone. E, difettando gravemente di razionalità, come già detto, ignorano il legame causale che esiste tra apprendimento e competenza, tra impegno e risultato, e dunque vivono la situazione come se fossero stati deprivati d’un dono divino che spettava loro e che invece sia stato concesso ad altri. Questo scatena in loro, contro chi si è impegnato a procurarsi capacità e competenze seriamente, sentimenti oscuri di invidia e gelosia infantile (poiché il potere superiore che elargisce doni, nella loro visuale, è percepito come un genitore), la gelosia di Caino verso Abele, e la loro reazione è altrettanto infantile, sfogandosi in quelli che comunemente si chiamano atti di teppismo. Chi non ricorda, per esempio, i colpi inferti alla Pietà di Michelangelo da uno scultore fallito? Ma non c’è bisogno che queste tendenze “teppistiche”, cioè invidiosamente distruttive, si esercitino materialmente, esse possono colpire una persona direttamente nello spirito, con scherno e dileggio. E’ di pochi giorni fa la notizia che uno studente di scuola secondaria, che otteneva sempre il massimo dei voti, si è ucciso perché oggetto di scherno da parte dei compagni più inetti(6); e non è un caso raro, anche se non tutti giungono a uccidersi. Sotto il fascismo(7), l’uso del dileggio verso le persone impegnate intellettualmente e raffinate spiritualmente era la regola. Oppure, oltre a scherno e dileggio si può usare discredito e calunnia: ovunque una persona mostri la tendenza a screditare le virtù altrui facendole passare per vizi o per cose disprezzabili, siamo in presenza di una forma spirituale di questo tipo: l’inetto esaltato che odia e tenta di distruggere chi gli fa da termine di confronto mettendo in risalto la sua inettitudine; e dell’uso della calunnia è piena la storia(8).

6.5.Anche le persone messe in crisi da desideri che non tollerano di avere (cfr. supra, §6.3) hanno una reazione infantile: semplicemente vogliono distruggere la realtà. Pensiamo ai maniaci sessuali: se vedono una creatura innocente, in preda a smania invidiosa e a quell’oscura gelosia infantile tipica di chi vede concesso a un’altra persona un dono che voleva per sé, la sporcano, imponendole il sesso con la violenza(9). Con questa azione terribile è come se dicessero: non è vero che io sono sporco e tu innocente, sei sporco anche tu. E’ questa la vicenda sottesa a tutti gli atti di pedofilia, i quali non sono atti sessuali, non è il piacere sessuale che persegue il maniaco e dunque è inutile andarne a cercare le cause in una presunta deviazione dell’istinto; gli atti di pedofilia non sono atti sessuali, ma distruttivi, sono atti di teppismo distruttivo come l’aggressione alla Pietà di Michelangelo da parte dell’artista fallito: il maniaco vuol distruggere nel piccolo innocente quell’innocenza che lui non ha avuto in dono. E’ per questo che simile ripugnante mania sessuale alligna soprattutto nelle file del clero: perché radice ne è una malintesa idea di purezza, rozza e irrazionale, che fa coincidere l’innocenza con la lontananza da ogni contaminazione sessuale, secondo una concezione molto primitiva di impurità per contatto magico-meccanicistica (il peccato è come una macchia che ti rende impuro e si imprime per contatto, e si può rimuovere con mezzi magico-rituali) tipica del falso Cristianesimo, incrostato com’è di superstizione e barbarie, e tenacissima in ambienti religiosi. Anche nelle famiglie contadine di una volta, intrise di una versione particolarmente involuta della religione cattolica, dove appunto non si sviluppava alcuna etica che non fosse quella del peccato, ristretto praticamente alla sola sessualità e inteso come sporcizia, era all’ordine del giorno lo stupro delle figlie giovinette ed innocenti da parte di padri violenti, analfabeti e ubriachi(10).

6.6.Anche la pornografia ha moventi dello stesso tipo. Le persone che si sentono sporche per i loro desideri sessuali, e che dunque soffrono di questa svalutazione di sé, quando non hanno altro modo di coprire tale lesione del proprio valore, possono solo darsi sollievo “sporcando” qualcun altro, cioè imponendo alle donne pratiche sessuali volgari e degradanti. Qui gioca sia l’odio verso la donna, colpevole di suscitare quei desideri umani da cui essi si sentono svalutati, sia la reazione rozza di negazione della realtà che abbiamo già descritto nel caso del pedofilo. In questo caso, il sentimento del pornografo, se tradotto in parole, suonerebbe: io sarò sporco, ma tu sei più sporca di me. Insomma, anche nel caso della pornografia non si tratta di piacere sessuale, non è questo che cerca chi è dedito a simili pratiche, quello che costui cerca è la soddisfazione meschina, tipica di chi è affetto da un gigantismo fallito, d’aver annullato il valore di una persona, insieme a quella di aver sporcato, e dunque di poter disprezzare, il sesso femminile, colpevole di suscitare quei desideri che egli non può tollerare in sé. Si noti che anche qui, come nel caso della pedofilia, alla base di questa malattia dello spirito è questa concezione di sessualità come peccaminosa sporcizia, seminata nell’anima umana proprio dal Cattolicesimo; ed è dunque una situazione paradossale che questa religione si affatichi a reprimere pornografia e devianze sessuali con prediche inutili e minacce di punizioni infernali, quando, per la sua totale negligenza e per la totale incompetenza dei suoi sedicenti sacerdoti sull’anima e sulle sue malattie e sui mezzi di guarigione, non solo non è in grado di sradicare questi mali, ma ne è essa stessa la radice.

