GREGORIO AGIS.

 

 

 

 

 

IL FONDAMENTO DELL’ETICA.

Bene, giustizia, felicità.

 

 

 

CONTENUTI:

Introduzione.

La giustizia (libro I).

Vizi e virtù dell’anima (libro II).

Gli strumenti per il giudizio (libro III).

La vita etica: preambolo (libro IV).

La vita etica: problemi (libro V).

Il cruccio e la speranza di Agis. Realizzabilità del bene (libro VI).

Casistica (libro VII).

La vita, l’inganno (libro VIII).

Conclusione.

 

 

 

 


INTRODUZIONE.

 

0.1.Nei nostri due precedenti scritti, Il fondamento della ricerca e La cura dell’anima, abbiamo già dato la definizione di essere e di bene da due punti di vista diversi, quello dell’ontologia e quello della scienza dell’anima. I risultati sono stati i seguenti:

 

a.in seguito alla confutazione della concezione errata sull’essere, che vuole la realtà fatta di materia eterogenea al pensiero, come una somma di cose estese in uno spazio extramentale, abbiamo definito l’essere come pensiero, e dunque abbiamo identificato l’essere con la coscienza, cioè col pensiero che pensa e conosce sé stesso, e abbiamo definito realtà i contenuti del pensiero.

 

b.abbiamo così scoperto che noi stessi, che siamo coscienze, siamo l’essere. O meglio: la somma delle coscienze, gli atti mediante cui il pensiero, che è l’essere, rappresenta sé stesso sono l’essere. Essere è pensiero che rappresenta sé stesso: siamo noi coscienze la rappresentazione dell’essere; siamo noi l’essere. L’anima dunque non è creata ma esiste di necessità, visto che l’essere, per il principio di non contraddizione, non può non essere.

 

c.abbiamo chiamato bene l’essere e male il non essere; sicché, se l’essere è il pensiero che rappresenta rettamente sé stesso, e la coscienza è la retta rappresentazione del pensiero, possiamo definire il bene come la retta conoscenza mediante cui l’anima rappresenta l’essere, che chiamiamo anche verità; mentre il male è l’ignoranza e l’errore concettuale per cui l’anima perde la retta conoscenza dell’essere e di sé e dunque il bene.

 

d.abbiamo definito salute dell’anima lo stato della coscienza che è in possesso delle idee rette, che pensa sé stessa rettamente e che dunque ha una forma spirituale ineccepibile dal punto di vista logico, e tende a produrre sentimenti e desideri razionali, cioè puri, amorosi, positivi. Infatti, il Lettore ricorderà che abbiamo stabilito un nesso causale tra l’idea di bene e gli affetti dell’anima, e cioè dicemmo che ella desidera ciò che considera bene e prova sentimenti di gioia in presenza di ciò che considera bene, sicché i suoi desideri e sentimenti sono retti, ovverosia RAZIONALI, se ella li produce fondandosi nei suoi giudizi sulla retta idea di bene, sono invece IRRAZIONALI e dunque dannosi e non retti se li produce fondandosi, nei suoi giudizi, su concezioni errate di bene.

 

e.abbiamo infine asserito che, poiché bene è l’essere, affinché l’anima abbia la retta idea di bene, deve conoscere la retta idea di essere. Per questo abbiamo definito il male come ignoranza e la malattia dell’anima come quello stato dell’anima che, macchiata da errori concettuali sull’essere e sul bene, produca in sé tendenze affettive irrazionali, cioè disposizioni verso i desideri di falsi beni e sentimenti malvagi, dannosi verso il prossimo e anche verso sé stessa. Abbiamo anche asserito che l’anima perde la retta nozione di essere quando si identifica col corpo aggregato, crede di ricevere l’essere da qualcosa di esterno da sé e dimentica di essere l’essere. Cioè, la forma animalesca o bestiale(1) che si imprime in essa in seguito all’identificazione col corpo aggregato e alla sua esperienza terrena è la malattia dell’anima.

 

0.2.Abbiamo messo in evidenza, dunque, come la malattia dell’anima abbia come radice l’ignoranza e come frutto la perdita dell’amore e lo sviluppo dell’odio. Il Lettore ricorderà che abbiamo definito l’amore come desiderio del bene vero o come sentimento che l’anima prova per il vero bene quand’è presente, e abbiamo definito bontà la tendenza a provare amore, cioè a desiderare il bene. Ma se l’anima, dicemmo, ignora che la somma degli atti di coscienza dell’essere, cioè sé stessa e tutte le altre anime, sono l’essere e dunque sono il bene, non potrà più amarli, non amerà più sé stessa né le altre anime, poiché non le sentirà più come il bene. Nello studio intitolato La cura dell’anima abbiamo osservato come la perdita dell’amore di sé induca nell’anima il bisogno impellente di colmare questa lacuna, come cioè l’anima che abbia perso il proprio valore retto sia portata a credere che il suo bene sia ingigantire la propria importanza cercando di darsi un valore fittizio, non tollerando la sensazione di svalutazione in cui si trova, e abbiamo notato come tale tendenza, che abbiamo chiamato superbia, provochi in lei altre tendenze, quelle cioè verso sentimenti o desideri negativi quali invidia, gelosia, prepotenza, menzogna etc., che, recuperando il termine tradizionale, potremo chiamare vizi, così come potremo chiamare virtù(2) le disposizioni razionali, cioè amorose, dell’anima una volta ripristinata la visione logico-razionale di esse e dunque la loro retta definizione.

0.3.Ora, infatti, vogliamo riprendere la ricerca sull’essere e sul bene dal punto di vista dell’etica; così, dopo aver visto il bene come idea retta di essere, e cioè verità e sapienza, e dopo aver visto il bene come stato di salute dell’anima, e cioè nella forma spirituale che consegue alla retta conoscenza dell’idea di essere, e dunque al ripristino, per l’anima, del suo retto valore, ovverosia dell’amor di sé, vedremo ora il bene come GIUSTIZIA. Perché è di giustizia e di ingiustizia che si parla, quando si parla di etica, non di dovere. Abbiamo già confutato l’identificazione che fanno i Cattolici del bene con il dovere(3); ora vedremo che neanche la giustizia ha niente a che vedere con il dovere. Né la giustizia è ciò che si fa per compiacere un presunto essere superiore onnipotente e creatore, di cui già abbiamo confutato l’esistenza(4). La giustizia è la realizzazione del bene; e poiché il bene, quando è realizzato e viene fruito dall’anima, la rende sana e cioè felice, realizzare il bene significa produrre nell’anima felicità. La giustizia, dunque è ciò che consente all’anima di raggiungere la felicità.

0.4.Felicità è lo stato di continua, ininterrotta ed eterna fruizione del bene; che gli uomini tendano al bene, e cioè cerchino la felicità, era un assioma indiscutibile in tutte le etiche del mondo antico, una sorta di stella polare, che però è stata eclissata e non illumina più la via degli esseri umani, dacché al posto del bene come felicità l’etica del Cristianesimo storico ha collocato l’ubbidienza cieca a un Dio personale, la cui volontà viene confusa con le leggi di una Natura terrena, che noi abbiamo già dimostrato, nei nostri due precedenti scritti, essere ingannevole e contraria al bene, e con i doveri imposti da una società terrena dove non vige alcun principio di giustizia, spacciando così per etica cristiana, di volta in volta, l’ideologia del regime al potere. Noi vogliamo ora recuperare la stella polare e dunque la retta direzione del nostro cammino.

0.5.Chiamiamo dunque felicità il sentimento che genera nell’anima il possesso del bene e chiamiamo bene l’essere, che è il pensiero che ha coscienza e conoscenza di sé. L’anima è dunque felice quando possiede l’essere, quando cioè è pensiero che si pensa rettamente, conoscendosi, quando è uno degli infiniti atti di coscienza dell’essere, che in tale atto rappresenta sé stesso rettamente. Insomma, la felicità viene all’anima in seguito al possesso della verità. Chi nega all’anima la possibilità di raggiungere la verità, le nega la salute, il bene, la felicità. Se poi chi avviluppa l’anima negli oscuri velami di dogmi irrazionali proibendole di vedere l’essere e sé stessa, e dunque di essere buona e giusta (cioè sana e felice), le promette anche il “paradiso”, assurdamente concepito come premio per chi si sottometta ciecamente a norme senza fondamento logico e a una serie di precetti spacciati per morale assoluta rivelata da Dio e che invece sono o l’utile della specie o la legittimazione degli abusi e degli arbitri di chi è al potere (e che molto poco hanno di assoluto, visto che si adattano ai tempi, di volta in volta, con estrema facilità), questa è una vera e propria truffa. L’anima stia attenta, impari a riconoscere chi è il nemico e chi è l’amico, onde non cadere nelle numerose trappole che costellano il mondo terreno. L’anima si renda conto che il “paradiso” è uno stato di coscienza, non un luogo extramentale, e che è luce, non tenebra; e la luce, immagine di ciò che rende chiaro e visibile l’essere a sé stesso, è la sapienza logico razionale, e non può toccare a chi omettendo di procurarsela si è appagato di fede cieca e dogmi irrazionali, che è come dire tenebra. Perché l’inferno dell’anima, il suo male e la sua malattia, sono l’ignoranza e gli errori concettuali, l’irrazionalità che la ottenebra e la rende malvagia, così come il suo paradiso è la visione retta dell’essere e del bene che la rendono luminosa e buona(5).

0.6.Vogliamo dunque offrirti, anima umana, noi che ti amiamo, i fondamenti logici per trovare il bene e la tua salute, per costruire un’etica che ti procuri la giustizia, quella vera, e insieme alla giustizia la felicità.


NOTE ALL’INTRODUZIONE.

 

Nota 1: propongo di distinguere, nel nostro gergo, la forma animalesca da quella bestiale nel seguente modo: è animalesco l’uomo che segua quei precetti morali, i quali, pur essendo trasmessi culturalmente, sono però trasposizioni dell’istinto animale. Queste forme spirituali animalesche sono proprie di culture molto primitive, che rappresentano stadi di passaggio tra la condizione animale dotata di istinto e la condizione umana, dove l’istinto è in remissione e perciò i comportamenti che prima erano dettati dall’istinto devono essere guidati da norme assorbite culturalmente. La forma bestiale è invece quella in cui gli individui, anche condizionati in questo dalla cultura dominante, deviano l’istinto o le tendenze che ne derivano dalla finalità della specie, e lo trasformano in un desiderio individuale, finalizzato all’ingigantimento del proprio ego. Esempio: nutrirsi è un istinto, e procurarsi le risorse necessarie per sopravvivere è un comportamento istintivo, che però nell’uomo viene appreso per via culturale; ma se l’anima è in cerca di un modo per ingigantirsi e ne fa un punto di alienazione del valore (su questi concetti vedasi La cura dell’anima, libro III), l’accaparramento di risorse non è più finalizzato alla semplice sopravvivenza , che è desiderio della specie prima che dell’individuo, ma diventa un’operazione ipertrofica, finalizzata all’esibizione di una superiorità sociale ed economica che non è più desiderio specifico, ma interessa solo l’individuo e che, anzi, danneggia la collettività e dunque la specie. Allo stesso modo l’istinto sessuale può essere deviato dalla finalità riproduttiva che interessa la specie prima che l’individuo, e trasformato in un mezzo per sentirsi importanti ed ammirati, tanto che la nascita di un figlio, cioè l’interesse della specie, diventa invece un effetto collaterale indesiderato. Chiamiamo dunque i primi due comportamenti “animaleschi”, perché ricalcano l’istinto animale, i secondi, che ne sono la deviazione, invece, “bestiali” perché ne rappresentano l’involuzione verso un male peggiore. Il Lettore avrà già capito che la forma animalesca ha tendenze a desiderare, come se fosse il bene, l’utile del corpo e della specie, e tali desideri sono generati dalla concezione errata che il nostro vero essere sia il corpo aggregato, e dunque la forma animalesca è l’insieme delle tendenze verso l’utile della specie; invece la forma bestiale è propria di chi nella propria anima abbia introdotto l’idea mortifera che sia un bene l’ingigantimento della propria importanza, spinto in questo dalla sofferenza dovuta alla svalutazione che l’anima riceve nella forma umana (vedasi su questo La cura dell’anima, libro III), e quindi devia gli istinti verso questo scopo.

 

Nota 2: per la definizione completa di virtù si veda infra, §2.4 e §2.6.

 

Nota 3: vedasi La cura dell’anima, §§5.6 e nota 11 al VI libro; e anche infra, §2.4.

 

Nota 4: cfr. Il fondamento della ricerca, libro II e §3.18 in fondo.

 

Nota 5: chi abbia compreso il concetto di corpo semplice come prodotto di un atto cosciente del pensiero, che è anche immaginazione (facoltà di produrre immagini, cioè, per definizione, corpi) può capire che il “paradiso”, come lo chiamano, esiste, sì, ma non è un luogo extramentale (come d’altronde nessun luogo, visto che abbiamo confutato, nel libro I de Il fondamento della ricerca, la possibilità dell’esistenza di qualcosa fuori dal pensiero, il che è come dire fuori dall’essere): è bensì un riflesso visibile nello spazio dell’anima sana; la sua sapienza appare come luce e i contenuti affettivi sono profumi, sapori, colori (si veda su questo ivi, §§2.6-2.14). Si può dunque capire che nessuno può “portarti in paradiso”, se fai “il bravo” e assolvi i riti imposti dalla religione; non è con i riti e i sacramenti che l’anima diviene sapiente e sana, ma con la confutazione degli errori concettuali che generano in lei tendenze verso i falsi beni, e con l’acquisizione della verità, che rettifica i suoi affetti. Né ci sono i diavolacci che se sei “in peccato mortale” ti acchiappano, t’infilzano su un forcone e ti portano all’inferno. L’inferno dell’anima è la tenebra, che è la manifestazione visibile del suo stato di ignoranza e stoltezza, insieme alla forma irrazionale che ne deriva, la quale, quando appare nello spazio, manifesta deformità e carenze simbolicamente, dando luogo a uno scenario pieno di immagini e sensazioni ripugnanti.


LIBRO I.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA.


LIBRO I.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

L’etica come scienza della giustizia(1.1).

 

La giustizia come realizzazione del bene(1.1) e cioè come “dare a ciascuno ciò che gli spetta”(1.1-1.2).

 

All’anima, che è l’essere, spetta l’essere e cioè la forma di sapienza e amore, che chiamiamo anche salute; la felicità(1.2).

 

Ingiustizia come negazione all’anima del bene e del valore(1.3). Il principio fondamentale dell’etica: non negare all’anima (propria o altrui) il bene e il valore(1.3).

 

Polemica con errori comuni nella nostra cultura(1.4-1.6).

 

Ciò che abbiamo già visto in relazione alla salute dell’anima, possiamo riesaminarlo in relazione alla giustizia(1.7).


1.1.Intendiamo per “etica” quella scienza che guida le nostre azioni in una realtà intersoggettiva. La domanda centrale della ricerca etica è: che cosa è giusto fare? o, in altri termini, che cos’è la giustizia? Abbiamo testé (§0.3) definito la giustizia come realizzazione del bene, e sappiamo già, per averlo ripetuto ormai più volte(1), che bene è l’essere e che l’essere è pensiero che ha coscienza e conoscenza di sé; e abbiamo anche detto che il pensiero, quando pensa sé stesso (eternamente, perché il pensiero, se non pensa, non è, ma l’essere, per il principio di non contraddizione, non può mai non essere) si rappresenta e si conosce in un’infinita molteplicità di atti di coscienza, che sono le anime. Perciò, se la giustizia è la realizzazione del bene, e il bene è l’essere, l’anima, quando in sé rappresenta e realizza l’essere, e dunque è il bene, è giusta. Ma poiché, come abbiamo detto, l’essere è la somma di tutte le coscienze, le infinite rappresentazioni dell’infinito pensiero, perché una sola anima, essendo un essere finito, non rappresenterebbe rettamente l’essere infinito, e sarebbe una menzogna e non la verità sull’essere senza tutte le altre anime, il bene non è la realizzazione della verità in un’anima sola, ma in tutte, e dunque possiamo riformulare la definizione così: giustizia è dare a ciascuno ciò che gli spetta. Infatti è così che si realizza il bene, quando a nessuno è tolto ciò che è bene che abbia.

1.2.Ma l’anima è l’essere, e dunque le spetta l’essere. E se essere è pensiero che ha coscienza e conoscenza di sé, spetta all’anima di conoscere, di procurarsi la verità e la luce su sé stessa e sull’essere; e abbiamo chiamato questo stato di retta conoscenza di sé “salute” (cfr. La cura dell’anima, §1.5) o forma spirituale eletta (o anche retta). Dunque l’anima, quando si procura la salute, compie un’azione giusta, perché la salute, che è lo stato di coscienza sapiente e di conseguenza amoroso(2), le spetta; ma, ovviamente, è giusta quell’anima la quale riconosca che anche a tutte le altre anima spetta l’essere, che cioè spetta a tutte le anime di essere una retta rappresentazione dell’essere, di avere forma sana e retta grazie al possesso della verità. E’ giusto dunque che l’anima, insieme a tutte le altre anime, abbia sapienza, ingiusto che anche una sola anima sia tenuta nell’ignoranza; il che è come dire che è giusto che l’anima, insieme a tutte le altre anime, abbia il bene, se bene è l’essere e se l’essere è pensiero che ha sapienza; ed è ingiusto che anche una sola anima sia privata del bene. E poiché la fruizione del bene, ovvero il sentimento dell’anima che sa di possedere il bene, si chiama felicità, concludiamo che è giusto che l’anima, insieme a tutte le altre anime, sia felice, ingiusto il contrario.

1.3.Va da sé, quindi, che commette ingiustizia chi priva l’anima, propria o altrui, del bene, e cioè della conoscenza dell’essere; e commette ingiustizia chi priva l’anima, propria o altrui, del suo valore, visto che noi diamo valore a ciò che è bene, e dato che l’essere è il bene e le anime sono l’essere, e dunque le anime (tutti noi, gli esseri, che siamo atti di coscienza dell’essere) sono il bene. Insomma: chi nega l’essere o il valore di sé stesso o del prossimo è ingiusto, mentre per essere giusti è sufficiente riconoscere di sé stessi e del prossimo la verità e il valore. La nostra etica è tutta qui, questo ne è il principio fondamentale, da cui si possono ricavare le norme di comportamento particolari per agire bene: l’etica non è una pletora di precetti e una serie di norme ponderosa e complessa, ma il suo fondamento è semplice e chiaro: non negare all’anima, propria o altrui, il suo bene, cioè l’essere, e poiché è essere il pensiero che conosce rettamente sé stesso, non negare all’anima la retta sapienza; non negare all’anima, propria o altrui, il valore, perché l’anima è l’essere, e l’essere è il bene, e dunque ha valore. Per agire rettamente non occorre altro. Chi segue questo principio senza mai derogare realizza il bene, per quanto può, ed è giusto.

1.4.Non è vero dunque che è impossibile per l’uomo essere giusto e che è giusto solo Dio, come dicono i Cattolici; quando l’anima è giusta ella stessa è dio. Perché non esiste un Dio che è un altro essere, inteso come un essere personale (o, peggio, un individuo che è poi tre persone, assurdamente) che sarebbe più essere di noi coscienze: Dio è l’essere che ha coscienza di sé, e cioè è il principio, che è pensiero infinito, infinita potenza di pensare (e non una persona né un essere individuale), con i suoi atti di coscienza, le rappresentazioni in atto che ha di sé, che siamo noi: noi siamo le coscienze dell’essere, noi siamo l’essere, noi siamo Dio(3). Ed è un errore pensare che la giustizia divina sia imperscrutabile, perché la giustizia è un’idea(4), ed è facilmente visibile nel pensiero, se la si definisce con precisione, a chiunque sia pensiero e coscienza. E’ sufficiente applicare il metodo assiomatico deduttivo: dagli assiomi che è bene essere, male non essere e che essere è pensiero e coscienza, abbiamo trovato che spetta alla coscienza di essere l’essere e di essere il bene e abbiamo chiamato tale enunciato “giustizia”. E’ una tautologia, cioè una verità necessaria, sempre vera, perché la sua negazione, essendo contraddittoria, è sempre falsa. E non c’è niente di più chiaro, di più certo, di più facile da capire che una verità dimostrata in questo modo. Non c’è niente di imperscrutabile e misterioso nell’essere, ma chi vela l’essere a sé stesso con queste asserzioni superstiziose e irrazionali lo depriva da ciò che gli spetta, cioè commette ingiustizia, secondo la nostra definizione.

1.5.Non è vero, dunque, che dirsi giusti è un atto d’orgoglio, che la giustizia è una virtù inarrivabile per l’uomo, e che siamo inderogabilmente peccatori: è una calunnia invidiosa. Hanno torto i Cattolici che sottraggono all’uomo la possibilità di redimersi veramente, negandogli la via verso la giustizia col convincerlo che essa è un qualcosa di misterioso e incomprensibile, inattuabile, salvo poi propinargli una redenzione fasulla, che contraddittoriamente prescinde dallo stato di giustizia dell’anima: che altro è la redenzione, infatti, se non la guarigione dell’anima dalla tendenza al male, cioè dall’ingiustizia? Essi pretendono così, con le loro manovre, di legittimare e giustificare le proprie carenze impedendo agli altri di far loro da termine di confronto e smascherarli. Al contrario, quando l’anima ha in sé l’idea di bene e lo realizza, ella è giusta, ed è giusto che se l’accrediti, questa virtù; perché è cosa retta dire di sé stessi la verità. Ma possibile che non si noti l’assurdità di una religione che pretende che tu sia buono, e che ti minaccia punizioni eterne se non lo sei e compi atti colpevoli, e poi ti proibisce di conoscere la “scienza del bene e del male”, sostenendo che essa spetta solo a Dio (è questo infatti il cosiddetto “peccato originale” che da Adamo si è trasmesso fino a noi, secondo loro), e che procurarsela è un atto di orgoglio? Che Dio è quello che ti proibisce di conoscere il bene e il male, e poi se non fai il bene e non eviti il male ti condanna in eterno? Ma come faccio a realizzare il bene se non so che cos’è? forse che posso disegnare un triangolo se ignoro la definizione di triangolo? posso procurarmi dell’oro se non so che cos’è l’oro e come riconoscerlo? posso fabbricare un tavolo se nessuno mi spiega com’è fatto un tavolo? e come posso fare il bene se non so che cos’è? e come posso evitare il male se non so che cos’è? Devo fidarmi di una pletora di precetti e norme spacciate come bene e volontà divina imperscrutabile da un clero che si qualifica come intermediario tra me e una divinità misteriosa che mi chiede di essere umile e sottomesso, cioè di rinunziare al mio bene, la sapienza e la rettitudine, perché toltomi il bene poi me lo darà in premio in cambio di adulazione e piaggeria e di riverenza verso al suo clero? Non è assurdo?

1.6.E che manovra è proibirmi di essere giusto, sostenendo che procurarsi la scienza del bene e del male è un atto di orgoglio e di insubordinazione verso Dio, salvo poi disprezzarmi e svalutarmi perché, essendo umano, sono incapace di essere giusto? Il Lettore che abbia prestato attenzione al nostro precedente studio avrà già acquisito le armi per difendersi da tale manovra: avrà già capito che questa è la classica fantasmagoria di comodo del superbo che vuole immaginarsi gli altri tutti quanti inetti e colpevoli per poterli disprezzare, ingigantendo sé stesso mediante una falsa immagine di santità, e che agisce con prepotenza per costringere la realtà ad adeguarsi ai suoi desideri, alla sua smania d’ingigantirsi: ti rende ingiusto e incapace con la prepotenza, la frode, la menzogna per poterti disprezzare e dominare, accreditandosi presuntuosamente come unico detentore della morale e della sapienza teologica e pretendendo riconoscimenti pubblici di questa presunta superiorità. Perché questi sedicenti pastori alimentano in sé un attaccamento formidabile verso il prestigio e il potere e i privilegi e gli onori che conferisce loro il ruolo di principi di santa romana Chiesa(5): sono i mezzi con cui essi soddisfano la propria superbia. Dunque il loro misologismo, quello che gli storici hanno chiamato perspicuamente oscurantismo, cioè questa tendenza a inchiodare l’anima al suo male convincendola di essere incapace di trovare da sé la verità, e dunque la forma spirituale retta, il bene e la salute, salvo terrorizzarla con minacce di pene infernali come punizione per la sua incapacità, dalle quali promettono poi di salvarla con mezzi irrazionali, coi poteri misteriosi dei loro riti e sacramenti, non è la classica manovra del ciarlatano che ti vuole imbrogliare spillandoti in cambio qualcosa? Non faceva così anche Vanna Marchi, mettendo in atto il medesimo schema: incombe su di te un pericolo spaventoso, tu non sei capace di liberartene senza aiuti soprannaturali, ti offro io il rimedio, di cui sono l’unico detentore, anzi ti prometto mirabilia? Minacce e promesse, relegarti nell’incapacità e offrirsi poi come unici detentori del rimedio, in cambio di soldi, nel caso dei ciarlatani più piccoli, in cambio di potere, onori, privilegi, benefici, riverenza e sottomissione, nel caso di questo grandioso, immenso, satanico ciarlatano che è la Chiesa cattolica. E perché Vanna Marchi è stata condannata ed è in galera, e quell’altro è sul trono? Se il Lettore è religioso e si sta scandalizzando di quanto appena detto, stia attento e rifletta bene: se ama Cristo, ascolta Cristo, non quei romani che trascinano il suo nome nel fango attribuendogli  le loro nefandezze, e lo tengono in ostaggio, incatenato e torturato dai loro dogmi infernali. E Cristo non dice: lascia a me la giustizia e il bene, ché io sono Dio e tu sei incapace; egli, al contrario, dice: “E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? (Lc.12,57)”(6).

1.7.No, per rettificare l’anima e renderle la salute non occorrono riti magici e forze misteriose. Perché le sue tendenze diventino tutte razionali, da irrazionali che sono, perché ella tenda a desiderare solo il bene vero e non quelli falsi e illusori, ella deve rettificare la sua idea di essere, perché sapendo che l’essere è il bene, possa desiderare il vero bene, desiderando l’essere. E quando desidera il vero bene, desidera l’essere di tutti gli esseri, perché questo è il bene, e dunque dà loro il retto valore e li ama; ecco che ella è diventata giusta, si è redenta. Una tale anima, conoscendo il valore dell’essere e sapendo di essere l’essere recupererà il retto amore anche di sé, e già dicemmo che l’anima che conservi il retto amore di sé è sana, perché se non si sente profondamente lesa dalla penosa sensazione di non avere valore e si ama, non cerca di darsi quel valore che non ha, non cerca di ingigantirsi, scambiando per beni i mezzi che possano soddisfare questa smania di darsi un valore eccessivo e illegittimo, che è la sua malattia: tutto questo era la materia che trattammo nel precedente studio La cura dell’anima. Ora ci sentiamo di aggiungere che l’anima sana può dirsi anche giusta perché ha dato almeno a sé stessa ciò che le spetta, la forma sana, appunto, luminosa e sapiente, e tende a desiderare lo stesso bene anche per le altre anime, cioè tende alla giustizia.  Il che è come dire che la salute dell’anima, che le proviene dalla retta conoscenza dell’essere, da un altro punto di vista è giustizia. Notiamo anche che, se l’anima non è schiava di una tendenza a ingigantirsi, perché sa darsi il retto valore, non alimenterà nemmeno quelle tendenze irrazionali che dipendono da tale smania di ingigantimento, la sua superbia, perché ha sradicato da sé le cause che le fanno essere, cioè il desiderio di riservare per sé tutto il valore a scapito degli altri e di negare la propria eguaglianza con gli altri, la normalità umana, che chi non ha la retta idea di essere sente erroneamente come screditante. E tali tendenze, abbiamo visto, sono quelle ad alimentare sentimenti negativi verso il prossimo (gelosia, invidia) e desideri dannosi (prepotenza, distruttività); sono, insomma, ciò che si sarebbero chiamati “vizi”, se il Cattolicesimo non si fosse impadronito di tale termine, insieme a quello opposto, “virtù”, e non ne avesse alterato talmente il significato da renderlo assurdo, sicché oggi nessuno osa più parlare di vizio o virtù, per tema di essere scambiato per bigotto repressivo e irrazionale. Vogliamo ora, invece, recuperare il significato scientifico di questi due termini, perché essi sono strumenti indispensabili alla realizzazione del bene, che ci erano stati proditoriamente sottratti.


NOTE AL LIBRO I.

 

Nota 1: cfr. Il fondamento della ricerca, §2.9 e La cura dell’anima, §1.3 e passim.

 

Nota 2: abbiamo definito la salute dell’anima (cfr. ivi, §1.5) come lo stato che consegue alla conoscenza della verità ontologica; il Lettore ricorderà la relazione che abbiamo stabilito tra l’idea di bene e la tendenza verso desideri e sentimenti: a seconda di ciò che un’anima crede essere il bene, desidererà cose diverse, perché noi desideriamo ciò che crediamo un bene. Sicché nell’anima si produrranno tendenze razionali, cioè sane, verso il bene vero (l’insieme delle tendenze e dei contenuti conoscitivi che ne stanno alla base si chiama “forma spirituale”) solo se ella ha in sé la retta idea di bene. E poiché è bene l’essere, come già dicemmo, occorre che ella sappia correttamente che cos’è l’essere, perché abbia salute. Tutto questo è materia contenuta nel libro I de La cura dell’anima, e, comunque, essendo il principio fondamentale della nostra psicologia, in mancanza del quale non si può sradicare il male dall’anima, non ci stancheremo mai di ripeterlo (vedi anche infra, §§2.1-2.2). Dell’amore abbiamo parlato nel II libro de La cura dell’anima. Mi permetto di richiamarne qui la definizione: si chiama amore il desiderio di bene, sia inteso come tendenza a desiderare il bene, sia come singolo atto desiderativo (cioè ogni singolo desiderio contingente, se va verso il bene, è un atto d’amore), e si chiama amore anche il sentimento di fruizione del bene presente, cioè gioia o felicità.

 

Nota 3: si veda Il fondamento della ricerca, §§2.1-2.2; 2.4 e 2.9-2.10.

 

Nota 4: l’idea è ciò che è immediatamente visto nel pensiero quando esso applica il metodo assiomatico deduttivo, a partire dall’assioma principale, che essere è pensiero e cioè coscienza e conoscenza di sé, e che essere è bene, male non essere. Attenzione a non confondere l’idea, che è una visione chiara e certa che l’essere si procura su sé stesso a priori, deduttivamente, senza l’apporto dell’esperienza sensibile, con i concetti ricavati a posteriori dall’esperienza sensibile, cioè astratti, che sono tutti sbagliati, perché confusi, oscuri e contraddittori. Il Lettore ricorderà ciò che dicemmo negli ultimi tre libri de Il fondamento della ricerca, che, cioè, le sensazioni del mondo terreno non rappresentano veri esseri ma simulazioni fuorvianti e ingannevoli. E, comunque, il Lettore che voglia seguirci è invitato a tenere sempre presente il rovesciamento del “ragionamento bastardo”, come lo chiama Platone nel Timeo (52b), il pregiudizio materialista sull’essere, che abbiamo compiuto nel I libro dello stesso scritto.

 

Nota 5: per il concetto di “fantasmagoria di comodo”, vedasi La cura dell’anima, §4.9 e per “superbia” e “attaccamento” e tutta la teoria del bisogno di ingigantire la propria importanza come patologia dell’anima deprivata del suo retto valore, vedasi ivi, libro III.

 

Nota 6: promettiamo qui di elaborare un testo ove si dimostrerà la concordanza tra la nostra Scienza sacra con il dettato evangelico (chiamiamo così, Scienza sacra, la nostra filosofia per distinguerla sia dalla pseudoscienza materialista che dalla religione irrazionale; si noti che per noi “sacro” ha il significato di “intoccabile”, ma non perché il sacro sia proibito ai profani, come nel linguaggio distorto della superstizione, bensì viceversa, noi usiamo tale vocabolo nel suo significato originario: il “sacro” in tempi assai remoti coincideva col “pubblico”, cioè era sacro ciò di cui l’individuo non poteva appropriarsi esclusivamente, non era “privatizzabile”, detto in termini moderni, ma che doveva rimanere patrimonio di tutta la collettività: per esempio, erano sacre le fonti, perché l’acqua è una risorsa che spetta a tutti e nessuno può appropriarsene in esclusiva. Infatti la nostra scienza, essendo semplice, chiara e ben dimostrata è anche massimamente condivisibile). Prima, però, occorrerà terminare il ciclo di studi sull’essere e sull’anima.


LIBRO II.

 

 

 

 

 

VIZI E VIRTU’ DELL’ANIMA.

 


LIBRO II.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Richiamo al concetto di forma spirituale e alla terminologia connessa(2.1).

 

L’immagine della pianta: l’idea introdotta nell’anima è la causa (seme), delle sue disposizioni (fusto), e le disposizioni sono causa dei singoli contenuti della coscienza e delle sue azioni (frutti). La pianta buona e la pianta cattiva (2.2).

 

Salute e giustizia dell’anima: se l’anima è sana, cioè possiede la retta forma spirituale, è anche giusta; se l’anima è ammalata perché la sua forma spirituale è composta da tendenze irrazionali, è anche ingiusta. Le azioni colpevoli sono, infatti, sintomi della malattia dell’anima, frutto cioè delle sue tendenze irrazionali(2.2-2.3). Etica e scienza dell’anima hanno lo stesso oggetto, il bene e il male, ma da due punti di vista differenti(2.3).

 

Vizio e virtù: prima definizione(2.4). Polemiche contro concezioni false di virtù presenti nella nostra cultura(2.4).

 

Definizione completa di vizio e di virtù e classificazione delle virtù secondo la tradizione socratico-platonica(2.5-2.6). La superbia (2.5). Digressione sull’esigenza di rigore terminologico: i solecismi diventano calunnie(2.5).

 

La virtù come intelligenza; equivalenza tra intelligenza e bontà(2.7). Polemica contro un errore della cultura comune, che vuole ragione e bontà in antitesi tra loro(2.7).

 

Prima classificazione dei vizi, e impostazione del problema(2.8).


2.1.Onde realizzare il nostro proposito di recuperare il retto significato dei termini “vizio” e “virtù”, non sarà inutile, credo, ritornare un momento alla visione della forma spirituale e svolgere un richiamo ordinato alla terminologia ad essa connessa. Abbiamo visto nel nostro precedente studio sull’anima, che la radice dei desideri e dei sentimenti nell’anima stessa è l’idea di bene, perché noi desideriamo ciò che sentiamo come bene e proviamo sentimenti di contentezza fruendo di ciò che consideriamo bene; la disposizione a desiderare una certa cosa sentendola come bene dipende, quindi, dalle concezioni sul bene che l’anima ha inserite in sé stessa. E già nella nostra scienza dell’anima abbiamo distinto la forma spirituale di chi, vivendo allo stadio animalesco, crede che il bene sia la sopravvivenza del corpo terreno e la riproduzione della specie, da quella di chi soffrendo per la svalutazione di sé dovuta all’essere umani, crede che sia bene tutto ciò che serve a colmare la lacuna, a coprire la propria mancanza di valore e a ingigantire il proprio ego; il bene come utile del corpo e della specie terreni, e quindi della società terrena, e il bene come illusoria soddisfazione individualistica, appagamento di un bisogno irrazionale di distinguersi dandosi più importanza, come mezzo di autoesaltazione, sono le due concezioni errate che vanno confutate e sradicate dall’anima perché ella possa trovare il bene vero, la retta conoscenza dell’essere e di sé, cioè la verità. Abbiamo chiamato DESIDERI IRRAZIONALI quelli prodotti nell’anima dalle false concezioni sul bene, e TENDENZE IRRAZIONALI le disposizioni a desiderarli: cioè, la disposizione o tendenza verso una certa cosa è potenzialità di desiderare quella cosa, mentre il desiderio è l’atto singolo contingente, è il singolo atto desiderativo effettivamente prodotto dall’anima nelle singole occasioni. O meglio, possiamo chiamare “tendenza” il desiderio in potenza, e “desiderio” l’atto desiderativo singolo, benché nel linguaggio comune le due cose vengano spesso confuse. Anche le tendenze a provare certi sentimenti possono essere irrazionali, quando l’anima si compiace di cose che crede beni ma non lo sono realmente, o prova dispiacere per quello che sembra un male ma non lo è, oppure è indotta a provare sentimenti negativi per il bene altrui (vero o presunto) o compiacimento maligno verso qualche presunto male che abbia colpito qualcun altro. Tutto poggia sulla falsa idea che la svalutazione e il danno degli altri sia il nostro bene, consentendoci di accrescere a dismisura la nostra importanza. Per esempio, è un sentimento irrazionale l’invidia, che è il moto negativo di una persona che veda un altro in possesso di un bene, vero o presunto, che egli (o ella) non ha, come se fosse un male che gli altri raggiungano il bene. L’invidioso è tale per via della sua superbia, cioè della smania di tenere gli altri distanti da sé e relegati nella svalutazione, mentre chi riesce a procurarsi un bene, in quest’ottica distorta, sembra valere di più. Intendo dire che per una tale anima è un bene, erroneamente, riuscire a dirsi superiore agli altri, e ciò produce in lei fastidio e dispiacere quando ella si avvede d’aver mancato tale scopo. Parimenti dicasi per la gelosia, che è il sentimento di chi vuol riservare un bene, vero o presunto, solo per sé e deprivarne gli altri, come se l’anima avesse bisogno di distinguersi e negare la propria normalità umana per valere qualcosa. Anche questa tendenza irrazionale rampolla dall’idea che ingigantirsi rispetto agli altri sia un bene.

2.2.Insomma, rappresentiamoci lo spirito come se fosse terreno da coltivare: se getto un seme, cioè se vi introduco un’idea, nascerà e crescerà una pianta che ha per fusto le disposizioni o tendenze (che dir si voglia) e per frutti i desideri, i sentimenti, le volizioni e le azioni che ne dipendono. Se il seme era buono, cioè se l’idea di essere e di bene era quella retta, nascerà una pianta buona, il cui fusto sono le tendenze a provare desideri e sentimenti razionali, e i cui frutti saranno buoni: i singoli desideri e sentimenti razionali, cioè amorosi, volizioni rette e azioni giuste. Infatti, se l’anima ha in sé la retta idea di bene sentirà come beni le cose che sono realmente tali e non sbaglierà nelle sue scelte e farà il bene. Se il seme era cattivo, cioè se nello spirito si è introdotto l’errore concettuale sull’essere e sul bene, le sue tendenze saranno dirette verso desideri irrazionali, cioè la pianta sarà cattiva e produrrà frutti tossici e amari, e spine: sentimenti e desideri irrazionali e perciò dannosi e azioni ingiuste(1). E’ molto importante che l’anima veda chiaramente sé stessa, e perciò insistiamo su questo punto, che forse non s’era focalizzato a sufficienza: quando l’anima sente una cosa come bene, la desidera, perciò i nostri desideri dipendono da ciò che crediamo essere il bene; in ogni desiderio c’è implicito e inespresso un giudizio. Se l’anima ha in sé concetti di bene errati giudicherà beni e dunque desidererà quelle cose che non sono beni realmente, desidererà dei beni falsi e illusori. Questi desideri sono irrazionali, perché rampollano da idee irrazionali: come dicemmo nell’immagine della pianta, l’idea è il seme da cui nasce un fusto che è la tendenza a desiderare un certo tipo di cose credendole beni; la tendenza, poi, che è desiderio in potenza, si traduce in atto nei singoli desideri, che sono irrazionali se la tendenza è irrazionale, e cioè rampolla da un’idea irrazionale di essere e dunque di bene. Se invece l’anima ha in sé la retta idea di essere e dunque di bene, sentirà come bene, cioè desidererà, quello che è bene realmente e perciò tale desiderio è razionale e la tendenza a provare quel tipo di desiderio, poggiando su un’idea razionale, è una tendenza razionale. Così dicasi per i sentimenti: se sento una cosa presente come bene, gioisco, perciò i miei sentimenti positivi dipendono dalla mia idea di bene: se questa è razionale il sentimento è razionale, se è invece una concezione errata sul bene, la mia gioia o contentezza dipenderà da un bene falso, che io giudico bene irrazionalmente, e perciò sarà un sentimento irrazionale, e la tendenza a provarlo, che rampolla dall’idea irrazionale di bene, sarà una tendenza irrazionale; lo stesso dicasi per i sentimenti negativi. Il Lettore ricorderà che abbiamo chiamato la pianta buona “forma spirituale eletta” e la pianta cattiva “forma spirituale animalesca o bestiale”, dividendo la forma spirituale irrazionale e maligna in due specie(2).