6.7.Ecco, esauriti questi argomenti, ora possiamo tornare in quell’istante del tempo dove un ignaro ed ingenuo Gregorio Agis ancora liceale rimaneva attonito di fronte a un episodio increscioso: il Lettore ricorderà, lo avevo già raccontato nel prologo del presente scritto. Un uomo mezzo ubriaco deride una persona che soffre, una donna vistosamente deformata dalla poliomielite, davanti agli occhi della sua figlioletta. Ma perché? si chiese allora quel liceale ingenuo; ora possiamo rispondere. L’anima, che è uno degli infiniti atti di coscienza dell’essere, se sa che cos’è l’essere, e cioè coscienza e conoscenza di sé, sa anche che cos’è il bene, perché è bene l’essere, male il non essere. E sa anche che, se bene è la coscienza dell’essere, e cioè la conoscenza che l’essere, il pensiero, trae dalle sue rappresentazioni, ella stessa, che è rappresentazione dell’essere, è il bene e tutte le altre coscienze insieme a lei sono il bene. L’anima che conosca l’essere e che conosca sé stessa, sa anche di avere valore infinito, e si ama, e ama l’essere e il tutto, ed è sana. Ma quando l’anima, per via della sua aggregazione con un corpo falso, perde cognizione del vero essere e ingannandosi crede che l’essere sia una realtà extramentale fatta di materia eterogenea al pensiero, e dunque crede che il suo vero essere sia il corpo aggregato, perde anche la cognizione del suo vero valore, e ignora che esso è infinito: sognando di essere creatura debole e mortale, bisognosa di tutto, si sente lesa, svalutata, disprezzabile, e soffre per questa mancanza di amor di sé. E allora i casi sono due: o, nel cercare di lenire questa sofferenza, si attacca a un punto di alienazione del valore, cioè riesce a ricavare con qualche mezzo l’illusione di avere un valore che non ha e ingigantirsi, o non riesce in questa impresa, per motivi contingenti. In quest’ultimo caso l’anima degradata rimane in balìa della propria svalutazione, del proprio disprezzo di sé, odiandosi senza rimedio e odiando in sé la forma umana. Tutti i mezzi con cui desiderava ingigantirsi e negare la propria intollerabile normalità umana le sono sottratti, e perciò non può trovare rimedio nemmeno nei falsi beni. L’unico bene illusorio a cui può aspirare oramai è un piccolo e momentaneo sollievo: se non riesce a darsi valore, può almeno negare quello degli altri. La smania di distruggere ciò che mette in risalto la sua inettitudine e di umiliare le altre persone lo tormenta. Si compiace dei mali altrui, delle altrui debolezze, ne riceve sollievo perché può dire a sé stessa: vale meno di me. Quel giorno un essere miserabile, un poveraccio fallito, che tanto avrebbe voluto ingigantire il proprio ego, quanto si è trovato abbassato e privo di valore, un ubriacone, e cioè un’anima in preda a quelle tendenze autodistruttive che caratterizzano chi non riesce a convivere con la propria umanità, ha visto qualcuno a cui la vita, ovvero il destino, o il potere a cui crede gli uomini sottoposti, aveva negato i suoi doni, più che a lui. E spinto da quella convinzione, che è poi il suo punto di alienazione fallito, che cioè un uomo ha tanto più valore quanto più riceve favori e regali dalla Fortuna, si è compiaciuto per un istante d’essere il più fortunato dei due, per una volta e per un attimo è riuscito a sentirsi meno svalutato. Per questo ha sottolineato con il suo scherno la disgrazia di quella donna: sei più disprezzabile di me, voleva dirle. Ecco, Gregorio, perché: non è un fallimento della teoria socratico-platonica, anzi ne è la conferma.

6.8.Dunque, Socrate aveva ragione: è per procurarsi un bene che quell’uomo ha compiuto il male, perché ignorando che cos’è il vero bene ne ha cercato uno illusorio, e in questo caso particolarmente meschino e assurdo. Ma, come abbiamo visto nel corso della presente trattazione, è sempre così: nessuno ama il male in quanto tale, tutti cercano il bene, ma ignorando il vero bene, tendono a immagini illusorie di bene e in particolare, credono che siano beni i mezzi che servono a soddisfare la smania di ingigantimento del proprio valore, perché credono così di provvedere a curare il proprio male, il disprezzo di sé. Ma il vero bene, la vera medicina, è altrove. Tutti gli uomini tendono al bene, perché tendono all’essere; tutti infatti desiderano essere. Ma non sapendo che cos’è l’essere e dunque che cos’è il bene, non sanno procurarselo. E’ chiaro che non riesce a intendere questo enunciato chi chiama bene il dovere(11) o la sottomissione a una presunta volontà divina, invece che l’essere (che è pensiero e coscienza che conosce sé stessa), come i cattolici, che in effetti sono i responsabili dell’affossamento della vera Scienza dell’essere e della vera etica. Già lo dicemmo, ventiquattro secoli fa, ma non ci ascoltaste; già vi offrimmo il farmaco, la retta ontologia, ventiquattro secoli fa, ma non voleste accettarlo. Avete preferito correre dietro a uno zimbello per allocchi, alla promessa di una salvezza comoda e gratuita, da mettersi in atto con mezzi rituali e sacramenti e con una pletora di precetti assurdi, mezzi tanto irrazionali quanto inefficaci. Messi di fronte al bivio, avete imboccato la strada sbagliata, la via accidiosa del culto e della religione, e del dogma, e della fede cieca, omettendo di onorare la vera scienza, il logos. Siamo amareggiati. E proprio colui che disse: Questa è la vita eterna, che conoscano te (Gv.17,3), intendendo dire che può guarire l’anima dal male, salvandola dalla morte e rendendola eterna, solo la conoscenza del vero essere, che è pensiero infinito e infiniti atti di coscienza, che siamo noi, gli dèi (Io ho detto: voi siete dèi. Gv,10,34), proprio lui ora è prigioniero e incatenato e torturato nelle mani di quella che si spaccia per la sua Chiesa, e altro non è che la Roma imperiale, quella che l’ha dileggiato e crocifisso, la Roma pagana idolatrica, travestita da Cristianesimo, che si serve del suo nome per soggiogare le anime umane, per obbligarle a riverire non Dio, ma la Natura, che non è Dio, ma è quella forza che allontana (nel modo che abbiamo dimostrato mediante metodo logico-razionale nel nostro precedente studio, Il fondamento della ricerca, e che abbiamo tentato di analizzare col presente lavoro) l’anima dell’uomo dal bene e la tiene legata all’ignoranza e dunque al male, essendo tale istituzione portatrice di una morale naturalistica che obbliga l’uomo a identificarsi esclusivamente con la sua parte animale, omettendo accuratamente di liberarne lo spirito dagli errori concettuali che lo legano al mondo falso della simulazione e che dunque l’ammalano, e promettendo in premio, a mo’ di salvezza e salute, con una truffa, un assurdo paradiso in cambio dell’osservanza delle loro regole morali sbagliate, irrazionali e spesso crudeli, di pratiche rituali superstiziose, di onori e benefici a un clero satollo e incapace, e di piaggeria verso un tiranno onnipotente e prepotente che spacciano per Dio sommo e Sommo Bene, e che invece più opportunamente nel linguaggio simbolico dello spirito s’appellerebbe Satana.