2.3.Vediamo dunque che c’è una stretta relazione tra salute dell’anima e giustizia: se la sua forma spirituale è retta, cioè se le sue tendenze sono tutte razionali perché dipendono dalla retta idea di essere e di bene, ella avrà in sé anche la giustizia, che, abbiamo detto, è la realizzazione del bene, e cioè consiste nel dare a ciascuno ciò che gli spetta. Infatti, l’anima che sappia che l’essere è coscienza e conoscenza di sé, e sappia che la coscienza dell’essere è molteplice, è la somma degli infiniti atti di coscienza del pensiero infinito, e che questi siamo noi, le anime, sa anche che è bene che a ogni anima tocchi di essere l’essere, e che sia una retta rappresentazione dell’essere; dunque ella amerà il bene di tutte le anime, compresa sé stessa, cioè vorrà che tutte le anime, compresa sé stessa, abbiano il bene, la verità: solo così, infatti, avendo in sé la verità, un’anima può essere la retta rappresentazione dell’essere. L’anima così istruita, perciò, amerà la giustizia e compirà solo azioni giuste, perché vorrà realizzare il bene e cioè consentire a tutte le anime, compresa sé stessa, di possedere la verità. Ella darà la medesima importanza che a sé stessa anche a tutte le altre anime, perché sa che tutte le anime sono il bene, perché il bene è l’essere che conosce sé stesso ed è nei suoi atti di coscienza, nelle anime tutte, che il pensiero infinito, l’essere, rappresenta e dunque conosce sé stesso; ella quindi darà il medesimo valore alle altre anime come a sé stessa. E, per definizione (cfr. supra, §§1.1-1.2), riconoscere a ciascuno il retto valore e non negare a ciascuno ciò che gli spetta, cioè la verità, è giustizia. Tutte le azioni di un’anima siffatta saranno rivolte alla giustizia, cioè alla realizzazione del bene; invece, l’anima ammalata, che è quella che non possiede la forma eletta per la mancanza della retta idea di bene (perché, cioè, non sa che cos’è l’essere), non saprà realizzare il bene e così essere giusta, perché non sa che cos’è, e vedremo in seguito quanto danno può fare sia la mancanza di un’idea retta di giustizia che la negazione di essa. Dunque se la giustizia è la realizzazione del bene e se l’anima sana (come abbiamo chiamato l’anima che abbia in sé la forma retta) è buona, cioè tende al bene, l’anima sana è anche giusta e se un’anima è giusta dimostra di essere sana. Questo spiega perché nel nostro precedente testo, dedicato alla cura dell’anima, ove ci affaticammo a distinguere la malattia dalla salute, già avevamo anticipato i concetti fondamentali della nostra etica, parlando di bene, di male, di vizi e di virtù, anche se allora chiamavamo i vizi “tendenze irrazionali” dell’anima e le virtù “tendenze razionali” (cfr. La cura dell’anima, nota 3 al libro II), e anticipando già esempi di azioni e comportamenti ingiusti, considerandoli però non colpe, ma sintomi di malattia dell’anima. Infatti l’ingiustizia è effetto della forma errata dell’anima, che è malattia, la quale a sua volta ha la sua radice nell’ignoranza della retta idea di essere; se il Lettore ha prestato attenzione a quanto detto supra, §2.2, e nei §§1.1-1.5 del nostro precedente scritto, La cura dell’anima, deve ormai essersi convinto di questo: l’ingiustizia, cioè la mancata realizzazione del bene, che è tendenza a deprivare gli altri del bene e del valore e dunque a commettere azioni ingiuste, è effetto della mancanza nell’anima dell’idea di bene, e cioè della conoscenza dell’essere. Infatti i moventi delle azioni ingiuste sono i sentimenti e i desideri irrazionali di chi alimenta in sé tendenze dovute a concezioni errate sul bene, le quali derivano da una visione errata dell’essere. Come dire che le azioni ingiuste e l’ingiustizia sono i sintomi della malattia dell’anima; sicché, praticamente, l’etica e la scienza dell’anima vengono a coincidere, essendo entrambe scienze del suo bene e del suo male. Unica differenza fra questi due rami della nostra Scienza sacra, come abbiamo stabilito di chiamarla (vedi nota 6 al I libro, in parentesi), è che nella cura dell’anima focalizziamo l’attenzione sulla mancanza del bene nella singola anima, e cerchiamo di osservare la sua forma spirituale, i suoi attaccamenti, e cioè come soddisfi la sua tendenza a ingigantirsi indebitamente; nell’etica rivolgiamo l’attenzione al male che compie nei confronti degli altri, alle sofferenze e ai danni che provoca nelle altre anime commettendo azioni ingiuste, e dunque chiamiamo la sua malattia “colpevolezza” e “colpe” i suoi sintomi. E dunque chiamiamo “vizio”, cioè tendenza alla colpa, ciò che prima avevamo chiamato “tendenza irrazionale”.

2.4.Eccoci dunque alla definizione di vizio e di virtù. Vizio è una tendenza irrazionale dell’anima, cioè la disposizione a desiderare un falso bene oppure a provare un sentimento irrazionale, prodotto da una concezione errata sul bene; la volontà, che è la facoltà di scelta ed è sempre tesa verso l’ottenimento di un bene anche quando nell’intelletto la retta idea di bene è oscurata da concezioni false, è viziata, appunto, quando pur volendo il bene non sa realizzarlo, perché, ingannata dai falsi beni, sceglie quello che crede un bene ma non lo è(3). Virtù è invece la disposizione retta, razionale, che nasce nell’anima dalla visione retta del bene, e cioè dell’essere; quando l’anima ha in sé solo tendenze a desiderare il bene vero e a provare sentimenti amorosi e la sua volontà è sempre diretta verso ciò che realmente è il bene, si dice virtuosa. Distingueremo più oltre le varie specificazioni di vizio e di virtù; per ora sia chiaro che è virtuosa solo l’anima che abbia ripristinato in sé la retta visione dell’essere e sapendo che essere è bene, e che essere è il pensiero infinito che rappresenta sé stesso rettamente nelle molteplici sue coscienze, desidera solo la verità e ama tutte le altre anime, come sé stessa, cioè vuole che esse tutte abbiano la verità, il bene. L’anima realmente virtuosa si adopera unicamente per questo scopo; e perciò la virtù non è, come pensano i Cattolici, la dedizione a quelle norme che servono a far sopravvivere e prosperare la società terrena, che sono ciò che essi considerano “dovere” (cfr. La cura dell’anima, §5.6 e nota 11 al libro VI), e in particolare non è virtù per la donna la verginità fino al matrimonio e la fedeltà al marito, né dedicarsi alla prole trascurando tutto il resto, compreso ciò che rende realmente virtuosi, cioè la ricerca della verità; né è virtù per l’uomo dedicarsi al benessere della propria famigliola omettendo di amare chi è fuori dalla ristretta cerchia della propria parentela biologica; né per i figli è virtù obbedire ai genitori terreni, se questi impongono i valori falsi di una morale irrazionale fondata sull’errore di identificare il nostro essere con il corpo aggregato, omettendo di onorare e amare ciò che realmente ci fa nascere: la verità, la conoscenza dell’essere e del bene. No, la virtù non è l’obbedienza a un Dio creatore, che non esiste, come già abbondantemente abbiamo dimostrato(4), la Natura non è Dio, e i suoi interessi non sono la volontà divina; la confusione tra la volontà divina e gli scopi della specie terrena è un errore disastroso, che porta gli uomini verso il male e li allontana dal bene e non è virtù dunque l’adesione a una morale che si fonda su questo errore(5). Comparando capillarmente la forma spirituale di chi possiede la vera scienza con quella di chi viene ingannato dalla religione irrazionale, troveremo  nella prima la somma delle virtù e la seconda colma di vizi.

2.5.Vizio, dunque, è una tendenza alla colpa, cioè a commettere azioni ingiuste, che è come dire a realizzare i desideri irrazionali ai quali l’anima tende: chi desidera un falso bene, credendo di procurarsi un bene, fa invece danno a sé stesso o agli  altri. Iniziamo dalla prima specie del vizio, che già vedemmo ne La cura dell’anima: la superbia. Ivi (§§3.3-3.7) ne osservammo la genesi nel bisogno di ingigantirsi che ha l’anima la quale si senta svalutata; superbia è appunto una tendenza a ingigantire sé stessi, il proprio valore, la propria importanza rispetto a quella degli altri; è l’incapacità di condividere il bene, di reputare bene l’uguaglianza con gli altri. E’ insomma la negazione della bontà e della giustizia: l’anima giusta dà a ciascuno ciò che gli spetta, mentre il superbo vuol deprivare gli altri del loro valore e riservarsi tutto il valore per sé; l’anima sana desidera il bene, che è la somma di tutte le coscienze dell’essere, e dunque ama tutte le altre anime, il che è come dire che ella ha la bontà, che è buona, che vuole il bene di tutti, mentre il superbo non sa condividere nulla con gli altri, né i veri né i falsi beni, e dunque è ostile e scostante verso il prossimo. Nello studio sulla salute e sulla malattia (cfr. ivi, §3.6)  vedemmo la superbia, appunto, come un sintomo della malattia dell’anima, che è la perdita dell’amor di sé; qui vediamo la superbia come colpa, perché se ingiustizia è privare qualcuno, sé stessi o il prossimo, di ciò che gli spetta, il superbo, da ciò che abbiamo detto testé, risulta anche ingiusto. E’ importante avere ben chiara in mente la definizione di superbia, perché capita spesso che vengano accusate di superbia quelle persone che non sono superbe affatto. Invidiosamente, infatti, gli inetti chiamano egoisti o narcisisti (che nel loro linguaggio è equivalente a superbi) coloro che si impegnano a cercare la verità, l’eccellenza, il bene, e i Cattolici accusano d’orgoglio le persone che cercano una via logico-razionale al bene usando il termine “orgoglio”(6) come equivalente di “tendenza a ingigantirsi”. Non è raro in tali ambienti questo tipo di solecismo(7), un uso improprio del linguaggio che diventa calunnia, perché essi, avendo i concetti  tutti offuscati e confusi dalla loro irrazionalità non sanno usare rettamente le parole: già dicemmo (cfr. Il fondamento della ricerca, §5.6) che questo è il mondo alla rovescia, dove le cose non vengono mai chiamate con il loro nome, dove si chiama bene il male e male il bene, salute la malattia e malattia la salute, e superbia l’amore e amore la possessività feroce del superbo. Il rigore terminologico è invece indispensabile per chi voglia vedere rettamente la realtà e non mentire, e dunque è impellente rettificare i concetti, liberare l’anima dagli errori concettuali che eclissano le rette idee dietro al fumo e alla nebbia di rappresentazioni confuse e contraddittorie perché tratte a posteriori dall’esperienza (quando le vere idee vanno dedotte dagli assiomi) e deformate dalla viziosa tendenza alla falsificazione, e cioè dalla disonestà concettuale di chi è violento verso la realtà.

2.6.Dopo la giustizia, possiamo passare alla classificazione delle altre virtù. La tradizione platonica ne offre tre: temperanza, coraggio e intelligenza, e ci insegna che quando le facoltà dell’anima, e cioè le sue virtù, sono tutte allineate verso il bene, perché l’intelligenza ha in sé la retta idea di essere e dunque di bene, si ha nell’anima lo stato di giustizia. Ed è quello che abbiamo tentato di dire anche noi, asserendo che l’ontologia, cioè la retta visione dell’essere, è il farmaco che rende giuste e buone, e dunque sane, le anime. L’intelligenza, dunque, cioè la tendenza verso la verità, che è il bene, è una virtù, ed è quella fondamentale, senza la quale le altre facoltà dell’anima non sarebbero virtù, perché è l’intelligenza del bene che ci consente di finalizzare al bene vero tutte le nostre capacità, che altrimenti, indirizzate verso beni illusori, risulterebbero vizi. Il coraggio è la capacità di resistere al male, e la temperanza è la capacità di resistere ai desideri che distrarrebbero verso di sé quelle energie e quelle risorse che vanno invece convogliate verso la realizzazione del bene. Soffermiamoci un poco su questi argomenti: innanzi tutto, il Lettore avrà notato che nel presente paragrafo abbiamo chiamato le virtù, cioè le tendenze razionali dell’anima, anche col nome di “facoltà” o “capacità”. In effetti, quando l’anima si procura il retto desiderio, cioè desidera la verità, che è il bene, può procurarsi anche la capacità di realizzarlo; e quando desidera il bene per tutte le altre anime, cioè ha la tendenza alla giustizia, può trovare i mezzi per realizzare questo desiderio, e così via: diciamo quindi che l’anima ha la virtù ed è virtuosa quando non ha solo la tendenza verso un bene, ma quando non rimanga inattiva e si dia la pena di trovare i mezzi opportuni per arrivare al suo fine. Infatti, quando l’anima si muove verso la realizzazione di un bene lo chiama “fine” e si procura i mezzi opportuni per arrivare al suo fine quando mette in atto le cause di cui il fine sarà l’effetto. Questo è un punto importante, perché ci consente di completare la nostra definizione di virtù: possiamo infatti chiamare virtù in potenza la disposizione razionale dell’anima, ma perché la virtù sia efficace e diventi virtù in atto, ci vuole qualcosa di più: la capacità di realizzare ciascun desiderio retto che la tendenza razionale dell’anima genera nelle singole situazioni contingenti, cioè compiere azioni virtuose. Dunque la virtù è la tendenza verso un desiderio razionale unita alla capacità di realizzarlo. Perciò per essere giusti, o meglio, perché la giustizia in noi diventi da semplice disposizione una vera e propria virtù, non basta desiderare il bene per tutte le anime, bisogna anche procurarsi i mezzi opportuni per realizzarlo, per quanto si può, e compiere azioni giuste; e per essere temperanti non basta una generica tendenza alla sobrietà, o alla nostalgia di una vita semplice, bisogna proprio procurarsi una strategia per poter finalizzare tutte le proprie energie alla ricerca del bene, rinunciando agli sprechi, a ciò che magari è gradevole, ma sarebbe dispersivo, ed attuarla costantemente; e per essere coraggiosi, non basta il desiderio di contrastare il male, ma bisogna farlo realmente, bisogna combattere in modo efficace e non lasciarsi scoraggiare dalle privazioni e dalle sofferenze che tale lotta comporta. Così le tendenze si trasformano in facoltà o capacità dell’anima, e cioè da virtù potenziale in virtù attuale, nelle singole azioni, nelle singole scelte. Se torniamo all’immagine della pianta del §2.2 dove il seme è l’idea retta, il fusto la disposizione razionale e i frutti sono i singoli avvenimenti dell’anima, quali desideri, sentimenti e azioni che accadono a un certo momento del tempo nelle determinate situazioni, possiamo dire che la virtù è quella forza che produce frutti, che li porta a maturazione, è la capacità di tradurre nei singoli fatti la disposizione razionale. Possiamo così riallacciarci a quella tradizione antica che parte da Socrate e si perfeziona in Platone, la quale ci insegna che la virtù è una techne, cioè una scienza applicata. Infatti la tendenza razionale dipende dalla scienza, cioè dalla retta idea di essere e di bene, mentre la virtù è l’esercizio pratico, cioè l’applicazione della tendenza, e le azioni virtuose sono i suoi prodotti.

2.7.Dunque la tradizione socratico-platonica ha ragione quando ci insegna che tutte le virtù sono specificazioni dell’intelligenza e che l’anima è giusta quando tutte le sue facoltà sono dirette dall’intelligenza. Vorrei aggiungere un’osservazione. Abbiamo definito la bontà come tendenza al bene vero, e abbiamo definito il bene come essere e cioè come coscienza che conosce rettamente sé stessa, come pensiero e verità; dunque il bene è la verità e, d’altronde, abbiamo definito l’intelligenza come tendenza alla verità unita alla capacità di procurarsela. Ma dunque scopriamo che bontà e intelligenza hanno la stessa definizione: bontà è la tendenza al bene, che è verità; intelligenza è la tendenza alla verità, che è il bene. Nel nostro sistema, cioè in una filosofia condotta con metodo logico-razionale, bontà e intelligenza sono la stessa cosa. Soltanto la falsa ragione e la falsa bontà possono essere in conflitto, nel mondo alla rovescia, dove le cose non vengono chiamate con il loro nome e si chiama bontà la tendenza a umiliarsi davanti a un presunto onnipotente, che invece è un atto di ripugnante piaggeria, e ad accollarsi come dovere una serie di norme falsamente morali, che non sono il bene, e non sono dunque volontà divina, perché la volontà divina o coincide col bene o non è tale, ma sono gli interessi di una Natura ingannevole, che porta l’uomo lontano dal suo vero essere e dal suo bene, e perciò non lo rendono buono, ma malvagio, perché il vero uomo è coscienza, è pensiero, o spirito, che dir si voglia, mentre la specie terrena lo costringe a identificarsi con un corpo aggregato che ne deturpa l’anima con i suoi istinti fino a imprimerle una forma animalesca destinata poi inesorabilmente a cadere nella bestialità; e dove si chiama ragione lo sragionamento assurdo che pone l’essere al di fuori dell’essere, cioè del pensiero (perché solo ciò che pensa è)(8). Invece nel vero mondo, nel nostro mondo, dove si chiama ragione l’anima capace di riflettere rettamente le idee e così di conoscere rettamente l’essere, e che dunque ha intelligenza, si chiama questa sua virtù anche bontà, perché se intelligenza è la tendenza alla verità, unita alla capacità di procurarsela, e la verità è il bene, la tendenza alla verità è anche tendenza al bene, cioè bontà. I singoli atti dell’intelligenza, cioè gli enunciati veri, ben dimostrati, sono dunque azioni buone, che realizzano il desiderio di bene, e i mezzi con cui la bontà si soddisfa procurandosi l’intelligenza dell’essere sono l’applicazione del metodo corretto, quello deduttivo, i suoi assiomi e  i suoi postulati, e il linguaggio, cioè una terminologia chiara e ben definita e una sintassi precisa. Ma delle azioni realmente virtuose, come delle azioni colpevoli si dirà più oltre.

2.8.Gli altri vizi, oltre alla superbia, il Lettore lo vede facilmente da sé, sono la tendenza a falsificare la verità, e cioè la stoltezza, che è falsa scienza o superstizione religiosa, e includiamo nella falsa scienza tutte quelle sedicenti filosofie che parlano un linguaggio oscuro e privo di rigore logico, spacciando l’oscurità per profondità (se ne trovano numerosi esempi nella cultura novecentesca e contemporanea); l’intemperanza, che può essere tendenza allo spreco o avidità, o tutt’e due insieme; e la debolezza d’animo, cioè la tendenza a cedere rinunciando al vero bene per paura delle conseguenze dolorose che colpiscono chi si oppone alle morali errate della consuetudine. La negazione della giustizia, che abbiamo riscontrato nel superbo, può dirsi più generalmente ingiustizia, che abbiamo già definito sopra come tendenza a deprivare il prossimo dell’essere e del valore, e ha in effetti la sua radice nella false idee di bene che rendono l’uomo prima egoista (nella sua forma animalesca dove il bene coincide con l’utile del corpo terreno) e poi superbo (nella forma bestiale, dove sembra bene all’anima ingigantire la propria importanza negando quella altrui). E però, in altra sede, dovremo addentrarci più capillarmente nella casistica dei vizi, esaminando le specificazioni dei generi testé elencati e chiederci anche se la tradizione non sia incompleta quando elenca quattro virtù soltanto e dunque quattro vizi, che ne sono la negazione o il pervertimento. Nel presente scritto ci siamo proposti, infatti di enunciare solo il fondamento dell’etica, non di esaurire tutto l’argomento.


NOTE AL LIBRO II.

 

Nota 1: è per questo che Cristo disse: “Non c’è infatti albero buono che faccia frutto guasto, e neppure albero guasto che faccia frutto buono. Perché ogni albero si conosce dal proprio frutto: sulle spine infatti non si raccolgono fichi, né sui rovi si vendemmia uva (Lc.6,43-44; cfr. anche Mt.7,16-20)”. E’importante tenere ben presente quanto già detto ne La cura dell’anima, §1.11 e cioè che il momento in cui realmente si esercita la facoltà di scelta non è quello dell’azione, quando le cause sono già state seminate e si sta solo verificando l’effetto, ma quello in cui si introduce una concezione (il seme, appunto) nella propria anima. Non possiamo decidere che frutto darà una pianta al momento di raccoglierlo, possiamo scegliere che frutto produrre quando mettiamo in terra il seme, scegliendo opportunamente che specie piantare; non posso pretendere di raccogliere una prugna dolce e dorata, se ho piantato, in precedenza, un rovo selvatico e spinoso.

 

Nota 2: cfr. supra, nota 1 all’Introduzione.

 

Nota 3: è la tesi di Socrate, chiamata (a volte con sfumatura spregiativa, ma a torto, come già dimostrammo ne La cura dell’anima,  nota 11 al libro VI) dagli storici della filosofia “intellettualismo”. E’ la tesi centrale della nostra scienza etica, così come lo fu per la tradizione socratico-platonica, prima che con l’avvento del Cristianesimo storico calassero le tenebre del medioevo e ogni scienza venisse eclissata; in particolare, al posto della nostra visione scientifica dell’anima e del suo male si imposero le concezioni irrazionali sulla caduta, la tentazione, il diavolo e il peccato. Ora vogliamo tornare sul sentiero giusto della visione logico-razionale, è davvero l’ora di impegnarsi in questo senso, perché questa insipienza e questa incompetenza sull’anima da parte di chi -ricordiamolo- promette falsamente di redimerla e ha monopolizzato per secoli il settore educativo, impedendo con la sua intolleranza lo sviluppo della vera scienza dello spirito, ha prodotto troppi guasti: l’anima dell’uomo europeo è colma di vizi devastanti e gli effetti si vedono, nella storia del XX secolo, al loro culmine, visto che esso è stato il periodo più sanguinoso della nostra esperienza e, sul piano spirituale, è quello che ha prodotto le ideologie più assurde e le filosofie più oscure. Segno dei tempi.