6.9.L’anima che abbia in sé la retta idea di essere è libera dal male, perché saprebbe che l’essere non è materia extramentale, ma pensiero e che dunque, se bene è l’essere, è bene il pensiero. E allora l’anima, sapendo di essere pensiero, saprebbe di essere il bene e si darebbe valore infinito e s’amerebbe. E intatta e sana, non tocca dal male, che è l’ignoranza di sé e lo svilimento che ne consegue, saprebbe di essere fonte eterna di sé stessa, saprebbe di essere autonoma nel darsi l’essere, pensandosi, e la forma, conoscendosi. Non s’immaginerebbe d’essere creatura debole e mortale e stolta e priva di valore, e non soffrirebbe di questa originaria lesione che la fa impazzire, e dunque sarebbe libera da legami e attaccamenti, da quel groviglio di forze irrazionali entro cui s’avviluppa come una farfalla in una tela di ragno, da sé medesima e che sono generate dalle false immagini di bene che riceve dal mondo falso dei corpi aggregati e dal suo bisogno di ingigantirsi per colmare il suo valore perduto. Ella sarebbe sana, e bella, e pura, e vivrebbe felice. Questo è il vero paradiso per l’anima, lo stato di salute, e non è un premio per chi fa “il bravo”, cioè adula Dio e riverisce il suo clero, ma una conseguenza che si ottiene eliminando le cause del male, che è ignoranza, e riportando l’anima alla sua primitiva purezza, allo stato sapiente. Perché l’unica vera purezza per l’anima, che è pensiero, è essere scevra da errori concettuali, questi sono le vere macchie dell’anima. Dunque per uscire dal frastuono dei giorni terreni e degli inganni, dai sogni sabbiosi d’un mondo che ti ammala e per guarire, non ci stanchiamo di offrirti, anima umana, noi che ti amiamo, la tua cura: la luce sull’essere, su te stessa, la retta ontologia.

 

Gregorio Agis.

Milano, 26 aprile 2007.


NOTE AL LIBRO VI.

 

Nota 1: questa deve essere la causa di molti mancati rendimenti scolastici, e deve essere anche la forma spirituale di quei giovani che non concludono mai nulla nella vita. Quando, per pagarmi l’università, davo lezioni di pianoforte, ho potuto notare spesso questo atteggiamento mentale: alcuni allievi con buone doti fallivano perché pretendevano che, messe le mani sulla tastiera, queste andassero da sole, senza alcun impegno da parte loro. Un mio collega aveva inventato una graziosa barzelletta per stigmatizzare questo tipo di atteggiamento: un tale chiede a un altro: sai suonare il pianoforte? E quello: non lo so, non ho mai provato. Questo tipo di esaltazione, che tra me e me chiamavo “il complesso di Mozart”, alligna però soprattutto nelle menti delle mamme: ho dovuto combattere per alcuni anni con una signora tanto dissennata che rifiutava di prendere atto dei progressi normali che il suo bambino otteneva gradatamente, mostrandosi negativa o indifferente di fronte ad essi, e facendogli capire che si aspettava da lui solo prestazioni straordinarie e miracolose. Si lamentava continuamente anche della maestra della scuola elementare, perché secondo lei non aveva capito che suo figlio non era come tutti gli altri, ma era un genio, e mentre lui imparava a fare le lettere dell’alfabeto, lei gli stava continuamente sopra brontolando in maniera pesantissima senza un minuto di tregua, disapprovando violentemente tutti i gesti normalmente infantili che il bimbo faceva per tracciare le linee sul quaderno, e commentava negativamente i normali risultati che, come tutti i bambini, il piccolo otteneva gradualmente; cercava prepotentemente di convincerlo che era già capace di scrivere come un adulto, sostenendo che se non lo faceva era per capriccio, per cattiveria. Inoltre, incoraggiava tutti i comportamenti più arroganti e maleducati, reprimendo invece, con espressioni di pesante scontentezza le sue normali manifestazioni infantili. Un vero incubo; devo dire che quando mi sostituì con un altro maestro, facendomi capire che non mi riteneva adeguato (evidentemente il mio metodo graduale non le era piaciuto), fu un vero sollievo. Questa irrazionale pretesa di ottenere risultati senza impegnarsi a mettere in atto i mezzi normali per ottenerli, aspettandosi tutto in dono dal cielo o da qualche metodo magico (spacciato per didattica moderna), è molto diffusa, almeno qui a Milano, ed è alla base del notevole giro d’affari di quelle scuole musicali private che promettono di far suonare i bambini senza che sappiano leggere le note, o di portarli a eseguire gli studi di Paganini sul violino in pochi mesi. Inutile parlare della promesse della pubblicità, che conoscono tutti, del tipo: dimagrire senza fare movimento e mangiando come prima… E che dire di coloro che non ne vogliono sapere di disciplina fisica ed alimentare e pretendono di mantenere la salute del corpo a suon di pillole (o anche solo per grazia ricevuta)?

 

Nota 2: esamineremo anche l’ispirazione artistica, che, come tutti quei contenuti della coscienza che ella non produce da sé ma riceve passivamente, è il prodotto del pensiero di qualcun altro, in uno studio apposito.

 

Nota 3: già Socrate e Platone avevano dovuto combattere contro il pregiudizio aristocratico che la virtù non fosse una techne, cioè un sapere insegnabile, ma che fosse innata per dono divino nei rampolli delle stirpi nobiliari. Quest’idea, che cioè l’eccellenza si erediti per via di sangue e per dono divino, e non provenga da apprendimento ed educazione, ha abitato la mente dell’uomo europeo per secoli, facendo parte di quel sistema di idee d’”antico regime” che ha iniziato a dileguarsi con la Rivoluzione francese, ma di cui ancora oggi possiamo osservare all’opera i residui, soprattutto nelle menti torpide e nelle anime particolarmente involute. E anche il significato che la parola “talento” ha acquistato nel linguaggio comune è spia di questa concezione irrazionale e deleteria della capacità come doni divini. L’espressione deriva, com’è noto, dal passo evangelico (Mt. 25,15-30) che viene chiamato, appunto, “la parabola dei talenti”; ma il significato che la parola greca tàlanton aveva originariamente era quello di “somma di danaro”: in Grecia, infatti, il talento era una misura monetaria di valore piuttosto elevato (con un talento si poteva armare una nave) e perciò il termine in questo passo non significa “capacità donate dal cielo per ispirazione”, ma rappresenta l’arco di tempo della nostra vita. Infatti il denaro è la rappresentazione simbolica del tempo, perché ci viene dato in cambio del tempo che spendiamo nel lavoro, e dunque le misure monetarie sono misure anche di tempo. Ogni vita è un arco di tempo, e cioè è come una somma di danaro, e va spesa per produrre frutti, con impegno; è questo che vuol dire la parabola, non che Dio fa cadere in capo ai suoi favoriti capacità già bell’e pronte così. Ma, evidentemente, la concezione più primitiva e rozza della virtù deve essere stata corroborata in Europa dall’avvento delle stirpi germaniche, la cui matrice culturale ha incrostato vieppiù il Cristianesimo di superstizione, dopo che esso era già stato guastato dal sistema di idee e di valori di Roma, per il fatto di esserne diventato la religione ufficiale; sicché poi ci troviamo, in mezzo alla storia, a veder metamorfosato il messaggio di Cristo nell’odiosa e ripugnante ideologia dell’”antico regime”, che prevede una nobiltà di sangue con superiori diritti e un monarca per volere divino, i quali s’arrogano ruoli politici e pretendono di averne la capacità per ispirazione, e che legittima l’oppressione dei poveri; mentre, d’altra parte, questa superstizione terribile del talento e del favore divino concesso arbitrariamente dall’alto a pochi “eletti”, i cui segni concreti sarebbero benessere materiale e riuscita facile e facile successo, si conserva accentuata in quella variante del Cristianesimo legata più tenacemente ed approfonditamente alla matrice germanica, e cioè alla religione cosiddetta riformata, in particolar modo nel Calvinismo, sicché hanno ragione quegli studiosi che vedono nell’etica calvinista una delle cause storiche che ha prodotto il capitalismo americano. Si vede qui come i difetti mentali delle persone derivino da concezioni assorbite culturalmente, e come siano tenaci le idee sbagliate: questa del genio e del talento che ti piove in capo, e cioè della predestinazione e della Fortuna da cui l’uomo sarebbe determinato, affonda le sue radici nella preistoria indoeuropea. Perciò, quando sento le persone conservatrici, papa in testa, che insistono sull’esigenza di salvaguardare le cosiddette radici cristiane dell’Europa (che cristiane non sono affatto, ché Cristo non ne vorrebbe sapere di tali superstizioni), vengo colto da un moto di sconforto, perché esse sono tutte dello stesso tipo, superstizioni cui è stata apposta artificiosamente l’etichetta di “cristiano”, le quali sono più ceppi che radici; ed è impellente reciderle, invece, anche con approfonditi studi storici, perché l’umore che da esse sale ad alimentare la nostra pianta è tossico e produce guasti.