 

Nota 4: spero che il Lettore che stia seguendo l’itinerario da me proposto si sia ormai convinto di quanto dimostrato ne Il fondamento della ricerca, §§2.4-2.7 e 2.9-2.10; e anche ivi, §§3.18-3.19 e cioè che la creazione dal nulla è logicamente impossibile e anche che la Natura, aggregando atomi e legandoci a un falso corpo composto da altri esseri, che è una simulazione, non è un Dio onnipotente che ci dona la vita, ma un ingannatore (ma è una pluralità di intelligenze) che ce la toglie. Si veda su questo ivi, §§4.3-4.4 e segg.

 

Nota 5: le morali delle società terrene sono tutte irrazionali e tutte “relative”, come si dice comunemente (ma meglio sarebbe definirle errate e maligne), perché cambiano a seconda delle esperienze storiche; ed è una delle tante morali terrene, finalizzate cioè alla sopravvivenza del corpo aggregato e alla riproduzione della specie, nonché a conservare un dato assetto sociale, anche quella della Chiesa, che dunque è una morale relativa come tutte le altre (e, oltre tutto, particolarmente retriva), nonostante venga spacciata per morale assoluta, come se fosse rivelazione divina, dai Cattolici che la vogliono imporre di prepotenza. Tanto è vero che non esiste una sola morale cristiana, ma nel corso della storia ce ne sono state molte, a seconda delle epoche: chi abbia sufficiente dimestichezza con il dato storico saprà bene che dopo Costantino il sistema di valori e la morale romana, appena leggermente (e ipocritamente) infarinati di Cristianesimo, si sono sostituiti al vero messaggio di Cristo; diversa era la morale imposta dalla Chiesa feudale all’epoca di Gregorio VII, e diversa da quest’ultima fu quella connessa alla monarchia per diritto divino nell’età moderna, e di nuovo differente da entrambe è quella della Chiesa post-conciliare, data dal connubio con la borghesia capitalista. I sistemi di valori e la precettistica morale della Chiesa sono stati più d’uno perché essa sa adattarsi ai tempi, al senso comune dominante: il “Leviatano”, a ogni svolta storica, “guizza (cfr. Is.27,1)”, in modo da raccogliere il massimo consenso possibile e, soprattutto, da avere il favore del regime politico e del potere economico dominanti. La vera morale “assoluta”, cioè eterna, che sarebbe meglio chiamare “scienza del bene” o “etica razionale”, è quella tratta razionalmente, appunto, con metodo logico, dagli assiomi fondamentali dell’ontologia, cioè è quella di Socrate, Platone, Cristo (quello vero) e degli altri filosofi della medesima tradizione che fa capo alla scuola di Elea (o Elìa, come si pronunciava allora), che è ciò che stiamo cercando di recuperare negli scritti contenuti nel presente sito.

 

Nota 6: la parola “orgoglio” è di derivazione germanica e dunque deve essere entrata nel lessico italiano in epoca franco-carolingia; ha assunto un significato quasi completamente negativo, come sinonimo di superbia, baldanza eccessiva, arroganza, mentre viene usata raramente come sinonimo di retta fierezza, coscienza dei propri meriti, legittima stima di sé. Non so che cosa intendessero i Franchi col loro termine orgoli, ma una cosa è sicura: se per orgoglio intendiamo il sentimento di soddisfazione che prova chi si sia procurato il bene vero, esso è retto amor di sé e non è certo un vizio; se invece uno si sente orgoglioso per motivi irrazionali, è un vizio. Non è illegittimo, comunque, accreditarsi meriti che si hanno realmente, e solo gli invidiosi stigmatizzano come orgoglio la soddisfazione di chi abbia realizzato qualcosa di buono o di bello, o anche di utile.

 

Nota 7: nel linguaggio comune si intende, di solito, il termine “solecismo” come sinonimo di “sgrammaticatura” o “improprietà di linguaggio”. A noi, in logica, importa quel particolare tipo di solecismo che consiste nel chiamare una cosa con il nome di un'altra che, se fatto volontariamente, non è solo un uso improprio del linguaggio, ma è una truffa, un tipo di menzogna. Il linguaggio dei Cattolici odierni è intriso di simili oscurità; l’ultimo caso è stato quello di chiamare “terrorismo”la legittima istanza di Andrea Rivera: egli chiedeva perché a Pinochet e a Franco (noti tiranni sanguinari) siano stati celebrati funerali cattolici, mentre al povero signor Welby, che alla fine dell’anno scorso, chiedeva solo di poter essere liberato da sofferenze insopportabili, lo si ricorderà, sono stati crudelmente negati. Domanda sacrosanta. Invece di rispondere il monsignore di turno ha chiamato terrorista Rivera, e ha sostenuto che quelli come lui non accettano il dialogo. Altro solecismo: ma se uno fa una domanda, e l’altro, invece di rispondere, si mette a urlare accuse senza senso, chi dei due è incapace di dialogo? E’ in voga ora fra codesti Cattolici dire ai laici (o laicisti, come dicono loro) che sono intolleranti, perché non permettono ai vescovi di esprimersi. E’ uno dei tanti solecismi (nel senso testé definito): chiamano “intolleranza” la legittima critica, il diritto di replica, ma è cosa ben diversa impedire la libera espressione del clero (cosa che nessuno sta facendo) dal dissentire con quello che il clero dice e criticarlo (cosa perfettamente legittima) e chiedere ai politici di non improntare le leggi dello stato sui dogmi cattolici. Chiedono tolleranza, intendendo dire che pretendono sottomissione cieca e muta, e se uno dissente e ragiona è “intollerante”. E questi sono solo i casi più vistosi. Abbiamo già più di una volta asserito, nel corso delle nostre riflessioni, che questo è il mondo alla rovescia, dove le cose non vengono chiamate col loro nome ed è per questo che invitiamo le persone che vogliano uscirne alla chiarificazione logica dei concetti e dunque alla definizione rigorosa delle parole: la cultura umana è una catena ininterrotta di errori concettuali e solecismi, per lo più involontari, ma in certi casi, quando chi li usa è incline alla frode e alla prepotenza, come abbiamo visto, intenzionali.

 

Nota 8: il Lettore ormai ricorderà quanto da noi dimostrato nel libro I de Il fondamento della ricerca sull’impossibilità di un essere oggettivo, fatto di materia eterogenea al pensiero, ed esteso in uno spazio extramentale e dell’applicazione del principio di ragion sufficiente mediante cui abbiamo dimostrato tale impossibilità. Cogliamo l’occasione per rammentare che chi non abbia espulso dalla propria mente questo, che Platone (Timeo 52b) chiama “ragionamento bastardo” e non abbia compiuto il periagein (Repubblica 515c), cioè la conversione del suo occhio spirituale, l’intelletto, verso la retta idea di essere (che è pensiero e coscienza e non qualcosa di esterno) non riuscirà a seguire le nostre dimostrazioni che sono tutte condotte per deduzione a partire da questo assioma, che essere è pensiero e che bene è essere.


LIBRO III.

 

 

 

 

 

GLI STRUMENTI PER IL GIUDIZIO.


LIBRO III.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Ricapitolazione terminologica : bene, verità, bontà, intelligenza; fine e mezzi, virtù; il bene e i beni(3.1). Terminologia (segue): male, ignoranza; malattia, vizi, azioni colpevoli; il male e i mali(3.1). Anche i sentimenti sono beni o mali (primo accenno)(3.1).

 

Elenco dei significati della parola “bene”(3.2).

 

Elenco dei significati della parola “male”(3.3).

 

Occorre distinguere tra male e sofferenza (o dolore): la sofferenza è un bene quando è un sentimento razionale, è un male quando è un sentimento irrazionale(3.4). Polemica contro chi svaluta il dolore(3.4).

 

Provare dolore irrazionale è una colpa; non sempre provocare sofferenza è una colpa: se è un dolore irrazionale è fondato su un giudizio errato e dunque non è una colpa, cioè un’azione che abbia prodotto un vero male, quello che l’ha  provocato, ma un’azione legittima scambiata erroneamente per colpa(3.5).

 

Importanza del saper giudicare rettamente la natura dei sentimenti e dei desideri: se nascono da una falsa idea di bene e sono irrazionali nessuno ci può accollare come colpa la loro mancata realizzazione, provengono da pretese illegittime; sono pretese illegittime anche quelle del cosiddetto dovere(3.6), e non dobbiamo sentirci in colpa per i sentimenti negativi che provochiamo, se sono irrazionali e dunque non è realmente un male quello che abbiamo fatto per provocarli(3.6). La chiarezza su questi concetti produce in noi la virtù del coraggio (o forza d’animo)(3.5 in fondo; 3.6. in fondo).

 

Occorre distinguere i sentimenti positivi dal bene: è errato chiamare bene il piacere o la contentezza. I sentimenti positivi, se irrazionali sono dei mali(3.7). La forma edonista inconcludente, debole e intemperante (primo accenno)(3.7). Chi distingue i sentimenti razionali da quelli irrazionali cerca solo ciò che realmente è il bene e dà gioia a ragion veduta, e dunque non disperde energie dietro a falsi beni: è cioè temperante(3.7).


3.1.Ricapitolando quanto detto in precedenza: chiamiamo bene l’essere, ma l’essere non è se non conosce sé stesso, dunque il bene è la verità, ciò mediante cui l’essere conosce sé stesso; chiamiamo bontà la tendenza al bene che è tendenza alla verità, e dunque diventa intelligenza quando sappia mettere in atto i mezzi per realizzarsi, cioè quando desiderando conoscere una cosa applica il retto metodo(1) per procurarsi tale conoscenza. Abbiamo introdotto nel precedente libro II un nuovo termine, quello di “fine”, dicendo (§2.6) che quando l’anima si muove effettivamente verso un bene, esercitando la propria virtù, cioè la capacità di appagare i desideri razionali verso cui ha tendenza, lo chiama “fine”. Dunque la virtù è la facoltà dell’anima razionale di trovare i mezzi per arrivare al suo fine. Aggiungiamo quindi un’altra nota terminologica: se chiamiamo bene il fine retto, che è l’acquisizione della retta sapienza (ciò che ci fa essere realmente, rinascere eterni) e anche la forma spirituale razionale, che ne è l’effetto, cioè la salute dell’anima, chiamiamo “beni” i mezzi che ci consentono di arrivare al fine e consideriamo beni anche le virtù e le azioni da esse messe in atto. Ma poiché il bene è anche l’essere di tutte le altre anime, oltre alla nostra, consideriamo bene, in particolare, la giustizia, fra le altre virtù, che è la realizzazione del bene intersoggettivo, completo; e sono beni i mezzi che ci aiutano a realizzarlo, ma i mezzi opportuni, quelli realmente efficaci perché tutte le anime condividano il bene, cioè arrivino a conoscere la verità e si liberino dal male, l’ignoranza, e guariscano dalla malattia spirituale che è la forma spirituale errata prodotta dalla stoltezza. Distinguiamo l’ignoranza che è carenza di verità, dalla stoltezza che è illusione di sapere, possesso di saperi falsi. Infatti abbiamo chiamato male la mancanza di essere, che è ignoranza, visto che è essere solo il pensiero che rappresenta rettamente sé stesso, e malattia ciò che è generato nell’anima dalla stoltezza, il falso sapere sull’essere e sul bene, che è la forma spirituale errata, irrazionale, un groviglio di tendenze verso ai falsi beni, e dunque di vizi, e incline all’ingiustizia. Se abbiamo chiamato virtù la capacità di tradurre in azioni rette le disposizioni razionali, abbiamo chiamato vizio la tendenza alla colpa, cioè le tendenze irrazionali che si traducono poi in azioni colpevoli, quando le capacità dell’anima, che allora diventano mali anch’esse, sono impiegate per soddisfare desideri di beni falsi, quelle soddisfazioni illusorie che ostacolano il bene; tali azioni hanno l’effetto di deprivare sé stessi o il prossimo del bene e provocano perciò sofferenza. Chiamiamo male, dunque, non solo la privazione dell’essere, della verità, della retta conoscenza di sé che nell’anima è causa della malattia, ma chiamiamo male anche la malattia che ne deriva, e cioè la forma spirituale irrazionale, animalesca o bestiale che sia(2), con tutti i suoi vizi, che sono mali anch’essi e chiamiamo mali i singoli desideri irrazionali che l’anima prova quando ne ha occasione, e anche le azioni colpevoli mediante cui li soddisfa, nonché i mezzi, cioè le capacità sviate dal retto fine che le consentono di realizzarle.

3.2.Insomma, la parola “bene” ha più di un significato: e sarà bene (non lo diciamo a caso) elencare ordinatamente tutti i significati della parola bene:

 

in primo luogo è bene l’essere, ed è bene la verità senza di cui l’essere non è; e sono il bene tutte le coscienze dell’essere, cioè è bene la somma di tutti gli atti di coscienza, le anime, senza di cui l’essere non conoscerebbe sé stesso e non sarebbe; ed è bene la forma spirituale retta o salute dell’anima, mediante cui ogni anima rappresenta rettamente l’essere.

 

In secondo luogo sono beni gli effetti del bene: le tendenze razionali e le virtù, e i mezzi che ha la virtù per realizzarsi, e sono beni anche le singole azioni virtuose e i singoli desideri razionali che, sorti in una certa occasione (il termine filosofico è “contingenti(3)”), le hanno motivate.

 

Aggiungiamo che sono beni anche speranze e timori, cioè desideri rivolti al futuro, a possibilità che non sappiamo con certezza se si realizzeranno o no indipendentemente da noi, oppure se siano o no realizzabili con i nostri sforzi, purché tali desideri siano razionali, altrimenti sono mali (per esempio: la paura della morte è un male, perché poggia su una falsa idea di essere; mentre la speranza di potersi liberare dalla dipendenza dall’aggregato corporeo è un bene, è un desiderio razionale).

 

Anche i sentimenti sono beni, quando sono razionali(4): gioia o contentezza o felicità, cioè la percezione di un bene realizzato, è un bene anch’essa. Ma è un bene anche un sentimento doloroso, che sia la percezione dell’avverarsi di un male, se il male che provoca in noi tale sofferenza è rettamente giudicato tale. Infatti anche questo è un sentimento razionale.

 

3.3.Sarà bene (e non diciamo a caso neanche questo: intendiamo polemizzare con chi proibisce all’uomo di procurarsi la scienza del bene e del male, fondandosi sulla storia della famosa mela) elencare anche tutti i significati della parola “male”:

 

in primo luogo male è l’ignoranza, per via della quale l’uomo perde l’essere, perché per essere in senso pieno occorre avere coscienza e conoscenza di sé; ed è male la menzogna sull’essere, la falsa sapienza e cioè stoltezza. E’ male la forma spirituale irrazionale dell’uomo che ignora sé stesso, il proprio vero essere, e ha false idee su sé stesso e sull’essere, che si chiama anche malattia dell’anima, per la quale l’uomo non è più la retta rappresentazione dell’essere, ma immagine offuscata e distorta, oscura e deforme.

 

In secondo luogo sono mali gli effetti del male: tendenze irrazionali e cioè vizi, e sono mali anche i singoli desideri contingenti di beni illusori, e i mezzi mediante cui si soddisfano, e le azioni colpevoli che ne vengono motivate.

 

Anche paure e speranze sono mali, quando sono irrazionali, e cioè non è un vero bene quello che si spera o un vero male quello che si teme: per esempio, la speranza di arricchire, il timore di non poter avere figli etc.

 

Infine, i sentimenti irrazionali sono mali: addolorarsi per un bene, credendolo un male o gioire malignamente per il male altrui, credendo di trarne un vantaggio e che dunque sia un bene è, in entrambi casi, un male, e così via.

 

3.4.Il Lettore si sarà forse stupito perché ho detto testé (§3.2, in fondo) che il dolore, se è un sentimento razionale, è un bene. Nel linguaggio comune, infatti, il dolore è la stessa cosa che “male”. Si chiama male, comunemente, il dolore fisico: “mi fa male una spalla”, per esempio, oppure: “ho mal di testa”. Come si è visto, invece, nel nostro elenco di significati della parola “male” non compare il dolore fisico, come non compare nella lista dei beni il piacere fisico, perché per decidere su questa questione dovremo disquisire a lungo altrove. Qui stiamo usando i termini in senso spirituale e, per la precisione, dobbiamo dire che la sofferenza spirituale, ovvero il dolore dell’anima, non è sempre un male, cioè è un male provocarlo, ma chi lo prova, cioè lo subisce, perché percepisce la presenza di un male, fa un bene, perché dà alle cose il giusto valore, giudicando un male quello che è realmente tale. E’ male infatti solo il male inflitto, non quello subito, va da sé, visto che chiamiamo male la colpa, e dunque è sbagliato chiamare “male” anche la sofferenza come si fa nel linguaggio comune. Ed è una cosa da correggere, perché gli errori concettuali sono fonte di confusione e oscurità, e deve essere chiaro che è male l’azione ingiusta che infligge sofferenza, ma non è un male la sofferenza che si prova: se chi prova sofferenza lo fa perché percepisce un male e lo disapprova, tale sofferenza è un sentimento razionale e dunque un bene. Ovviamente stiamo parlando in senso spirituale, non fisico. Il dolore è un male solo quando è un sentimento irrazionale, cioè è una sensazione negativa prodotta da quello che si crede un male ma non lo è: per esempio, un genitore si addolora perché suo figlio non ha voluto sposarsi e fare carriera, e dedicare tutta la vita all’arricchimento materiale etc. Dolore e sofferenza irrazionali sono dei mali, ma il dolore del giusto, la sofferenza di chi vede razionalmente il male e non rimane insensibile di fronte ad esso, è un bene, e, anzi, un bene sacrosanto. Dunque non chiamiamo male il dolore, ma la colpa, l’azione ingiusta che lo provoca e ricordiamo che, come tutti i sentimenti, esso può essere razionale o irrazionale, e che nel primo caso è un bene, nel secondo un male. E perciò non confondiamo il dolore, la sofferenza, con il male, sono due cose ben diverse e dobbiamo ricordare che il linguaggio comune a volte ci confonde e va purificato. Dove il linguaggio comune dice: “mi hai fatto del male”, bisognerà intendere di volta in volta o “hai commesso una colpa verso di me” senza che però si sia introdotto alcun male nella mia anima, oppure “hai prodotto in me dolore fisico”, e anche questo non ha prodotto in me, nel vero me stesso, nessun male. Una persona può farci del male solo se riesce a modificare le nostre idee introducendo il falso nella nostra anima, ma questo, se siamo forti e competenti, non glielo lasceremo fare; se riesce, la sua sarà una colpa grave, ma noi saremo corresponsabili perché ci siamo lasciati convincere e avremo fatto da noi stessi il nostro male, ma questo è un altro discorso, perché in questo caso la colpa commessa verso di noi non produce in noi sofferenza, ma illusione. Ripeto: la colpa è un male, ma provare dolore per aver percepito una colpa è un bene, perché è un sentimento razionale. Insisto su questo perché a volte le persone pensano che soffrire sia una debolezza, un segno di umanità e dunque di inferiorità, e che è più forte chi non soffre. Ma non è così: i sentimenti sono la percezione del valore delle cose, e cioè proverò sentimenti positivi (gioia, contentezza), se in una cosa che si verifica vedo un bene, mentre, se penso di essere alla presenza di un male, provo sentimenti negativi (dolore, sofferenza); ora, se il mio giudizio (=enunciato che riguarda il valore) sulle cose è razionale, cioè se la cosa che mi fa gioire è realmente un bene e se la cosa che mi fa soffrire è realmente un male, significa che quando la mia anima prova tali sentimenti dice qualcosa di vero, cioè esprime giudizi retti, sta percependo rettamente il valore delle cose (perché è retto dare valore(5) ai beni e, invece, disapprovare, cioè svalutare, i mali). E percepire è una capacità, e dunque è forza, non debolezza, visto che l’incapacità di percepire la realtà è debolezza: o forse è più forte un cieco di uno che ci vede? è più forte un sordo di uno che ci sente? No, e chi è sensibile al valore delle cose è più forte, laddove chi è ottuso, e che dunque ha meno comprensione della realtà, è più debole. Soffrire dunque è una capacità e un bene ed è segno di forza se la sofferenza è basata su un giudizio retto, sulla valutazione razionale di una cosa: se soffro di un male che è realmente tale, perché ricade sotto la definizione di male (quella che stiamo affaticandoci a esporre nel presente libro), la mia sofferenza è un sentimento razionale, ed è la percezione retta di un valore, ed è dunque un bene e un segno di forza, non un male, né una debolezza.  E’ importante, ripeto, chiarificare il concetto di dolore, perché quando sappiamo che soffrire per un male è un bene, questo ci dà la forza di sopportare il dolore e di non rifiutarlo, come fanno, per esempio, quelli che, avendo in mente dei guazzabugli esoterici, pensano che bisogni sorridere di fronte a tutto, perché tutto quello che capita è bene che sia così, e che se una cosa ci sembra male sicuramente ci sbagliamo, perché se è accaduta l’ha voluta Dio, e se l’ha voluta Dio, anche se noi non capiamo la sua volontà imperscrutabile (e dàlli, con questa volontà imperscrutabile!),  è un bene… Questi non fanno altro che legittimare, fondandosi su un mucchio di idiozie, la loro ottusità, la loro oscena insensibilità verso il male e l’ingiustizia, e assecondare la loro pigrizia mentale con il falso principio che “tutto quello che è, è bene”. Lasciamo costoro a passare la vita guardandosi l’ombellico e a recitare l’om, credendosi santi o illuminati; della loro negligenza chiederemo conto. Noi guardiamo con occhi aperti il male: qui nel mondo terreno la verità, il bene, è eclissato dalla falsa idea di essere che proviene all’anima dalla sua identificazione con l’aggregato che si spaccia per suo corpo ma non lo è(6); qui impera indisturbata l’ignoranza, la radice del male, e le anime sono tutte ammalate: dovunque volgi lo sguardo incontri forme animalesche o bestiali, e ovunque vedi, liberi di esplicarsi atrocemente, i mali. La storia umana altro non è che il lungo esplicarsi delle forme spirituali errate, infette e ripugnanti, e degli effetti di esse, un lungo drappo nero intriso di sangue. Guardiamo con occhi aperti a tutto questo: è il male, e guardando soffriamo. Il dolore è il sentimento razionale dei giusti(7).

3.5.Sicchè, male e dolore sono due cose distinte, e non tutti i dolori sono mali: la sofferenza razionale è un bene, mentre, come tutti i sentimenti irrazionali, il dolore irrazionale è un male, e intendiamo dire una colpa. Se uno piange per quello che crede un male ma non lo è, sbaglia e cioè fa un male, perché recriminando a torto accusa ingiustamente chi ne ritiene responsabile. Quante volte ci siamo sentiti accusare e ne siamo stati feriti, senza che avessimo fatto nulla di realmente colpevole! Infatti non sempre provocare sofferenza in una persona è una colpa: lo è solo se la sofferenza è razionale, cioè se la persona ha ragione di ritenere un male quello che le abbiamo fatto. Ci sono persone che si addolorano perché non hai assecondato le loro pretese illegittime, ma questo non è una colpa. Se, per esempio, mia madre mi accusa di averle provocato del dispiacere perché non le ho dato retta, quando voleva che io dedicassi tutta la mia vita a fare carriera e ad arricchire, questo sentimento non ha ragion d’essere, perché ella voleva obbligarmi a disperdere tutte le mie energie e tutto il tempo della mia vita dietro a falsi beni, omettendo di procurarmi il bene vero, la verità, e di dedicarmi a capire l’uomo, l’esperienza umana e la storia, che sono i mezzi con cui potrei contribuire a sradicare il male anche in altre anime e che dunque sono beni, essendo mezzi per realizzare azioni buone. Se mia madre si affligge perché non è riuscita a privarmi del mio bene e della mia giustizia, cioè perché non è riuscita a commettere contro di me spiriticidio, la sua sofferenza è irrazionale, perché soffre per un bene e rimpiange di non avermi inflitto un male. Io avevo tutto il diritto(8) di difendermi, la sua lesione nei miei confronti sarebbe stata gravissima se gliel’avessi lasciata realizzare(9), e il fatto che la mia scelta l’abbia lasciata scontenta e piena di rancore non implica che la mia azione sia una colpa. Il suo dispiacere è irrazionale, è sbagliato, è provocato dalla sua stoltezza, non da una mia azione colpevole, e se lo prova la colpa è sua; solo se il dolore è razionale, e cioè abbiamo inflitto al nostro prossimo quello che realmente è un male, l’azione che lo provoca è colpevole. Capire questo è molto importante, perché molte persone si dibattono inceppate da sensi di colpa, mentre è un’azione colpevole solo privare qualcuno di ciò che gli spetta, non di ciò che non gli spetta, e non spetta al nostro prossimo privarci del nostro bene e del nostro valore. Ricordiamolo, e non assecondiamo chi ci invidia, ci disprezza, è geloso della nostra virtù o è prepotente nei nostri confronti, per tema di offenderlo. Così possiamo trovare il coraggio, che è (cfr. la definizione contenuta supra, §2.6) la capacità di resistere al male, se abbiamo ben chiaro che è nostro diritto difendere con tenacia il nostro bene e il nostro valore, perché ci spettano, e sfidare così l’opinione comune, non lasciandoci condizionare dal giudizio di chi è incompetente sul bene e sul male, e giudica a vuoto.

3.6.Anche capire la natura dei sentimenti e dei desideri che le persone che ci stanno intorno rivolgono verso di noi è importantissimo, dunque, perché potremmo esserne condizionati: capire se un desiderio in noi stessi è razionale o irrazionale è importante perché ci consente di non commettere errori nel compiere le scelte della nostra vita e di non compiere azioni colpevoli, ma capire se un desiderio è razionale o irrazionale quando è un’altra persona a provarlo è parimenti importante, soprattutto se questa persona pretende da noi la sua soddisfazione: dobbiamo distinguere le pretese legittime delle persone nei nostri confronti dalle loro pretese illegittime e assecondare solo le prime, mai le seconde. E’ legittimo che una persona ci chieda di rispettare il suo bene e il suo valore(10), non è legittimo che una persona pretenda di deprivarci del nostro bene e del nostro valore. Lo vedremo in dettaglio in altra sede. Se so che una pretesa è illegittima nei miei confronti posso resisterle, non dando nessun peso alle accuse che scaglia contro di me questa persona che rimane contrariata dal mio diniego e nemmeno ai giudizi della società, del senso comune che si fonda su una morale sbagliata perché, considerando vero essere il corpo fisico, scambia per bene il suo utile e chiama bene erroneamente il dovere, che è ciò che serve alla società terrena per mantenersi prospera, e fa dunque non il bene ma gli interessi della specie. Il Lettore avrà già notato che ci siamo ben guardati dall’elencare tra i significati della parola “bene” anche il dovere e fra quelli della parola “male” anche l’omissione nei confronti del dovere. Abbiamo già dato la confutazione dell’errore che identifica il bene col dovere(11), e non possiamo che ribadirla qui in quanto il dovere altro non è che una congerie di pretese illegittime che la società terrena rivolge prepotentemente verso l’individuo imponendogli i suoi fini sbagliati, cioè la riproduzione della specie e la prosperità materiale. Ripetiamo che l’utile della società terrena e gli interessi della specie terrena non sono il bene e non è volontà divina che noi ce li accolliamo come doveri, sono fini animaleschi e a noi non spetta di essere animali; e chi ce li impone avanza verso di noi pretese illegittime, che dunque non vanno assecondate. Pretendere che l’individuo sacrifichi il suo bene vero, la ricerca della verità e della salute spirituale, e della consapevolezza sull’uomo, sulla storia e sul male, per fare l’utile della specie, spacciandolo assurdamente per dovere, è un’azione spiriticida, criminale, e depriva l’uomo di ciò che gli spetta, cioè la via verso la forma spirituale rettificata, verso il recupero del vero essere, del vero amore e verso la giustizia. E’ importante, dicevamo dunque, che l’anima sappia distinguere quali pretese sono legittime e quali no, cioè se un desiderio altrui debba essere assecondato e realizzato oppure no; così come è importante capire se un sentimento rivoltoci è razionale o no, perché è così che l’anima si procura, come detto sopra, quella virtù che abbiamo chiamato coraggio, e che è la capacità di resistere al male e si potrebbe anche chiamare fortezza o forza d’animo, o tenacia: avendo ben chiara nella propria mente la nozione di bene e di male e sapendo distinguere rettamente una colpa da ciò che non lo è, ed evitando quindi di sentirsi accusare dalla scontentezza o dal dispiacere altrui, se questo è prodotto dal nostro rifiuto di assecondare una pretesa illegittima, ed è un sentimento irrazionale, la nostra anima avrà la forza di non lasciarsi condizionare dal giudizio negativo di chi ci valuta col suo falso metro, con i criteri di una morale errata e maligna, e saprà sopportare dunque il discredito e la disapprovazione di cui sarà fatta oggetto da parte degli stolti, sfidando la mentalità comune e l’opinione pubblica. Questo è coraggio.

3.7.Finiamo questo libro con un’altra precisazione importante: così come non tutti i sentimenti negativi sono mali, ma solo quelli irrazionali, nemmeno tutti i sentimenti positivi sono beni, ma solo quelli razionali. Già lo dicemmo (cfr. supra, §3.3, in fondo), ma forse occorre soffermare un poco la nostra attenzione su questo argomento. Se pensassimo che gioia, contentezza o piacere siano sempre beni, saremmo spinti a cercare queste sensazioni comunque, senza giudicare se la causa che li provoca è buona o cattiva, giusta o ingiusta, e legittimeremmo così azioni ingiuste, se danno un risultato che provochi in noi un piacere irrazionale. Così fanno quegli edonisti, la cui anima è formata da un sistema di idee materialista, che confondono il bene col piacere e non distinguono le sensazioni gradevoli che l’anima riceve passivamente dal corpo (il piacere(12), appunto) dai sentimenti di gaiezza che l’anima produce attivamente da sé. Queste persone non vedono altra meta nella vita che appagare tutti i loro desideri, tutti i capricci, senza distinzione, col risultato che essi passano una parte del loro tempo a procurarsi i mezzi per pagarseli e consumano l’altra in divertimenti inutili, frivole distrazioni e costosi acquisti. Non conoscono disciplina né autocontrollo, che è quello che noi chiamiamo temperanza: scialacquano tutta la loro vita dietro a ciò che sarà anche gradevole (secondo i loro gusti, almeno), ma non è il bene, e la loro vita è spesa invano. La loro forma spirituale è infantile, egocentrica; e poiché, ritenendo bene solo quello che è gradevole, accettano di provare solo piacere, sfuggono tutto quello che può dar loro fastidio, rifiutano di sentire anche il semplice dispiacere, non parliamo del dolore e della sofferenza. Sono perciò insensibili, disimpegnati, chiusi nel loro piccolo mondo, incapaci di condividere sentimenti col prossimo, sordi alle ragioni e ai bisogni altrui, mancano completamente di solidarietà e di generosità; e quando li tocca una qualche contrarietà, sono deboli e hanno reazioni sconclusionate. Ma sulla casistica del male parleremo più avanti; qui basti solo chiarire che, invece, chi sa distinguere i sentimenti razionali da quelli irrazionali, e sa che solo i primi sono beni e non i secondi, desidererà procurarsi solo quei beni che sono realmente tali e per i quali dunque a ragione si gioisce e non a vanvera: la verità, e la condivisione della verità, e i mezzi opportuni per arrivarci, e la consapevolezza sull’uomo, sulla sua storia e sul male. Non spendiamo energie per altro, perché sono sprecate: tutto ciò che non serve a procurare il bene a noi stessi o agli altri è spreco, e va evitato. Questa è temperanza; ma sulla casistica del bene ci affaticheremo più oltre.


NOTE AL LIBRO III

 

Nota 1: è importantissimo capire che cosa realmente è l’intelligenza e come procurarsela. Abbiamo insistito molto sull’autonomia dell’anima nel darsi l’essere e la forma, nei nostri due precedenti scritti: il Lettore attento ha ormai gli strumenti per dedurre che l’intelligenza non è una dote ereditabile biologicamente, come pensano i materialisti, né tanto meno un dono dal cielo, come pensano i superstiziosi. L’anima si procura la capacità di comprendere la verità quando attivamente e volontariamente applica il retto metodo di ragionamento, e cioè quello assiomatico deduttivo, e diventa razionale quando applica il principio di ragion sufficiente. L’intelligenza non è un istinto riservato ai maschi, mentre alle donne è dato di essere “viscerali”, cioè irrazionali, passionali, e dunque inferiori, come pensano molte persone che hanno un aggregato corporeo di sesso maschile e perciò si credono erroneamente maschi (per il concetto di “principio maschile” e “principio femminile” cfr. Il fondamento della ricerca, §§2.6 e 2.11, e anche §2.13: chi non ha intelletto, e cioè la capacità di vedere le idee che rettamente rappresentano l’essere NON è un maschio, anche se il suo corpo aggregato presenta genitali maschili; viceversa è un maschio, anche se il suo corpo terreno presenta genitali femminili, quell’anima che veda rettamente le idee); né si può definire intelligenza la capacità di adattarsi all’ambiente, ché quella ce l’hanno più ricci, tartarughe e orsi polari che noi, e non dipende dalla loro anima ma dalla specie terrena. Né è intelligenza la capacità intuitiva che molte persone hanno o si vantano di avere, e cioè quella di venire a sapere le cose senza capire da dove provenga tale conoscenza: tutto ciò che l’anima riceve passivamente da “qualcun altro” (cfr. ivi, §3.14) e non si è data da sé non tocca la sua forma e non serve alla sua evoluzione verso il bene. Queste comode intuizioni non sono che un’interferenza del sistema nervoso (cfr. su questo ivi, §4.5) che ha come effetto quello di confonderci su che cos’è la vera intelligenza, e farci dimenticare che questa è una virtù e l’anima può procurarsela quando tende al bene, la verità e sappia mettere in atto i mezzi opportuni per raggiungerla, cioè sappia applicare il metodo logico-razionale, che è una cosa che si apprende, non si eredita per via di sangue né ti piove in capo dal cielo. Chi si aspetta doni dal cielo o dal destino e omette d’impegnarsi, rimane indietro.

 

Nota 2: per la distinzione tra forma animalesca e forma bestiale, vedasi supra, nota 1 all’Introduzione.

 

Nota 3: si chiama, nel linguaggio della logica, “contingente” ciò che è soltanto possibile, e dunque non sia vero in assoluto, perché la sua negazione non reca alcuna contraddizione, quando una causa lo fa essere. Contingente è, cioè, una possibilità che si è realizzata in un certo punto del tempo e dello spazio, come effetto di una causa. Il desiderio singolo è un fatto contingente, e dunque temporale. Per esempio: desidero che il mio vicino smetta di fare tanto fracasso, perché mi confonde mentre scrivo. C’è una causa, collocata proprio in questo punto dello spazio e del tempo, che ha prodotto in me come effetto il desiderio di quiete, che è un desiderio razionale (ma ovviamente sono contingenti anche i singoli desideri irrazionali), un bene, visto che la quiete è un bene vero, perché è un mezzo che mi consente di scrivere e dunque di condividere il bene, la sapienza, che è un’azione giusta e dunque un bene; non appena il mio vicino avrà smesso di trapanare (speriamo presto), anche il mio desiderio, appagato, cesserà di essere. Dunque “contingente” significa “reale perché causato da altro”; ciò che è contingente perciò è anche temporale. Il contrario di contingente è “assoluto”, ciò che è sempre vero perché la sua negazione reca contraddizione e che dunque non ha bisogno di una causa per esistere, ed è eterno e non temporale. “L’essere è” è una verità eterna, e l’essere, il pensiero infinito con le sue infinite coscienze, è assoluto, cioè non ha bisogno di altro che di sé per esistere, perché la sua negazione è una contraddizione: “l’essere non è” è un enunciato sempre falso. Dunque la coscienza di Agis è necessariamente esistente ed eterna, è verità assoluta, ma il desiderio che il rumore del trapano del suo vicino di casa finisca, che è sorto ora in essa, è contingente.

 

Nota (4): spero che il Lettore abbia ormai ben chiara nella sua mente la definizione di sentimento o desiderio razionale e di sentimento o desiderio irrazionale, già da noi espressa ne La cura dell’anima, §§1.1-1.3; 2.1; 4.9 e ribadita nell’Introduzione al presente scritto, al punto d, e anche supra, §§2.1-2.2. Qui aggiungiamo che anche timori e paure, essendo un tipo particolare di desiderio, possono essere razionali o irrazionali, a prescindere dal loro essere realistici o meno. Insisto su questo, perché un tenacissimo pregiudizio del senso comune oppone nella cultura contemporanea sentimenti e ragione, come se la capacità affettiva dovesse essere in quanto tale irrazionale, e la razionalità per forza arida e fredda; noi invece abbiamo stabilito (cfr: La cura dell’anima, §1.3) che solo l’anima che abbia in sé la retta idea di essere, e che cioè sa che l’essere è pensiero infinito e infinite coscienze che lo rappresentino rettamente, sa che cos’è il bene, poiché bene è l’essere, è la retta rappresentazione dell’essere, la verità; e dunque solo l’anima razionale sentirà come bene, cioè amerà sé stessa come tutte le altre anime, e avrà in sé l’unico vero sentimento, l’unico vero ardore. Se amore è desiderio di bene, e bene è l’essere, solo chi sia capace di applicare il metodo logico-razionale e sia padrone della verità ontologica amerà il vero bene, l’anima irrazionale o pseudorazionale avrà affetti deviati verso falsi beni, e alimenterà in sé immagini illusorie di amore e di bontà, in maniera deleteria.

 

Nota 5: si chiamano “valori” i beni, intendendo dire che se una cosa è un bene va conservata, è importante che non vada persa. Dare valore a una cosa significa cioè che la riteniamo importante, che ci impegniamo a conservarla e a farla rispettare, difendendola da chi la vuole distruggere. Va da sé che, poiché diamo valore a ciò che riteniamo un bene, dove vige una falsa concezione sul bene, sarà anche in auge un sistema di valori completamente sbagliato: sentiamo oggi continuamente sbandierare i valori della famiglia, della vita intesa in senso biologico, della diversità fra sessi, che sono per noi invece disvalori, cioè cose da svalutare, cose di cui liberarsi, perché sono beni falsi.

 

Nota 6: cfr. Il fondamento della ricerca, §§3.13-3.15 e passim.

 

Nota 7: è importante anche sapersi liberare da quella convinzione, propria della pessima cultura psicoanalitica, che chi soffre o è addolorato sia un frustrato, un fallito o, peggio ancora, un nevrotico. La psicoanalisi, che è una pseudoscienza, ha diffuso nella mentalità comune l’assurda convinzione che il grado di salute di una persona sia proporzionale al suo grado di soddisfazione individualistica, al suo successo, come lo chiamano, intendendo con questo termine la capacità di soddisfare la propria smania di ingigantirsi (mentre per noi è proprio questa la patologia dell’anima: e chi più è soddisfatto in questo senso, più male ha compiuto e più è ammalato) ed essere insensibili alle ragioni altrui. In quest’ottica, quello che evangelicamente si chiama “fame e sete di giustizia(Mt.5,6)”, cioè la sofferenza del giusto che ha gli occhi aperti sul male nel mondo umano e nella storia, che per noi ha immenso valore, viene invece svalutata come “frustrazione” e disprezzata come segno di fallimento. A quel mostro spiriticida, che ha tentato in tutti i modi di togliermi il mio bene, la conoscenza dell’essere e la salute della mia anima, il mio amore per la verità e la giustizia, quel sedicente dottore che la mia sedicente famiglia (branco di bestie, in realtà) mi ha accollato quando ero molto giovane perché secondo loro non ero “normale”, cioè mostruoso come loro, il quale pretendeva di misurare la mia salute col criterio di quanto lussuose fossero le mie vacanze e quanto “rimorchiassi” nel corso di esse, e che dunque mi ha bollato come “alienato” (senza curarsi di rispondermi quando chiedevo una definizione precisa di questa parola), visto che dedicandomi agli studi e non avendo soldi non facevo vacanze, chiederò conto, a suo tempo; per adesso sappiano costoro che chi è insensibile al male e riesce a satollarsi di piaceri, divertimenti, lussi, soddisfazioni illusorie in mezzo a questo sfacelo, chiamando salute l’egoismo e l’ottusità, il disimpegno e la frivolezza, e tutto ciò che è segno di insipienza, non è un uomo di successo, perché il vero successo è trovare il bene; ai nostri occhi è piuttosto come un disperato preso dal panico, che terrorizzato dall’idea di dover presto morire, cerca di distrarsi da questo pensiero in tutti i modi, divertendosi a più non posso e scialando inutilmente nei suoi squallidi lussi, e raccontando a sé stesso d’esser soddisfatto e arrivato, quando sa benissimo di essere come un topo intrappolato su una nave che affonda. Difendiamo dunque dagli attacchi di codesti teppisti dello spirito la nostra sofferenza razionale, la nostra afflizione, che è segno di elezione, non di nevrosi, ed ha valore infinito.

 

Nota 8: introduciamo qui, anticipatamente, il termine “diritto”: un’azione legittima che si compie per procurarsi un bene o per difendersi da un male. Ci servirà.