 

Nota 4: le già citate droghe sono ricercate, probabilmente, perché danno a chi le usa la sensazione di potersi liberare del normale stato di coscienza umano, e anche il fumo di tabacco e l’alcol (ma aggiungerei anche il rumore con cui in discoteca i giovani amano stordirsi, e in qualche caso l’uso smodato di cibo) sono ricercati innanzi tutto perché ottundono le sensazioni interne, smorzano sentimenti e percezioni, e dunque oltre a essere segno di tendenza autodistruttiva contro il corpo, lo sono soprattutto nei riguardi della coscienza. Ho osservato per tanti anni mio padre, che allungava una mano precipitosamente con aria terrorizzata verso il pacchetto di sigarette ogni qual volta la situazione suscitasse qualche affetto. La dipendenza chimica che si genera poi con l’uso di tali sostanze e che dipende dal corpo aggregato, rinforza, è vero, il legame con esse (cioè anche dal corpo proviene un desiderio di consumarne), ma è una simulazione che proviene dal sistema nervoso e serve per occultare le vere cause, quelle spirituali, del fenomeno, e indurci a una rappresentazione meccanicistica di esse.

 

Nota 5: ma non solo: persino il desiderio di cibo può diventare insopportabile per chi non vuole accettare di essere umano. Ho avuto in casa un esempio di questo tipo umano assai a lungo, perché mio padre era così, classico caso di gigantismo fallito, terrorizzato da qualunque affetto: considerando segno di inferiorità avere qualsiasi tipo di desiderio o sentimento, anche i sentimenti o i desideri più nobili dell’animo umano, li declassava tutti a capricci e si proibiva di avere interesse per qualunque cosa. Rifiutava i rapporti umani e passava le giornate da solo, davanti alla televisione, fumando, senza mai fermarsi a guardare un programma preciso, ma saltabeccando da un canale all’altro a casaccio, fino a inebetirsi. Mostrava profondo disprezzo per chi sentisse attrazione verso l’arte o il sapere: faceva passare chi ne avesse per uno sciocco infantile e le mie esigenze in questo senso venivano trattate come capricci. Non avendo alcun mezzo per esaltarsi, alimentava in sé la violenta tendenza a disprezzare tutte le altre persone, e giustificava per lo più tale disprezzo proprio col riscontrare negli altri quei desideri o sentimenti umani che lui giudicava degradanti (cioè tutti) e per dirsi che lui ne era esente tendeva ad accollare agli altri i desideri che lui negava di avere; era una continua lotta contro questa sua fantasmagoria di comodo, perché se gli veniva voglia, mettiamo, di un gelato, ti tormentava fino a che non ti aveva costretto a confessare di aver voglia di un gelato e ti obbligava a mangiarlo, trattandoti da sciocco bambino capriccioso. Se si usciva con mia madre a fare una passeggiata, lui non badava ad altro che a rammentarle quanto le fosse piaciuta una volta questa o quella cosa, e insisteva tormentosamente perché se ne facesse ritornare il desiderio, facendo poi mostra di essere il grande uomo superiore di fronte alla donna oca e piena di voglie. Diventava agitato all’ora dei pasti perché la sensazione di fame lo faceva impazzire, non potendo sopportare in sé nemmeno il desiderio di cibo; mangiava in fretta e furia, in malo modo e con espressione inversa, sempre cose sciatte e prive di gusto, e malsane; per negare di avere il desiderio di qualcosa da mangiare, usualmente metteva in atto una manovra: addossava a qualcun altro il desiderio che provava lui, con tono irrisorio e con prepotenza (cioè usava una fantasmagoria di comodo dove ero io oppure mia madre a desiderare quel piatto a pranzo e mai lui: accollandoci questo desiderio riusciva, appunto, a disprezzarci come persone che hanno desideri, cosa che nella sua ottica significava essere spregevoli, esentando sé stesso dal provarne), poi cucinava quella cosa e sottolineava pesantemente e insistentemente come lui si sacrificasse a mangiare quello che non gli piaceva per far contenti noi, oppure che mangiava solo perché non andasse sprecato, per finire gli avanzi, preoccupandosi che nessuno sospettasse che l’aveva cucinata perché ne sentiva il desiderio. L’ultima cosa che ricordo mi abbia detto prima di uscir di casa l’ultima volta, e cadere a faccia avanti colpito da un ictus, fu, col solito tono di pesante e maligno discredito, di aver preparato per me le polpette, “che ti piacciono tanto”(i miei gusti sono totalmente diversi, perché prediligo i sapori poetici e semplici a quelli grevi e pesanti), insistendo prepotentemente per suscitare in me una reazione di entusiasmo, fino a esasperarmi. Gli risposi: “quando crepi, sarà sempre troppo tardi”. Sono le ultime parole che ricordo di avergli detto, ma non mi sentì, o fece finta, perché era molto sordo e usava la sua sordità per ignorare quello che dicevano gli altri e inventarsi la realtà che gli faceva comodo. Durante la sua agonia, che durò quasi due anni, era difficile convincerlo a mangiare, e una volta io stavo cercando di attirare il suo interesse verso un pesce prelibato, ma lui si rifiutava, e disse: “che cosa ti fa credere che mi interessi?” Allora io, che grazie alle mie lunghe osservazioni avevo inquadrato il problema, riuscii a trovare la risposta giusta immediatamente: “non deve interessarti, devi mangiarlo.” Lo ingoiò tutto, un boccone dopo l’altro, senza più batter ciglio. Mi scuso per l’ulteriore sfogo autobiografico, ma anche questo è un esempio pertinente.

 

Nota 6: si chiamava Matteo, era nel suo sedicesimo anno, e per il dileggio ricevuto da parte dei suoi compagni si è gettato dal quarto piano. I giornali (cfr. “La Repubblica” del 6 aprile 2007, pagg.10-11) hanno focalizzato l’attenzione sul fatto che l’insulto fondamentale rivoltogli era quello di essere gay e hanno parlato di omofobia; ma il ragazzo era il primo della classe e non si conformava ai modi volgari degli altri (“girano dei gruppetti di tamarri che ti prendono in giro se non vesti come loro, se non fai parte del branco” dice un suo compagno), perciò i temi sono due: da un lato, è vero, l’omofobia che porta a usare il termine “gay” come un insulto e a considerare l’omosessualità come un marchio d’infamia, secondo quell’assurda etica cattolica di cui dovremo discutere in dettaglio in un’opera apposita, ma dall’altro il tema fondamentale è che l’eccellenza non viene tollerata, di norma, e non solo a scuola, bensì in nessun ambiente. Avevo scritto già qualcosa su un argomento simile in: Introduzione alla Scienza sacra, §3.2, dove mettevo in guardia l’aspirante “iniziato” dall’invidia degli inetti, che teppisticamente fanno passare per colpevole egoismo e per atto d’orgoglio quello che è meritorio impegno a purificare la propria anima dagli errori concettuali e a elevare i propri sentimenti. E’ importante che le persone, soprattutto i giovani, sappiano chiaramente che cercare il proprio bene non è un atto di egoismo e una colpa, che non è un male trovare il bene, e che con questa consapevolezza si difendano dagli atteggiamenti distruttivi che ti fanno sentire in colpa se susciti invidia. Già scrissi (ivi, §3.5): …vedrai le persone, quando sentono desiderio di qualcosa di elevato, vergognarsene e sentirsene in colpa, perché vige, sotteso, il concetto che chi provoca invidia nell’altro sia colpevole. E’ un dovere rinunciare al proprio bene, essere ignoranti e mediocri perché altrimenti si provocherebbe invidia! Ma, amico mio, se mi seguirai e studierai scientificamente l’anima e i suoi sentimenti, ti renderai conto che l’oggetto dell’invidia è la vittima, e chi la colpisce con tale distruttivo sentimento è il colpevole. Infatti, se nego al mio prossimo la possibilità di procurarsi il bene lo danneggio, e questo è un atto di aggressività, una colpa. La prossima volta che qualcuno ti trova antipatico perché aspiri all’eccellenza, pensa, dentro a te stesso: il problema è suo. Non posso che ribadire qui quest’invito, dopo aver sviscerato in maniera, spero, convincente quale grave patologia si sia procurata l’anima che si comporti in questo modo aggressivo e invidioso verso chi eccelle.

 

Nota 7: nel nazismo e nel fascismo era molto presente ed attiva la convinzione di dover avere in dono l’eccellenza in quanto appartenenti alla “razza eletta” e al tipo d’uomo “superiore”; non è strano, dunque, che fosse tanto diffusa allora la conseguente tendenza al dileggio, cioè a quello che abbiamo voluto connotare come “teppismo spirituale”, la distruttività dell’inetto invidioso, colto dalla gelosia infantile, il sentimento di Caino verso Abele, verso chi quei “doni” abbia saputo procurarseli da sé.

 

Nota 8: pensiamo a quante calunnie nella storia hanno colpito persone innocenti, come le donne in possesso di antiche tradizioni erboristiche fatte passare per streghe e accusate di commercio col diavolo, o le accuse ai Catari, di baciare ritualmente il … ai gatti, o ai comunisti, di mangiare i bambini (o di usarli come concime dopo averli bolliti, questa è una variante apparsa di recente), o le accuse di complotto mondiale agli ebrei, nei famosi “falsi protocolli”… Quanto al tipo di menzogna che vuole far passare per vizio una virtù,  per gettare discredito, basti pensare, per esempio, alla temperanza e alla sobrietà degli ebrei fatta passare per taccagneria (ma non capita solo agli ebrei, ultimamente mi sono sentito dare dell’”arpagone” perché volendomi dedicare agli studi e cercando di evitare contatti con gli ambienti così aggressivi del mondo del lavoro, ho ridotto i miei bisogni al minimo e vivo con poco, e dunque sto attento ai prezzi, quando vado al supermercato, e cerco di approfittare delle offerte. Chi m’insultava è uno che non ha mai lavorato neanche un minuto in vita sua e si fa mantenere in tutto e per tutto –compresi i costosi manicaretti con cui s’ingozza- dalla sua compagna. Ah, povero Agis, che gli tocca sopportare!). Posso raccontare un recentissimo aneddoto, su questo argomento: lo scorso 1° aprile era domenica, ed era la mattina della Stramilano, la gara podistica che si tiene ogni anno qui a Milano; in piazza Castello, mentre ammiravo tutti questi atleti impegnati nella gara, ho sentito un signore attempato, grasso e tutto rattrappito (e con la tipica carnagione grigiastra da fumatore incallito) sbraitare irosamente perché la manifestazione gli aveva impedito di spostarsi in auto: per quattro imbecilli diceva che vogliono solo pavoneggiarsi! E oltre tutto rischiano l’infarto! Avrei voluto fargli notare che sedentarietà, fumo e sovrappeso sono i fattori che più espongono le persone al rischio di infarto.