 

Nota 9: non è argomento di poco conto, ma questione di vita o di morte, ma nel senso spirituale, non terreno, dei termini. Poiché la morte dell’anima, che è ciò che l’avvicina al non essere, è l’ignoranza e la stoltezza (falso sapere, che ne è lo stadio peggiorato), chi ti impedisce di dedicarti alla ricerca della verità e della consapevolezza sull’uomo e sul suo male, e sul suo esplicarsi nella storia, costringendoti a convogliare le tue energie verso falsi beni, ti uccide. E l’omicidio spirituale è più grave di quello fisico, perché distrugge il tuo vero essere, mentre dalla distruzione dell’aggregato, che non è il tuo vero corpo, l’anima non riceve alcun danno.

 

Nota 10: si sarà notato che usiamo la parola “legittimo” come sinonimo di “giusto”, dando per scontato che la legge debba essere espressione della giustizia.

 

Nota 11: cfr. La cura dell’anima, §5.6 e nota 11 al libro VI.

 

Nota 12: sull’interazione tra anima e corpo aggregato bisognerà disquisire altrove.


LIBRO IV.

 

 

 

 

 

LA VITA ETICA: PREAMBOLO.


LIBRO IV.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Il Cristianesimo storico come malattia ed epidemia. Aprendo l’occhio dell’anima sulle forme spirituali ottenebrate e storpie che abitano la nostra cultura occidentale, non si può rimanere indifferenti(4.1).

 

Appello ai laici, e rimprovero per la loro negligenza(4.2). La vita dell’edonista non è una vita etica(4.2).

 

Nemmeno la vita di chi è dedito al dovere è una vita etica: il dovere come trasposizione culturale di istinti naturali che rendono l’uomo violento, possessivo, egoista, animalesco(4.3-4.5). Operazione spiriticida di chi impone il dovere agli uomini(4.5).

 

I due “mezzi eserciti”: la divisione in due fronti dell’umanità(4.6). Debolezza e inefficacia del pensiero laico, che non ha le armi adatte per sconfiggere la vecchia religione(4.6-4.7; 4.8). Noi invece le armi le abbiamo: auspicio che qualcuno, finalmente, voglia usarle(4.6). La cultura laica ha la capacità di affermare i diritti dell’uomo solo sul piano fisico, ma non sa difendere lo spirito dalle aggressioni che subisce(4.7), anzi, ha tollerato che nel proprio seno nascesse un’altra tremenda forza spiriticida, la psicoanalisi(4.8).

 

Conclusione: noi sappiamo difenderci(4.9).


4.1.Abbiamo distinto il male dal dolore e il bene dalla gioia: una vita piena di soddisfazioni, di allegria e di divertimenti non è necessariamente una vita buona, né una vita dolorosa è necessariamente un male. Anzi, in questo periodo di storia, dove non ci sono affatto le condizioni per essere lieti, in genere è proprio il contrario: voglio dire che se uno riesce a essere lieto, spensierato e sereno di fronte a tanto male che lo circonda, vuole dire che è ottuso, non ha la percezione del male, non vede rettamente la realtà. La gioia sarebbe opportuna se tutti gli uomini fossero sani spiritualmente e felici, ma qui, dove sono tutti ammalati e infelici, passare la vita divertendosi è un comportamento insensato. Il Lettore mi dica se in mezzo a un’epidemia di peste, dove la città è piena di malati agonizzanti e di cadaveri, lui (o lei) troverebbe sensato darsi alla sfrenatezza e al divertimento. Perché è in questa situazione che ci troviamo: secoli di Cristianesimo storico hanno ammalato l’anima umana con false idee di essere e di bene, l’hanno confusa col personificare il principio e col trasformarlo in un Dio creatore che ci dona la vita e in cambio pretende adorazione, un culto da professarsi all’interno di un’istituzione ufficiale, e ci premia col paradiso oppure ci relega in uno spaventoso inferno a seconda di quello che abbiamo fatto nel brevissimo arco di una vita umana, pretendendo in noi l’adesione a una morale che consiste nel sacrificare il nostro vero bene in nome di uno squallido, inconcludente, animalesco dovere, il quale spegne in noi ogni slancio veramente amoroso e ogni vera luce. L’anima umana è stata incrostata dalle peggiori superstizioni: è stata a lungo abituata a confidare in misteriosi poteri soprannaturali per la sua redenzione e per la sua salvezza. Il risultato è stato un’anima tanto presuntuosa quanto inetta, perché ella è illusa dalla religione, la quale le ha raccontato che il fedele possiede la verità per gratuita rivelazione e per favore divino, ed ha esaltato la tradizione cristiana come unica vera fede di fronte a tutte le altre tradizioni, che svaluta, per la sua disastrosa inclinazione al “nicolaismo(1)”, come superstizioni, ma, confidando in riti e sacramenti, cioè in mezzi inefficaci e irrazionali, incapaci di procurarle realmente la guarigione e la salute, omette di rettificarsi con i mezzi opportuni della logica e della ragione, che soli le restituirebbero la retta conoscenza dell’essere e la retta idea di bene e dunque il retto amore; sicché questo tipo di anima si trova a essere relegata nella tenebra, avendo omesso di seguire il logos, la sapienza logico-razionale, e carente proprio nel più chiaro e imperioso dei comandamenti: ama il tuo prossimo come te stesso; ciò nondimeno ella alimenta un sentimento di superiorità e vuol dirsi cristiana ed eletta, e rifiuta di confrontarsi con qualsiasi altro modello di morale, bollandolo come relativismo o nichilismo, e pretende perfino che sia improntata alla sua presunta verità la legislazione dello stato.

4.2.Si è diffusa la peste, con questo falso Cristianesimo, nello spirito europeo, e la morte dello spirito, la tenebra, ha mietuto più vittime che mai. Lo spirito laico intuisce tutto questo, ma pochi sono i laici che si impegnano a liberare la nostra cultura dai residui della vecchia superstizione, quei pochi che scrivono sui giornali o pubblicano libri, i quali, però, non hanno le armi necessarie a combattere il male efficacemente, essendo tutti formati da un sistema di idee materialista, cioè pseudorazionale, e difettando essi della retta idea di essere e dunque di bene. Senza un sapere ontologico adeguato non è possibile dimostrare che la fede è falsa, e che credere per fede invece che dimostrare è una manovra accidiosa e colpevole, e questo dà agio ai Cattolici di continuare imperterriti nei loro errori e nelle loro manovre spiriticide. Eppure quasi nessuno si è messo d’impegno in questo senso: la maggior parte delle persone che si sentono libere dalla morale cattolica si contenta di disprezzare i bigotti e poi si occupa solo delle proprie soddisfazioni, del proprio successo, della carriera o, di nuovo, della famiglia, alla vecchia maniera dei cattolici, anche se magari strutturando i rapporti in maniera diversa e più libera. Nessuno si è impegnato, una volta svincolato dai ceppi del dogma cattolico, a trovare una nuova morale, fondata sulla visione retta dell’uomo e della sua natura, da opporre a quella vecchia. Si è continuato con le vecchie abitudini, coi vecchi costumi; solo si è sostituito all’opera di creazione divina il determinismo naturale meccanicistico, e si è cancellata l’idea di una vita dopo la morte, sicché invece di aspettare il premio nell’aldilà guadagnandoselo con l’adesione al dovere, le persone scristianizzate, che hanno perso di vista qualunque altra meta che non fossero le effimere e frammentarie soddisfazioni terrene, sanno solo fare baldoria perché il dovere non serve più, non essendoci più il cielo da guadagnare mediante esso, e non mette più conto accollarselo. Ma nessuno di loro si è affaticato a dimostrare che ciò che si chiama dovere è un falso bene e che il bene vero è un altro; hanno solo imparato che essere egoisti e frivoli è più divertente che dedicarsi al dovere. Adesso il bene è diventato, nel migliore dei casi, passare la vita facendo cose gradevoli e dispendiose: cene, pranzi, ristoranti, viaggi, week-end in giro o nella seconda casa, chiacchiere e sesso… Di questo si occupa l’uomo o la donna della nostra epoca nel tempo libero. Nel peggiore dei casi il bene è il “successo”, sicché l’individuo cerca di diventare importante per il suo ruolo lavorativo o per il potere che riveste, fa l’arrivista sfogando il proprio narcisismo in squallidi e smodati lussi. Tutta questa edonistica inconcludenza dà agio, tra l’altro, ai cattolici di accusare chi non è dei loro di relativismo o nichilismo e di farsi belli con la loro sciagurata morale del dovere. L’inadempienza di questi materialisti egocentrici e ottusi sarà loro rinfacciata: ognuno di loro consuma risorse per mille, prelevandole dalla Terra, e in compenso lascia scorie che la inquinano senza rendere nulla di utile all’umanità, solo per compiere un giro di giostra(2). La loro vita è un’impresa in perdita, perché la Terra paga un costo altissimo per tutte le loro vite inutili: la sofferenza dei poveri, degli umili, dei deprivati. Per ogni istante in cui, a causa del loro ristagno, la rettificazione dei rapporti sociali viene procrastinata, si verifica un dispendio di sofferenza che è pesantissimo per noi, e intollerabile, e di questo dovranno rendere conto. Una vita così non è una vita etica.

4.3.Abbiamo distinto il bene dal dovere e il male dall’inadempienza al dovere, distinguendo l’utile della specie e del corpo terreno dal bene, e la Natura da Dio. Le leggi che impone la Natura non sono giuste e non sono doveri: essa imprime nella nostra anima istinti feroci, ci impone la finalità di sopravvivere nel corpo terreno e questo, colmandoci di bisogni e mettendoci in concorrenza con gli altri, ci rende egoisti e ostili verso il prossimo. L’istinto territoriale ci rende aggressivi: è la specie che ci assegna il compito di impossessarci di un territorio e marcare i confini, escludendone con la violenza chi non sia legato con noi da vincoli di parentela. Nelle società basate sull’interesse del gruppo sociale, dove l’appartenenza è decisa col criterio dei vincoli di sangue o criteri culturali succedanei ad esso(3), l’inclinazione alla violenza, cioè la capacità di fare la guerra e sconfiggere il nemico, è apprezzata come virtù, mentre amore e fratellanza sono visti come un disvalore, un segno di debolezza, che mette a rischio gli interessi del proprio gruppo di appartenenza. La Natura ci divide, mediante l’appartenenza a una discendenza biologica, a un’identità culturale che dipende dal corpo terreno, dal luogo di nascita e dai genitori biologici, che viene rimarcata dalla diversità delle lingue e delle tradizioni, e così  ci scaglia gli uni contro gli altri. La Natura ci impone il suo scopo di riprodurre la specie rendendoci gelosi e possessivi: se cediamo a questo istinto, pretendiamo di impadronirci della vita di una persona dell’altro sesso e usarla per il nostro scopo riproduttivo, per affermare la nostra discendenza sul territorio e confermarne il possesso e così trionfare nella lotta per la sopravvivenza. E’ l’istinto della specie, che vuole selezionare l’organismo più forte, a porre in concorrenza i maschi fra loro per il possesso di una femmina e dunque imprime nella loro anima la gelosia e la smania di possesso, e quel sentimento di animalesca soddisfazione in caso di riuscita che porta all’esaltazione della virilità e della potenza sessuale, che stanno alla base dell’etica maschilista e omofoba della Chiesa.

4.4.Una cultura che ricalchi l’istinto animalesco e imponga come norme quelle che non sono altro che trasposizioni degli istinti, e cioè enunciazioni in linguaggio umano degli interessi della specie, non è fondata sul bene né adempie ai comandi della volontà divina, perché gli interessi della specie terrena non sono il bene e la volontà divina o è giusta, e cioè vuole realizzare il bene, o non è tale. Imporre come dovere la verginità fino al matrimonio alle femmine, spacciandola per purezza e sostenendo assurdamente che è un valore, significa santificare l’istinto del maschio che vuole avere una femmina in suo possesso esclusivo per essere sicuro che i caratteri biologici che erediterà la prole siano proprio i suoi, che sia proprio il suo sangue a imporsi sul territorio. E quel sentimento di feroce soddisfazione che prova il maschio quando è riuscito in tale scopo, insieme con la smania di possesso che ne deriva, è un istinto animalesco che la Chiesa santifica, spacciandolo per amore coniugale, e santificando altresì sotto il nome di fedeltà coniugale quel legame di sottomissione imposto alla donna, che la depriva del suo valore, della sua autonomia e della sua dignità, sicché tale istituzione impone come un dovere verso Dio quella che è la trasposizione culturale  di un istinto animalesco che per lo più è destinato a scadere nella bestialità(4), il quale non è certo amore, visto che l’amore è desiderio di bene, non smania possessiva ed autoesaltazione, e soddisfazione di istinti. Questi valori assurdi, la verginità fino al matrimonio e la fedeltà coniugale, che la Chiesa spaccia per cristiani, non sono cristiani affatto, perché a Cristo non interessava nulla che il maschio vedesse soddisfatto il proprio istinto animalesco di imporre sul territorio una prole del suo sangue e si esaltasse con l’affermazione della propria potenza sessuale. Cristo parlava di castità, che è distacco totale dalla finalità della specie, e cioè dal desiderio di produrre prole: castità è astinenza da rapporti sessuali (per entrambi i sessi) che dura tutta la vita, ed è cosa ben diversa dalla verginità (richiesta solo alle femmine, o per lo meno con più insistenza ed energia a loro) fino al matrimonio.

4.5.Nemmeno il modello di vita imposto dal Cattolicesimo, quello fondato sui doveri verso la specie, e cioè sulla famiglia, è vita etica, dunque, se per vita etica si intende quella rivolta a realizzare il bene, alla giustizia. Aver imposto agli uomini come massimo valore la famiglia è stato un errore madornale, perché questa morale cattolica santifica la forma animalesca dell’uomo, quella identificata col corpo terreno, che non è il bene, ma che anzi ne è la negazione, ed è malattia dello spirito, come abbiamo visto nei nostri precedenti scritti: l’identificazione col corpo aggregato, che non è il nostro vero corpo né tanto meno il nostro vero essere, eclissa in noi, appunto, la retta idea di essere e dunque di bene (perché chiamiamo bene l’essere) e imprimendo in noi false immagini di bene ci ammala, perché, dato che si desidera ciò che si crede bene, svia i nostri desideri verso beni falsi, rendendoli irrazionali e dannosi. La forma animalesca, che poi scade inesorabilmente in quella bestiale per lo sviluppo dei punti di alienazione del valore(5), è appunto l’insieme delle tendenze a provare sentimenti e desideri irrazionali, che, come si ricorderà, abbiamo definito malattia. Codesti che impongono agli uomini e alle donne il gravoso compito di fare l’utile della specie terrena, salvo esentare sé stessi dal medesimo compito, per riservarsi quella vita dedita allo spirito di cui deprivano gli altri gelosamente e invidiosamente (la loro spiritualità è un punto di alienazione del valore, cioè un mezzo per soddisfare la superbia, dunque è fasulla e oscura, e chi è privo di un bene che vorrebbe esibire è invidioso di chi ce l’ha realmente e diventa distruttivo), impediscono al prossimo di applicare le proprie forze a conoscere l’essere, a ritrovare il vero essere che è coscienza e pensiero, non corpo animale. Commettono dunque spiriticidio, visto che la morte dell’anima è l’ignoranza di sé e dell’essere. Questa assurda morale cattolica è una trappola che impania le anime nella forma ammalata, le inceppa, le soffoca come farfalle in una tela di ragno. Altro che salvarle. E’ la peste dello spirito che si è diffusa in Europa col Cristianesimo storico, non la salvezza.

4.6.Oggi l’umanità, o almeno quella parte di essa che sta compiendo la sua esperienza nell’ambito della cultura occidentale, è grosso modo divisa in due parti: una regressiva, o stagnante, che ancora conserva la forma impressa dalla religione, con tutte le sue varietà più o meno oscure, ma che ha come caratteristica fissa la svalutazione dell’uomo e la sua sottomissione a un Dio creatore che esige un culto e impone norme e precetti che non sono dimostrabili razionalmente ma che si pretende siano la morale assoluta, fondandosi sull’asserzione che la volontà divina è imperscrutabile (che è un modo per esentarsi dal darne conto e per poter spacciare impunemente qualunque mostruosità per norma morale); una seconda parte, invece, che si pensa progressiva, un fronte d’onda che si muove verso nuovi modelli, è quella di coloro che hanno abbracciato una mentalità “scientifica”: credono più o meno nella cosiddetta scienza materialista (che per noi è pseudoscienza, essendo valida solo per cogliere le connessioni causali che funzionano nella simulazione, ma che sono artifici provvisori, e fondandosi su un sistema di idee irrazionale) e hanno fiducia nella “ragione”, o quella che credono tale, e che per noi invece è sragionamento fallimentare. Sì, è vero che questi possiamo considerarli progressisti, rispetto al ristagno inflitto alla cultura europea dal Cattolicesimo per secoli: questi almeno si muovono. Ma è vero anche che, a ben guardare, essi non sanno precisamente in che direzione muoversi, smarriti come sono in una visione pseudorazionale della realtà, perché, difettando della retta visione dell’essere, non sanno nemmeno trovare il bene. Questi razionalisti, che in genere sono atei o agnostici, e che s’appellano laici, si sono liberati dall’oppressione di un Dio sovrano, tiranno anzi, che impone regole crudeli, e dunque, lasciandosi guidare (checché ne dicano) dal sentimento o da una vaga intuizione del vero, o almeno da un più sano buon senso e da una maggiore umanità, nei molti dibattiti in corso oggi sulle singole questioni propongono la soluzione giusta. Sicché oggi la nostra cultura è divisa, per dir così, in due schiere che si oppongono l’una contro l’altra in ogni puntuale questione di etica: i laici che vogliono legalizzare le coppie di fatto e dare qualche diritto anche agli omosessuali, quegli altri, invece, che vogliono imporre il matrimonio eterosessuale considerandolo un sacramento; i laici, che legalizzerebbero l’eutanasia, mentre i cattolici la proibiscono in nome di un presunto potere di vita e di morte che Dio avrebbe su di noi, perché secondo loro la nostra vita sarebbe un suo dono; i laici, che consentono alle donne l’aborto quando la situazione lo richieda, mentre i cattolici considerano la vita biologica “sacra fin dal concepimento”; i laici che permetterebbero l’uso delle cellule staminali embrionali nella ricerca medica, ritenendo più importante lenire le atroci sofferenze delle persone colpite da malattie devastanti, mentre i cattolici preferiscono salvaguardare un grumo di cellule per compiacere un Dio geloso della sua onnipotenza con un atto di piaggeria e al malato che soffre passano sopra con gli scarponi chiodati… Due fronti, due mezzi eserciti, per così dire, si stanno affrontando nella nostra epoca storica, e i laici ogni volta hanno il retto presentimento della giusta soluzione (o almeno si avvicinano ad essa) senza però saperla fondare logicamente. Il problema è dunque proprio questo, che essi non hanno l’arma decisiva per sconfiggere il nemico, cioè per demolire l’idea che la fede cieca in un Dio sovrano sia un bene per l’uomo e che, unita al culto e ai riti e sacramenti di cui è detentrice la Chiesa, lo porti alla salvezza. Essi, con la loro scienza mal fondata e sdrucciolevole, perché empirica e priva di una solida impalcatura ontologica, devono lasciare spazio al mistero e alla fede irrazionale che sul mistero si fonda. Solo chi sa indagare l’essere e svelare il mistero, illuminando l’essere, la coscienza, a sé stesso può confutare i loro dogmi irrazionali e la loro stolida fede. “Siamo condannati alla tolleranza” ha detto acutamente qualche tempo fa uno di loro, mi pare fosse Michele Serra; nemmeno noi siamo intolleranti verso religioni e altri tipi di errore, si capisce, lo chiariremo completamente più oltre, siamo i primi a dire che la verità si apprende e non si impone con la coercizione e che sbagliando si impara(6). Ma noi abbiamo i mezzi, perché ce li siamo procurati con l’applicazione dei principi logici, movendo dagli assiomi fondamentali con rigore e impegno, e con l’applicazione del principio di ragion sufficiente, per confutare tutti i loro errori; li possiamo disinnescare, e possiamo sperare che quello che abbiamo fatto noi, prima o poi, vogliano farlo anche tutti gli altri, seguendo il sentiero da noi aperto e ampliandolo, finché tutti, prima a uno a uno, o alla spicciolata, poi a colonne sempre più folte, escano dalla prigionia, evadano da questo “mondo alla rovescia”, dove si chiama male il bene e bene il male, dove dei mostri col pretesto di redimerti ti rendono storpio nell’anima e feroce nel cuore, e dove dunque trionfa la morte, perché essi spiritualmente ti assassinano, e dove la condizione normale è la malattia dell’anima. “Uscite, popolo mio, da Babilonia…(Ap.18,4)”.