 

Nota 9: non tutti gli atti di violenza sessuale, ovviamente, hanno questa motivazione, ma in genere è così per quelli rivolti verso a bambini. Quelli rivolti alle donne sono atti di possesso e di sottomissione, e ripetono un comportamento istintivo presente anche negli animali non umani, che sentono l’impulso di impadronirsi delle femmine per dominare il territorio con la propria stirpe (la specie infatti vuol selezionare le caratteristiche del maschio più forte perché adattive); nei popoli primitivi era d’uso comune, durante una razzia, lo stupro di massa delle donne del nemico sconfitto, sempre per l’istinto di imporre il proprio seme e la propria razza a danno di quella dei deboli. Questo deve farci pensare come sia assurdo assumere la Natura come fonte normativa e confonderla con la volontà divina. In alcuni casi, però, anche lo stupro su una donna è un atto di sfregio, rivolto a umiliarla e sporcarla, distruggendone la dignità. Gli atti di sodomizzazione violenta (lo stupro cioè compiuto su un maschio più giovane) sono presenti anche nei branchi di animali non umani e servono a stabilire chi è il maschio dominante, cioè a far capire al giovane che è più debole e deve sottomettersi; perciò non sono atti sessuali gli episodi simili, così ripugnanti, che avvengono nelle carceri e nelle caserme (e sembra fossero molto frequenti fra soldati nazisti), ma atti di dominio, né è pertinente parlare, in questo caso, di omosessualità, perché simile atto vuole proprio, al contrario, essere un’affermazione di superiore virilità. Come si vede, ad azioni che sembrano simili corrispondono, invece, forme spirituali completamente diverse e non sempre ciò che assomiglia esteriormente va collocato nello stesso genere.

 

Nota 10: il fenomeno non è del tutto superato, e non c’è bisogno di andare molto lontano per trovarne degli esempi. Qualche anno fa, nel paesino sul lago di Como dove trascorro qualche settimana ogni anno in estate, girava un operaio in cerca di lavoro saltuario: era uscito di prigione, era un alcolizzato che aveva stuprato la figlia. Nel nostro quartiere trovò un po’ di lavoro, ma non sapeva fare nulla, se non gettare ovunque quintali di cemento. Ed è una caratteristica, che io trovo straziante, di queste persone affette da fallimento del punto di alienazione, con la mente rozza e incapace in maniera grave di rispettare la realtà, quella di sapersi esaltare per motivi assurdi, con estrema facilità: essi hanno, infatti, dei momenti di violenta esaltazione che interrompono brevemente lo stato continuo di prostrazione in cui in genere si trovano. Questo operaio, che non sapeva far nulla tranne che usare il cemento, riusciva assurdamente a sentirsi esaltato per quell’unica sua capacità e si vantava, come se fossero qualcosa di straordinario e di unico, delle sue “opere” (tra cui lo scivolo per un signore in sedia a rotelle, ma che era inservibile, perché troppo in pendenza). La sera di un Ferragosto ricordo che gettò nello stupore alcuni miei vicini di casa, che lo avevano invitato alla tavolata del quartiere, perché da torvo e silenzioso che era, si era trasformato in oratore gagliardo, ed elencando le sue “opere” cementizie si magnificava sostenendo di essere l’unico al mondo a saper usare il cemento così, e a riprova di questo ci invitava a passare per una certa strada, dove era visibile una scala fatta da lui, che dopo sedici anni, cosa a suo dire inusitata, era ancora in piedi. Mi fece molta pena. Comunque, non è necessario andare fra le persone così deprivate ed umiliate per trovare questo fenomeno, perché è stato osservato qualcosa di simile anche fra i ricchi pazienti della psichiatria ufficiale, che viene catalogato come depressione e ha ricevuto il nome di “sindrome bipolare”. Ma noi non accettiamo questa terminologia, perché è sbagliata: come ho già fatto notare nella nota 9 del presente libro VI, chi stabilisce i generi e le specie, e dunque i termini, fondandosi solo sull’aspetto esteriore dei fenomeni, spesso crea generi fittizi (e termini tanto complicati e altisonanti quanto vuoti di significato) accomunando cose che sembrano simili e che invece sono completamente diverse. A chi guarda la forma spirituale risulta chiaro che questa “sindrome bipolare” non ha niente a che vedere con la depressione, se vogliamo riservare quest’ultimo nome (come mi sembra opportuno fare) a quella sensazione di cupezza pesante, di disperazione profonda e incomprensibile, di smarrimento irrimediabile che colpisce le persone saltando loro addosso quando meno se l’aspettano. Quest’ultima sensazione è ricevuta passivamente dall’anima e non proviene da lei, ma è un “messaggio” che proviene da qualcun altro; ne parleremo in uno studio dedicato alle operazioni delle intelligenze nascoste che governano la Natura delle quali abbiamo dimostrato razionalmente l’esistenza ne Il fondamento della ricerca. Invece, lo stato di prostrazione in cui versa chi è affetto da gigantismo fallito non può essere chiamato “depressione”, ma è uno stato d’animo continuo di cupo, sordo, penoso rancore verso tutto, verso la realtà, verso il prossimo, soprattutto verso sé stessi; ma può essere interrotto da qualche improvviso bagliore di sconsiderato entusiasmo nei momenti in cui la persona di questo tipo crede di aver ottenuto un qualche successo, anche minimo o insignificante, anche fantasmagorico, oppure è riuscita a darsi un sollievo momentaneo con l’abbassare il prossimo: allora, con la scarsa capacità di adesione alla realtà che è propria di queste anime, tenderà a enfatizzare all’eccesso, con un’esplosione di esaltazione, ciò che le ha dato il momento di sollievo alla piaga incancrenita della svalutazione di sé. Ricordo una volta una ragazza sconosciuta, che approfittando del fatto che a un semaforo un grosso veicolo stava per investirci entrambi, mi fermò per raccontarmi d’essere scampata un’altra volta, in bicicletta, a un pericolo simile; lo raccontò come se fosse stata la prova della sua estrema abilità ciclistica e acrobatica, e man mano che raccontava assumeva un tono sempre più esaltato: mi sono fatta i complimenti da sola! Disse non so quante volte, non riuscivo più a liberarmene. Oppure, altro esempio di un simile comportamento è il seguente: una signora che conosco fin dai tempi delle elementari, una donna assai intelligente ma compressa dalla cultura cattolica del marito e condannata da costui al ruolo grigio della casalinga, la quale, però, grazie alla sua intelligenza deve aver evitato la trappola del “doverismo” (cfr. , §5.8) e che non ha potuto nemmeno trovare alcuna soddisfazione nello sviluppo della sua intelligenza, né sano né alienato, perché qualunque distrazione dalla famiglia, condizionata com’era, la faceva sentire in colpa, versando dunque nella penosa situazione di un gigantismo senza mezzi per soddisfarsi, una sera telefonò a casa nostra dal luogo di villeggiatura in cui si trovava, apposta per sfogare con noi uno di questi momenti di violenta e assurda esaltazione. Era in preda all’entusiasmo: contrariamente al solito, si stava lasciando andare a risate e schiamazzi d’ogni genere, in un’inconsueta quanto esagerata allegria, per un unico motivo, perché era riuscita a umiliare un’altra signora correggendone un errore di grammatica.