4.7.La cultura laica e materialista non ha le armi adatte per difendere l’uomo dallo spiriticidio di cui è vittima, da quando ha rigettato l’ontologia e ha omesso di indagare l’essere e la verità, per il pregiudizio che porta a confondere la razionalità con la negazione del soprasensibile. La verità, e Cristo con lei, è così rimasta in ostaggio dei suoi nemici che continuano storpiandola a farne scempio e con lei dell’anima umana. La cultura laica è stata efficace nello stabilire alcuni diritti, che però riguardano solo il corpo fisico: togliendo all’intolleranza ecclesiastica il suo braccio secolare, dissolvendo l’associazione fra trono e altare e stabilendo che l’integrità fisica è un diritto irrinunciabile, ha impedito che la Chiesa continuasse ad imporre il suo credo con la violenza fisica, coercitivamente, indebolendo di molto il suo potere. Ed è grazie alla cultura laica che si è imposto un nuovo modello di moralità, quello dove la guerra e la violenza fisica sono da rigettare e dove invece ha valore la pace e il rispetto del prossimo. Già, ma i laici sanno imporre solo il rispetto dell’involucro fisico dell’uomo, non del suo spirito, perché essi non vedono il vero uomo, l’uomo di pensiero, sanno vedere solo l’apparenza sensibile dell’uomo e non sanno vedere la forma spirituale e quanti danni e ferite e guasti e storpiature un pensiero irrazionale le infligga. La loro legislazione difende il corpo fisico, e non l’anima dell’uomo, quella è in balìa come prima delle forze oscure che la uccidono. Infatti, il valore della laicità si è radicato solo grazie alla visione, e alla conseguente ripugnanza per essi, degli abusi e delle violenze che la Chiesa ha compiuto sul piano fisico nella storia: torture, genocidi, roghi di eretici e di streghe, crociate e poco altro. In sede di studi storici sono già stati scritti molti libri (ma di più fuori d’Italia, perché qui impera ancora un clericalismo invadente che comprime violentemente la verità e cancella di prepotenza il dato storico) sulle nefandezze compiute nel nome di Cristo, il Lettore attento saprà bene trovarsi una bibliografia su questo argomento(7), prima ancora che noi ce ne occupiamo nel nostro sito. I nostri scritti, però, lo anticipiamo già qui, non riguarderanno i delitti che la Chiesa ha compiuto nel mondo e nella storia sul piano fisico (che sono solo il sintomo, gli effetti esterni): quello che a noi interessa è ciò che alle opere storiografiche dei laici è per lo più sfuggito, sono le devastazioni che il Cattolicesimo ha compiuto sul piano spirituale, che è la vera realtà, lo scempio perpetrato da tale istituzione nei confronti della verità di Cristo e come abbia abusato di un potere illegittimo, fondato su un’ideologia politica fasulla e anticristiana, da Costantino in poi, per dominare l’anima degli uomini europei guastandola e assassinandola con false dottrine. Presteremo cioè più attenzione agli spiriticidi che ai genocidi, perché questi ultimi, per quanto obbrobriosi, sono soltanto la punta dell’iceberg e non rappresentano il danno maggiore. E’ questo che sfugge alla cultura laica, è questa debolezza che le rimproveriamo: non ha cognizione del vero essere, del vero bene e del vero male, e dunque sa impedire l’omicidio e i danni che può infliggere all’uomo la violenza fisica, ma non sa impedire lo spiriticidio e i danni che può infliggere all’anima la violenza spirituale.

4.8.Anzi, la stessa cultura laica, la scienza materialista, ha permesso che si sviluppassero nel suo seno forze altrettanto oscure e spiriticide: la psicoanalisi(8), che è un’arma micidiale nelle mani di chi vuol ridurre l’uomo a un processo psichico inconscio e incontrollabile, di chi vuol vedere il prossimo come incapace di intendere e di volere, e vuole negargli ogni più nobile aspirazione bollandola come sintomo nevrotico e spacciando per salute e normalità la bestialità; sicché ora l’anima europea ha più di un nemico da cui difendersi: dobbiamo parare gli assalti di questi che chiamano la giustizia “superego” e vogliono convincerti che essa è un demone nero e oppressivo, che spegne le tue più sane energie vitali e impedisce l’espressione del “vero te stesso”, dando per scontato che il vero te stesso è quello più possibile basso ed egoista, e che i tuoi veri impulsi vitali sono quelli più squallidamente sudici (sessualità sfrenata, desideri individualisti), raccontandoti che col reprimerli ti ammalerai perché torneranno dall’”inconscio”, dove li hai rimossi, sotto forma di sintomi nevrotici; e tali assalti si sono aggiunti a quelli di prima, a quelli di coloro che ti proibiscono di dirti giusto e di cercare la giustizia, perché l’uomo è sempre colpevole ed è giusto solo Dio, e tu non puoi far altro che chiedere umilmente perdono a Lui delle tue colpe, impetrare la grazia con preghiere e riti e riverire il suo clero(9).

4.9.Eh no, cari i miei mostri; niente da fare. Qui le vostre zanne e il vostro veleno non hanno efficacia, qui i vostri canini si infrangono su una corazza assai dura e una spada vi mozzerà la testa; sia che tu provenga dalla radice della serpe o mi volteggi intorno come un drago alato(10), sappi, caro il mio mostro spiriticida, che io ho nella mia faretra tante frecce acuminate e padroneggio la tecnica dell’arco come Odisseo, il quale trapassò, senza esitare, i pretendenti che gli insidiavano la sposa; così sarà di te che insidi la mia anima pretendendo di sostituirti al marito legittimo, l’intelletto, con falsi saperi e concetti spuri, sarai infilzato; ovverosia, fuor di metafora, sarai confutato dall’applicazione del metodo logico-razionale. Ora noi ci siamo procurati gli strumenti per il giudizio, definendo con metodo assiomatico deduttivo che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è salute e che cosa malattia, che cosa è giusto e che cosa è ingiusto, a partire dai risultati di un’ontologia che ci ha liberati, confutandoli, dagli errori concettuali sull’essere e dunque sul bene che sono comuni ai due mezzi eserciti (come li abbiamo chiamati) della cultura occidentale, derivati dall’identificazione col corpo aggregato, che non è vera realtà ma simulazione, i quali impastoiano l’uomo con i vincoli dei falsi beni e lo inceppano in false morali, oppure lo gettano nell’immoralismo egocentrico tipico del materialista che scambiando il piacere per il bene e terrorizzato dalla brevità e dall’insignificanza della vita, non sa concepire altro che infilare una dietro l’altra soddisfazioni effimere. Ora noi sappiamo che cos’è il bene e che cos’è il male, e sappiamo, di conseguenza che cos’è la giustizia e abbiamo iniziato a mettere a punto una terminologia, cioè una strumentazione semplice ma efficace per giudicare. E perciò possiamo giudicare quale azione è giusta e quale no e anche, soprattutto, quale vita è buona e quale no e quali comportamenti sono davvero virtuosi e quali sembrano soltanto tali al senso comune, con le sue concezioni fumose e i suoi termini così mal definiti. Ci apprestiamo dunque a esaminare più in dettaglio la somma delle azioni giuste e virtuose di una vita buona, come dire la casistica del bene e forse capiremo anche quale vita sia la migliore possibile per un uomo sulla Terra in questa epoca, e magari potremo anche immaginarci un’utopia per il futuro, se ne avremo la forza.


NOTE AL LIBRO IV.

 

Nota 1: cfr. Ap.2,6. Nel nostro lessico il “nicolaismo” è la tendenza, propria di chi esercita un dominio politico e culturale, ad accreditare a sé stesso e alla propria parte come merito quella medesima cosa che, invece, rinfaccia ad altri come nefandezza o delitto. Come si vede, qui noi ci discostiamo dal lessico convenzionale e usiamo la parola nel suo significato etimologico: nicolaismo è l’atteggiamento del popolo vincitore (dal greco: nikào=vinco e laos=popolo): cioè, chi ha imposto al mondo il proprio dominio ha la tendenza a ritenere giusta e sacrosanta qualunque azione da sé compiuta, anche quando è stolta e nefanda, mentre un’azione dello stesso tipo verrebbe bollata come colpevole e deleteria se compiuta da altri. L’ideologia che sostiene questo atteggiamento ruota intorno alla convinzione che a chi domina il mondo è lecito tutto, perché essendo tale potere predestinato e voluto da Dio (o dagli dèi, che è lo stesso), qualunque cosa avvenga nel suo ambito è per ciò stesso legittima. Roma, con la sua ideologia imperialista, era già avvezza al nicolaismo anche prima di diventare cristiana, convinta com’era d’essere stata predestinata a fungere da caput mundi; dopo Costantino, dal IV secolo in poi, questo odioso tratto del potere imperiale è passato ai Cattolici, ingigantito, essendosi diffusa l’ideologia di Eusebio di Cesarea, di Ambrogio, di Agostino, di Orosio e di uomini simili, secondo la quale Roma sarebbe stata collocata da Dio al centro del suo gigantesco impero allo scopo di convertirsi al Cristianesimo e fondare il regno di Dio sulla terra. Col pretesto di portare Cristo a trionfare nel mondo (quando egli auspicava una vittoria sul mondo e non nel mondo e un regno che non fosse di questa terra ma nello spirito), la Chiesa di Roma ha legittimato e santificato nel proprio seno quelle medesime cose che poi stigmatizza come diaboliche nelle tradizioni altrui: per noi qualsiasi culto e qualsiasi mezzo magico-rituale, e cioè irrazionale, che si sostituisca alla vera cura dell’anima (che va operata con mezzi logico-razionali essendo la rettificazione del suo pensiero) è superstizione, e perciò è superstizione ogni religione in quanto tale; per i Cristiani sono superstizioni o inganni diabolici solo le religioni e i riti degli altri, mentre quando i medesimi errori li compiono loro, tributando un culto e svolgendo riti all’indirizzo di una divinità, allo stesso modo che tutte le altre religioni, questa è vera fede e non superstizione, perché a loro, chissà perché, è stata rivelata la formula magica che funziona davvero, mentre quelle degli altri sono ingannevoli. Per fare un altro esempio, l’ispirazione, per costoro, se si verifica fuori dall’ambito cristiano è operazione diabolica, mentre il medesimo fenomeno in ambito cristiano viene considerato ispirazione dello Spirito Santo. Questo è nicolaismo, per noi: tutte le religioni ricadono sotto la stessa definizione, e cioè sono tutte un rapporto idolatrico tra un fedele e una falsa divinità, a cui si chiedono favori con atti adulatori e piaggeria: perché questo è adorare Dio, e non cambia nulla se invece di tanti dèi la piaggeria è rivolta a uno solo, non è nel numero delle divinità che consiste l’idolatria e la superstizione ma nell’attribuzione di un culto, negli atti adulatori e nel rapporto di do ut des che il fedele istituisce con l’essere o gli esseri “superiori”, come con un potente a cui chiede favori in cambio di umiliazione. E, per tornare al secondo esempio, per noi tra un profeta del Giudaismo e una sibilla o una pizia non corre alcuna differenza (semmai la differenza sta nelle culture che recepiscono simili contatti e nel modo in cui questi vengono socializzati): entrambi ricevono nella propria coscienza passivamente dei contenuti che provengono dalla medesima fonte, che sono quelle intelligenze di cui abbiamo parlato ne Il fondamento della ricerca, §4.5 e passim, cioè dalla forza che governa il”nostro” sistema nervoso, e che in alleanza con le altre intelligenze della Natura, che non sono Dio (cfr. ivi §§4.3-4.4), ingannano l’uomo a delle cui operazioni dovremo parlare più dettagliatamente in uno scritto a parte; per ora si tenga presente il corollario al principio di ragion sufficiente: se una cosa non l’ho pensata io ma esiste, deve essere il prodotto della coscienza di qualcun altro, per convincerci che i contenuti di una coscienza che ella non ha prodotto da sé, ma riceve passivamente,  le sono comunicati da qualcun altro. No, non dell’inconscio, che non esiste, essendo una contraddizione in termini, e non potrebbe produrre pensieri, perché pensiero e coscienza di pensiero sono la stessa cosa, ma di qualcuno che è, invece, assai più conscio e consapevole di noi. Né inconscio né Spirito Santo, ma…

 

Nota 2: il nostro rapporto con la Terra è assai complesso, non possiamo occuparcene qui, ma rimandiamo la discussione a un’opera apposita. Anticipiamo solo che questo faticoso viaggio nel mondo dell’illusione, della follia e del male che è la vita umana non va sottovalutato perché l’esperienza del male è un passo importante nella nostra formazione. Il male è male, ma l’esperienza del male, cioè la conoscenza che se ne ricava, come ogni conoscenza, può risultare un bene… (cfr. infra, nota 4 al libro VII, ultima frase, e nota 11 al libro VII).

 

Nota 3: la Natura, conferendo ai vari gruppi umani involucri corporei diversi, lingue differenti e spingendoci così, anche col seminare religioni e tradizioni distinte, a identificare noi stessi con una “nazionalità”, cioè creando identità etniche o politiche a cui noi crediamo di appartenere, cancella in noi l’idea che siamo tutti esseri, e che l’essere è tutto parente a sé stesso perché ogni essere è un riflesso finito del medesimo infinito pensiero. Crea in noi, cioè, quell’istinto territoriale e quella xenofobia che poi trasposti culturalmente diventano l’amor di patria, quel valore in nome del quale fino a poco tempo fa si aveva il dovere di cadere in guerra difendendo, appunto, il suolo avito dalle invasioni degli stranieri, mentre il sentimento di identità culturale e politica si è trasformato, per esempio, nel nazionalismo del XIX e XX secolo; quando poi si è introdotto il concetto di razza al posto di quello di identità culturale e quando l’appartenenza a una certa razza è divenuta un punto di alienazione del valore, un mezzo per sentirsi superiori, sono nati razzismo e nazismo. Abbozziamo qui questo argomento, che meriterebbe d’essere affrontato capillarmente in sede storiografica e magari studiato anche nelle manifestazioni più attuali, come la xenofobia leghista, che, a mio vedere, è ancora qualcosa di molto istintivo.

 

Nota 4: per la distinzione tra forma animalesca e forma bestiale vedasi supra, nota 1 all’Introduzione; e per la descrizione del maschio che da animalesco si fa bestiale quando elegge a proprio punto di alienazione del valore il possesso esclusivo dell’attenzione di una donna, cosa che puntualmente si verifica nel matrimonio tradizionale, vedasi La cura dell’anima, §4.6 e nota 8 al libro II.

 

Nota 5: spero che questi concetti, fondamentali per la comprensione dell’anima umana e del suo male, cioè per aprire l’occhio spirituale sulla realtà che è nascosta dall’apparenza sensibile, siano ormai familiari al Lettore impegnato, o se no si rilegga La cura dell’anima, libro III e passim.

 

Nota 6: si ricordi quanto da noi detto sull’autonomia dell’anima nei nostri due precedenti scritti. Nello scritto Sull’eutanasia, tra le altre cose, abbiamo asserito: “Posto che l’irrazionalità è la malattia dell’anima, per guarire, l’anima deve rettificare le idee dentro a sé stessa. Può farlo, solo se vuole farlo. Poiché l’anima non è una cosa, ma è pensiero, niente può modificarla se non cambia essa stessa i contenuti del suo pensiero; il pensiero si muove solo se vuole muoversi e nessun’altra causa c’è se non la sua stessa volontà che possa operare al suo interno. Il pensiero non pensa un’idea se non vuole pensarla; perciò nessuno, che non sappia convincere l’anima a volere la verità, ad accettare la medicina che può guarirla, può redimere l’anima etc.”. Dovremo tornare su questo importantissimo argomento, in seguito (cfr. infra, §6.10 e sgg.; §7.8).

 

Nota 7: segnalo per esempio: Karlheinz Deschner, Storia criminale del Cristianesimo in 10 voll.,  Ariele. K.D. sembra però, più che un laico, un teologo dissidente.

 

Nota 8: abbiamo già accennato a qualche polemica con la psicoanalisi nei nostri due precedenti scritti, per esempio vedi Il fondamento della ricerca, nota 16 al III libro; e si veda la rappresentazione della malattia spirituale del sedicente terapeuta in La cura dell’anima, §5.11, per adesso. Poi bisognerà trattarne monograficamente in altra sede.

 

Nota 9: cfr. quanto già detto supra, §§1.4-1.6.

 

Nota 10: cfr. Is.14,29. Mi scuso per questa escursione nel linguaggio simbolico; è un’abitudine, quella di pensar così, dovuta alla mia assidua frequentazione dei piani simbolici. Avviso già qui che lo studio di questo linguaggio (condotto con rigore) è necessario per chi vuol vedere l’essere, perché la vera realtà è prodotta dalla forza del simbolo.

 


LIBRO V.

 

 

 

 

 

LA VITA ETICA: PROBLEMI.

 


LIBRO V.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Le due azioni giuste che fanno di una vita una vita etica: trovare il bene e condividerlo. Nella nostra etica non c’è conflitto tra bene individuale e bene collettivo(5.1).

 

Si riprende l’argomento: giustizia e felicità(5.2).

 

Condividere il bene è un’impresa difficile(5.3). Fare il bene non è fare l’utile; immagini illusorie di azione giusta(5.3-5.4). Per fare realmente il bene del prossimo e non illuderci soltanto occorre intelligenza(5.5). Per questo, prima di tentare di realizzare buone azioni, è necessario procurarsi l’intelligenza, cioè la conoscenza dell’essere e la retta visione del bene; retto concetto di “conversione”(5.5). Poi però sorge un problema: il mondo è pieno di menzogne. Necessità di difendere in noi la retta visione dell’essere e del bene, cioè di procurarsi la capacità di confutare gli errori che i nemici della verità vogliono imporci(5.6). Esempi: positivismo e psicoanalisi; spiritualismi irrazionali(5.6).

 

Ancora su: difficoltà di realizzare la vita etica, anche solo la prima delle due azioni che la caratterizzano(5.7). Tre generi di nemici, tre specie di pensieri ingannevoli, ma tutti e tre generati dall’accidia(5.7; 5.9). Definizione di accidia e polemica contro chi sostiene che la troppa intelligenza genera cattiveria(5.9).

 

L’ostacolo più formidabile alla condivisione del bene è la superbia, che induce gli uomini a rifiutare la verità; noi non cadiamo nell’accidia e vogliamo trovare un mezzo realmente efficace per risolvere questo problema. Sì, ma come fare?(5.8-5.10).


5.1.Non è difficile né lungo esporre quali sono per noi le azioni giuste che un uomo può compiere nella sua vita, perché esse sono solo due: trovare la verità, che è il bene; condividere la verità, che è il bene. Altro non c’è da fare in questa vita: tutto ciò che ci serve per realizzare il bene è procurarsi i mezzi per guarire l’anima, la nostra e l’altrui, dal male, che è ignoranza e stoltezza, e portarla nella condizione di salute, che è quella di un’anima che vedendo rettamente che cos’è il vero bene, lo desidera, perché percepire una cosa come bene significa desiderarla, e dunque l’anima che vede il bene rettamente avrà in sé la bontà, che è tendenza a desiderare il bene, e che abbiamo appunto chiamato salute(1). E sapendo che è bene l’essere e che l’essere è coscienze infinite, ma che non è essere in senso proprio se non il pensiero che conosce sé stesso e che dunque il bene è la verità, la retta idea di essere (cosa questa che si chiama intelligenza, come abbiamo visto, che è il nome della bontà che trovando i mezzi per realizzare il suo desiderio di bene da semplice tendenza si fa virtù), l’anima sana, desiderando il bene, cioè che tutte le coscienze rappresentino rettamente l’essere, vorrà che tutte le coscienze posseggano la verità, e cioè abbiano il bene, altrimenti sarebbero carenti nel rappresentare l’essere, e l’essere non sarebbe, e sarebbe il male. Come si vede, nella nostra etica non c’è conflitto tra bene individuale e bene collettivo, e l’anima singola non si impone per dovere di fare il bene del prossimo, ma lo ama, cioè vede come proprio bene e perciò tende a desiderarlo, anche il bene di tutte le altre anime. Fare il bene del prossimo non è un sacrificio, e non lo facciamo per dovere, ma perché amiamo il bene di tutte le anime, che è anche il nostro bene, perché è il nostro bene che l’essere sia. Insomma, l’anima sana, libera da vincoli coi falsi beni, che derivano da concezioni errate sull’essere le quali ci fanno percepire come beni quelle cose che non lo sono affatto, è anche giusta: desiderando il bene di tutte le anime, oltre che di sé stessa, avrà la tendenza a dare a tutte il bene che loro spetta, cioè l’essere e dunque la verità che le fa essere, e anche a conferire loro valore, perché sapendo che le infinite rappresentazioni dell’essere, le quali fanno essere l’essere in senso proprio, sono il bene (infatti è bene ciò che fa essere l’essere, male ciò che lo priva dell’essere) e perché si dà valore ai beni, darà valore a tutte le anime, sapendo che ciascuna di loro è un bene. Ma dunque l’anima sana, che ha bontà e intelligenza, avrà anche giustizia, perché dare a ciascuno ciò che gli spetta, cioè l’essere e il valore, si chiama giustizia; e la sua condizione di salute è anche felicità.