 

Nota 11: l’obiezione che di solito viene opposta alla tesi socratica è quella contenuta nel famoso detto ovidiano (Metamorfosi 7,20 e segg.), che suona Video meliora, proboque: deteriora sequor. Si sostiene cioè che anche chi vede perfettamente che cosa è meglio in senso morale, poi sceglie di fare il peggio (il che, secondo questi commentatori, dimostrerebbe la debolezza dell’intellettualismo socratico, dell’asserzione, cioè, secondo cui fa il male, pur cercando il bene, chi non sa rettamente che cosa sia il bene). Ma non è così. Chi sostiene di vedere meliora, cioè che cosa sarebbe meglio fare in base alle convinzioni della morale comune, non ha affatto la retta idea di bene, tanto è vero che si sente lacerato tra ciò che erroneamente chiama bene e invece è il dovere (meliora), e cioè ciò che richiede da lui la società perché gli sia concessa approvazione, e ciò che invece egli sente come soddisfazione individuale (deteriora). L’alternativa non è fra bene e male, dunque, ma fra dovere e piacere. Entrambe queste ultime inclinazioni, entro cui l’anima si dibatte e si sente lacerata, derivano dal fatto che l’anima vuole il bene, ma non sapendo dove trovarlo realmente, scinde il desiderio in tanti rivoli, quali verso l’approvazione della società, la buona fama e il prestigio, quali verso le soddisfazioni dell’ego individuale; entrambe le tendenze in conflitto sono irrazionali, rivolte cioè a beni falsi. Abbiamo già detto che, se le cose vengono imposte come doveri, è perché l’anima non le desidera, altrimenti non ci sarebbe bisogno di imporle (cfr. supra, §5.6); ma se l’anima non le desidera, per definizione non le percepisce come bene, perché abbiamo definito desiderio l’affetto che suscita una cosa che venga sentita come bene. Dunque non è vera la tesi che vuole l’anima vinta da desideri malvagi anche quando la sua ragione vede chiaramente che cosa è bene. Ha ancora ragione Socrate: tutti gli uomini vorrebbero procurarsi il bene, e nessuno vuole il male in quanto tale, sapendo che è male, ma chi non abbia in sé la retta idea di bene, persegue beni illusori, che spesso sono in conflitto tra loro, come nel caso di colui che dice vedo ciò che sarebbe meglio fare, e l’approvo, ma si sbaglia, perché non vede affatto ciò che è meglio fare, solo chiama “meglio” ciò che tutti comunemente, ritengono che sia il bene, ma erroneamente, perché è invece solo il dovere imposto dalla società, e non il bene. Egli se ne sente attirato come mezzo per ottenere una soddisfazione illusoria, la buona reputazione, che non è il bene, ma un mezzo per ingigantire sé stesso, che egli desidera perché crede che l’ingigantimento di sé sia un bene, sbagliando. Solo che compiere sempre il dovere è faticoso, è una cosa che ti inaridisce e ti fa soffrire; altri beni falsi ti attirano, come le soddisfazioni dei desideri sessuali o qualche altro tipo di soddisfazione egoistica che la società non approva. Allora egli, ogni tanto, si prende una vacanza dal suo incarcerante attaccamento al dovere e cede alle lusinghe dei piaceri e dei divertimenti, sicché è poi costretto a dire: so che cosa sarebbe meglio fare, ma poi seguo i desideri peggiori. In realtà sfogare desideri irrazionali contrari al dovere non è niente di peggio che sacrificare la vita dietro a un bene falso, a un idolo che tutti chiamano dovere: entrambe queste tendenze in conflitto sono irrazionali perché dipendono entrambe da idee errate di bene. Quando l’anima sa che cos’è il bene, quando realmente lo vede, lo ama e non vuole più niente altro che il bene, il vero bene. E perciò chi ha l’idea retta di bene nella propria ragione è buono, perché bontà si chiama la retta volontà di bene, la tendenza al vero bene, e Socrate aveva ragione quando diceva che gli uomini vogliono il bene, ma non sapendo che cos’è il bene non sanno procurarselo e realizzano ciò che credono bene e invece è male; e che dunque la medicina di questo male è la confutazione degli errori concettuali che ammalano l’anima, e che è questa l’unica vera purificazione, l’unico mezzo di guarigione e di salvezza. La cura dell’anima è dunque lo studio della retta ontologia.

 

Milano, 27 aprile 2007.