5.2.Infatti, se riprendiamo la nostra definizione di giustizia: giustizia è la realizzazione del bene, in noi e nel prossimo, che equivale a quella testé enunciata: giustizia è dare a ciascuno ciò che gli spetta, perché a ciascuno spetta il bene, cioè di essere(2) (che significa avere la retta conoscenza di sé, possedere la verità, perché è realmente essere solo il pensiero che conosce sé stesso, non quello che s’ignora) e di essere un bene (perché bene è l’essere e dunque ogni essere è un bene) e di avere valore (perché noi diamo valore a ciò che è bene e dunque a tutti gli esseri), e se riprendiamo anche la nostra definizione di felicità come stato di fruizione eterna del bene(3), ci accorgiamo che per arrivare alla felicità ci occorre che viga ovunque la giustizia, cioè che in tutte le anime sia realizzato il bene, che tutti gli esseri abbiano ciò che loro spetta; e questo significa che  tutti gli esseri, quando sanno che cos’è l’essere realmente, e dunque posseggono l’idea di bene e perciò mirano senza deviare o confondersi alla vera felicità, desiderano il bene l’uno dell’altro, si amano reciprocamente, il che è come dire che nessuno avrà tendenze a deprivare gli altri o sé stesso del bene e quindi a compiere ingiustizia. Sarebbe sufficiente che la verità ontologica non sia nascosta ma splenda in ogni mente, per avere un mondo senza male. Infatti, quando diciamo che la felicità è fruizione del bene, non specifichiamo “del bene proprio”, ma diciamo “del bene”, in generale, cioè stiamo dicendo che perché un’anima sia felice occorre che tutte le altre anime siano felici, cioè che sia realizzato l’essere, che è infinite coscienze e non una sola: solo così potremo realmente fruire del bene. Non abbiamo detto, infatti, che di fronte al male l’anima (sia che ne venga colpita lei stessa o un’altra anima), se è sgombera da errori concettuali che la fanno tendere ai falsi beni e dunque a produrre sentimenti irrazionali, soffre, perché la sofferenza è la percezione del male(4)? E se soffre non è felice. Perciò noi tutti che vogliamo il bene e vogliamo essere felici, vogliamo anche che la condizione in cui viviamo sia lo stato di perfetta giustizia: poiché la giustizia è la realizzazione del bene, e la fruizione del bene è la felicità, la condizione perché ci sia felicità è che ci sia giustizia. Se dunque chiamiamo etica la scienza che ci conduce al nostro fine, che è la felicità, perché essa sia in grado di procurarci i mezzi per arrivare al nostro fine, come ogni scienza deve fare per essere tale(5), deve procurarci la giustizia. E’ per questo che tutto ciò che vogliamo è procurare a noi stessi la verità, che è il bene e fare in modo che anche tutti gli altri si procurino la verità, che è il bene: perché tutti abbiano ciò che a ciascuno spetta, il bene, che è essere e cioè coscienza e conoscenza di sé, e tutti si conferiscano reciprocamente il retto valore, e cioè si amino, percependo sé stessi e gli altri come beni, sicché viga giustizia e sia sradicato il male, che è ignoranza e stoltezza, da cui derivano le tendenze irrazionali, le quali portano gli uomini a negare l’essere a sé stessi e agli altri, e a deprivare sé stessi e gli altri del valore, cioè a odiare, disprezzare e commettere ingiustizia. Poiché la fruizione del bene è felicità, mentre la percezione del male genera sofferenza e ci priva della felicità, noi, che vogliamo essere felici, vogliamo la giustizia, essa è il nostro sommo valore; e vogliamo mettere fine all’ingiustizia, alla carenza delle anime che non conoscono l’essere e che quindi non hanno il bene. Come dicemmo all’inizio di questo libro, solo due cose vogliamo: trovare la verità, condividere la verità, e non abbiamo altri desideri. Questa è giustizia.

5.3.Ovviamente, raggiungere questo scopo non è così semplice come enunciarlo: è già un’impresa immane procurare il bene a sé stessi, cioè ripristinare nella propria anima la forma sana ed eletta, figuriamoci fare quello degli altri. Perché fare il bene degli altri non significa aiutare il prossimo sul piano fisico(6), come pensano i Cattolici con la loro etica irrazionale del sacrificio, che è poi una serie di atti per lo più ipocriti e inconcludenti (elemosina, volontariato…), che possono diventare anche il punto di alienazione del valore per un’anima che voglia dirsi santa con poca spesa; e anche chi in buona fede si impegna ad alleviare sofferenze e disagi delle persone in difficoltà, agendo però solo sul piano fisico, non fa, in senso proprio, il bene del prossimo, perché il bene è la conoscenza dell’essere e la conseguente guarigione dell’anima dalle tendenze a provare desideri e sentimenti irrazionali, cioè la rettificazione dell’anima, la sua liberazione dal male, mentre agendo sul piano fisico al massimo si fa l’utile delle persone disagiate, ma non il bene. Alleviare le pene, il dolore fisico e i disagi del prossimo sarà anche opera meritoria, ed è apprezzabile lo sforzo di chi fa così, dimostrando di essere incline a desiderare il bene del prossimo, anche se poi agisce irrazionalmente e non sa realizzare il bene ma solo l’utile; ma purché queste imprese siano accompagnate dalla consapevolezza che se a breve termine non possiamo far altro che portare soccorso, questo non deve esimerci dal lavorare perché si sradichino le cause della povertà e del disagio, correggendo la struttura dei rapporti sociali ed economici nel nostro mondo squilibrato e ingiusto, sicché nessuno abbia più bisogno di soccorso; altrimenti potrebbe venirci il sospetto che soccorrere il prossimo si sia trasformato in un attaccamento, nel mezzo che costoro si sono procurati per ingigantire l’ego. Se infatti le opere missionarie sono svolte da chi poi alimenta in sé stesso un’acquiescenza verso l’assetto della società umana e dunque verso il sistema di idee errate e di valori falsi di cui esso è espressione, e in particolare sono accompagnate da attività di indottrinamento religioso, rivelando di essere così il pretesto che nasconde una smania di dominio che niente ha di caritatevole, bisogna disapprovarle, perché al di là di quel tanto di utile e anche meritorio che fanno, recano però un danno sul piano spirituale, fornendo alla Chiesa, a quell’istituzione marcia che in tutta la storia non ha saputo far altro che far lega coi potenti e legittimarne le pretese e le ingiustizie per condividerne i vantaggi collaborando dunque a creare povertà e disagio, un fiore da mettersi all’occhiello, onde ripulire un poco la propria reputazione e continuare a rappresentare, agli occhi degli ingenui, la buona e materna autorità che ci insegna l’amore del prossimo. E’ come, insomma, fornire a proprie spese una mano di bianco a un sepolcro marcio(7), perché possa più comodamente coprire il proprio marciume.

5.4.Sembrerà forse una cattiveria che io colpisca con i miei rimbrotti quelle tenere suorine che, ignare del tutto della realtà storica e completamente all’oscuro del bene e del male, innamorate di Cristo e pensando così di fargli piacere, si dedicano con tutta l’anima alla cura del prossimo. Esse, per così dire, hanno scelto il modello di Cristianesimo meno malvagio, meno comodo, meno esaltante, più vicino al vero senso della predicazione di Cristo, e si mostrano assai più inclini al  bene, è evidentissimo, di quei vescovi e monsignori maschi che vivono comodi e satolli di onori e privilegi, pavoneggiandosi sugli altari agghindati di porpora e con la mitra sul capo. Ma questa loro riverenza verso una struttura ecclesiastica vistosamente stonata e deviante rispetto al principio chiaro e imperioso dell’amore di sé stessi e del prossimo(8), e questa accettazione succube di un’etica del sacrificio di sé e del proprio bene come unico viatico al paradiso, che sottende la ributtante, blasfema idea di un Dio che si compiace dell’umiliazione altrui, che predilige chi si annulla perché, geloso del proprio valore e della propria sapienza, rifiuta di condividere il bene, per mostrarsi onnipotente e irraggiungibile, è comunque da considerarsi segno di negligenza, e sintomo di una forma spirituale oscura e irrazionale(9). E’ un esempio lampante che conferma quanto dicemmo sopra, che cioè la tendenza al bene, per essere vera bontà, deve farsi intelligenza. Perché costoro, convinte di fare il bene, non lo realizzano affatto, proprio in quanto ignorano che cosa è realmente il bene, e senza rendersene conto si fanno strumenti del male. Credono di servire e compiacere Cristo, e sono invece al servizio di Satana(10).

5.5.Se vogliamo compiere azioni buone e fare realmente il bene del prossimo e non illuderci soltanto, dobbiamo dunque procurarci quella virtù che abbiamo chiamato intelligenza, la quale sola ci fornisce i mezzi per realizzare il bene, solo così la nostra bontà si fa virtù e non va dispersa. I mezzi per realizzare il bene sono, innanzi tutto, quelli che ci forniscono la conoscenza di esso, perché, è ovvio, non si può realizzare una cosa se non si sa che cos’è. Non posso costruire un ponte se non so che cos’è un ponte, non posso disegnare un triangolo se non so che cos’è un triangolo e non posso realizzare il bene se non so che cos’è il bene. Va da sé. Dunque la prima azione buona da compiere è studiare la retta ontologia che ci insegna che l’essere è pensiero e non è una serie di cose fatte di materia extramentale, e che se il bene è l’essere e se l’essere è la coscienza che ha retta visione di sé, ciò che fa essere l’essere, cioè il bene, è la verità mediante cui la coscienza si procura una retta visione di sé e guarisce. Questa è l’unica vera conversione, il punto di partenza di quel processo di trasformazione dell’anima che la rende buona e che nel primitivo Cristianesimo si chiamava metànoia (cambiamento di nous, cioè di idee, appunto) e la cui nozione è stata affossata prontamente dal Cristianesimo romano e sostituita con quella di redenzione per via del misterioso potere del sangue di Cristo; ma il potere di Cristo è misterioso solo per i Cattolici, che vogliono ignorarlo, perché esso è il logos, cioè il pensiero logico, quella sapienza che si ricava dall’applicazione del metodo logico-razionale che ci consente di vedere l’essere e dunque di trovare il bene: questo è l’unico vero potere del Cristo ed è quanto di più chiaro e massimamente conoscibile ci possa essere, ben lungi dall’essere oscuro e misterioso come pensano i superstiziosi fideisti. Cristo è luce, non tenebra.

5.6.Ma, certo, chi ama la tenebra e ciò nondimeno vuol rubare il prestigio che deriva dal nome di Cristo, può chiamare la tenebra Cristo e, impadronitosi del suo nome, tenere lui e la sua verità reclusi in un sepolcro fatto di dogmatismo e di violenza, e servirsene allo scopo di procurarsi il potere. Ecco il problema: qui nel mondo terreno ostacoli formidabili si frappongono tra un’anima e il suo bene, che è la verità: le menzogne. Dunque chi vuole vivere una vita realmente etica, che è quella dedicata a compiere azioni buone, atte cioè a procurarci i mezzi per avvicinarci al bene e alla felicità, dopo essersi procurato una qualche visione retta dell’essere, deve dedicarsi a difenderla dai suoi nemici, cioè deve procurarsi la capacità di confutare le loro menzogne, e così corroborarla e renderla il più possibile ferma e incrollabile. E si sono avvicendati molti sistemi di idee falsi nella nostra cultura, che bisogna conoscere tutti, per quanto possibile, per poterli confutare e disinnescare tutti; essi sono per l’anima pericoloso veleno. Ripeto: non basta ignorarli, bisogna confutarli per renderli inattivi. Non basta cioè intuire, presentire vagamente che l’essere è spirito e che l’anima è immortale e scegliere di avere questa opinione perché ci piace di più, come fanno tanti(11), perché le opinioni ti possono essere sottratte facilmente, e se non diventano verità dimostrate con metodo logico ineccepibile sono indifese come pulcini incustoditi in un pollaio aperto: presto viene la faina e li divora. E quante faine ci sono qua attorno! Il razionalismo e il positivismo, con la temibile arma della psicoanalisi, e la scienza moderna che fa mostra d’aver scoperto le cause dei contenuti della nostra coscienza, dei nostri sentimenti e desideri e perfino dei pensieri, in elementi chimici e sostanze ormonali e che dunque ne offre un modello meccanicistico, sicché se non lottiamo con le armi adatte la nostra convinzione d’esser spirito immortale è costretta a soccombere. Ma anche a voler essere tenaci nella propria convinzione indimostrata di essere spirito e non materia, rifiutando tignosamente di prendere atto dei risultati della scienza moderna, non basta certo, per trovare il bene, un’idea vaga e fumosa dello spirito e della sua natura e delle leggi che ne governano i contenuti, perché il mondo terreno è costellato di trappole. Mettiamo pure di aver superato la tentazione della fede cattolica, e d’aver capito almeno questo, che nel mondo dello spirito è meglio muoversi senza le pastoie di un credo imposto istituzionalmente. Ebbene, davanti alla persona superficiale e accidiosa si spalancano le fauci dell’inferno. No, non esagero. Quando ero curioso ed ingenuo, ne ho viste di tutte: i cercatori di “aure”, per esempio, il cui unico scopo nella vita è di “aprire il terzo occhio”. Questi parlavano di “materia più sottile” e “corpo eterico”, di “corpo astrale” e, appunto di “aura” proponendo semplicemente un meccanicismo perfettamente materialista alternativo a quello dei razionalisti, più affascinante e bizzarro, ma pur sempre dello stesso segno. Tutto ciò deriva dal fatto che il loro sapere è tratto a posteriori dall’esperienza, come quello della scienza materialista, solo che la loro è un’esperienza alternativa, è cioè quella dei “veggenti”, che vedono un altro mondo ma lo intendono sempre come extramentale. I “mondi” sanno essere feroci con le persone poco serie, che non hanno alcun amore per la verità vera ma ne cercano una qualsiasi solo allo scopo di dirsi sapienti e disprezzare il prossimo, soprattutto chi si impegna veramente, con poca spesa. Oppure, un altro esempio, è quello di coloro che parlano di “campi di radiazione” dando una relazione bislaccamente meccanicistica degli “angeli caduti”, demoni cattivi: gli uomini sarebbero “figli di Dio che allontanatisi da lui “assunsero a poco a poco il massimo grado di raddensamento” e la loro malvagità sarebbe causata appunto dalle “radiazioni” emesse dai “campi satanici” e così via, per pagine e pagine astruse, oscurissime (ma gli adepti di questa setta se ne sentono illuminati, convinti probabilmente che se noi non comprendiamo è perché siamo “irradiati”. Vuoi vedere che per guarire l’anima basta andare in giro vestiti di piombo?). Tutte queste preziose informazioni sarebbero frutto della rivelazione del Cristo stesso a una profetessa, cioè un ammasso di ambiguità ricevute da una medium abbindolata da chissà chi(12). E di simili parodie della spiritualità, ignobili e rozze, ce n’è una pletora, che a farne un catalogo si riempirebbero gli scaffali di un’intera biblioteca. Non esagero quindi se dico che un’anima debole, negligente e superficiale corre dei rischi gravi se, invece di impegnarsi a rettificare le proprie idee seriamente e a confutare tutti i falsi saperi, va in cerca a casaccio di conferme alla propria opinione spiritualista, a cui è legata solo dalla pessima abitudine di credere a ciò che più le piace, non a ciò che è dimostrato, perché incapperà inesorabilmente in sette e conventicole che sembrano cerchie di persone spirituali e sono invece trappole infernali.

5.7.Meno male che c’era Platone ad insegnarmi che cos’è la vera iniziazione (Fedro 249c), cioè la visione del vero essere, delle idee dell’intelletto che lo rappresentano rettamente, altrimenti sarei ancora in mezzo a questi oscuri pericoli, a cercare mezzi meccanici per aprire gli chacra o a purificare l’anima stando a dieta, astenendomi dal peccaminoso zucchero, dal burro (chissà perché ai macrobiotici sembrano maligni soprattutto questi due ingredienti) e cercando di trovare l’equilibrio tra gli alimenti yin e quelli yan, col risultato che mentre il corpo aggregato mi deperiva per carenze alimentari, l’anima mi si sarebbe gonfiata di stolido orgoglio, perché costoro, convinti che l’anima si contamini e diventi impura per via di squilibri alimentari e diventi santa grazie alla loro dieta, presumono d’esser superiori moralmente e disprezzano come ignobili peccatori tutti quelli che mangiano normalmente e non si nutrono di miglio e poco altro come canarini (una volta mi sono sentito dare del selvaggio che sfoga i suoi bassi istinti perché stavo addentando un pezzetto di crostata alla marmellata di prugne). Insomma, spero di aver dato un’idea di quanto sia difficile qui su questa Terra anche solo svolgere il primo compito che ci siamo proposti al §5.1, cioè prendersi cura della propria anima e tenerla sgombera dagli errori concettuali che le nascondono la verità e l’ammalano. Qui ci troviamo a lottare contro una falsa immagine di realtà, la realtà fittizia dei corpi aggregati e della causalità meccanicistica che ci nasconde il vero essere e la vera causalità, che è il rapporto tra il pensiero e i suoi contenuti, comprese le immagini che li rappresentano simbolicamente, che sono ancora pensieri e sono i veri corpi. Il nascondimento della vera realtà e i sogni prodotti nella coscienza umana dalla realtà fittizia inducono gli uomini a smarrirsi dietro a sistemi di idee oscuri e valori falsi; li abbiamo classificati in tre generi: la religione, la pseudoscienza e quel complesso variegato di esoterismi oscuri, deviati verso l’irrazionalismo più irrimediabile, quella serie di spiritualismi falliti che potremmo bollare, per comodità, come fenomeni contro o pseudoiniziatici, perché sono il ridicolo scimmiottamento della vera iniziazione. Vi è un tratto comune a tutti questi errori: la fretta. Religione, psicoanalisi, mezzi medianici e irrazionalismi d’ogni tipo sono tutte scorciatoie, da cui l’anima è attirata proprio per via della loro comodità e della rapidità dei risultati che promettono, cioè dal basso costo di essi. Ma tutte le scorciatoie, tutti i mezzi che si propongono come sostitutivi a quelli razionali e opportuni, cioè alla retta conduzione del pensiero mediante il metodo logico-razionale, e promettono di portarti più comodamente alla meta (che non è il paradiso dei Cattolici, la “normalità” degli psicoanalisti o i poteri occulti degli esoteristi, ma la salute dell’anima di cui ci stiamo affaticando a parlare nei nostri testi, e la felicità), sono inefficaci e deleteri, e irretiscono l’anima sempre più nella tenebra. Qualunque mezzo pretenda di sostituirsi alla vera scienza, la retta ontologia e la retta conoscenza dell’anima, del suo bene e del suo male, e promette il bene, o, meglio, un’immagine contraffatta di esso, con poco impegno, in poco tempo e senza alcuna lotta, senza richiedere l’esercizio delle virtù di cui abbiamo parlato sopra, nel libro II, è una truffa, una falsificazione e un imbroglio. Mi dica il Lettore se comprerebbe mai da un venditore qualunque un anello di diamanti per pochi centesimi, quando quel medesimo anello un gioielliere onesto gliel’ha già valutato qualche migliaia di euro. Non gli verrebbe il dubbio che chi gli offre il prezioso anello a un prezzo tanto ridicolmente basso non sia un truffatore che sta per affibbiargli una patacca? e se è accorto nel mondo terreno riguardo alle cose della corporeità aggregata, possibile che non sia capace della stessa accortezza per le cose del vero mondo, quello del pensiero e della coscienza che è il nostro vero essere? Se l’anima si accontenta di soddisfazioni rapide, cioè di patacche, significa che non dà alcun valore a ciò che è prezioso veramente, non sta realmente cercando la verità, ma solo un mezzo comodo per ingigantire sé stessa, per credersi superiore agli altri e poterli disprezzare con poca spesa. Nelle trappole che sembrano scorciatoie, cioè, cascano solo i superbi.

5.8.Il primo nemico che un uomo deve affrontare, infatti, è sé stesso, è quel sé stesso deformato dai concetti errati che provengono dall’identificazione col corpo terreno e che è vittima della svalutazione di sé derivatagli dalla condizione debole e mortale propria dell’uomo: degli effetti devastanti di questo abbiamo già detto ne La cura dell’anima, §§3.3-3.10 e perciò non ci ripeteremo qui, confidando nell’impegno del Lettore, che se li ricorderà oppure andrà a rivederseli più attentamente. Qui rammentiamo solo che la lesione provocata dal sentimento di svalutazione di sé produce negli uomini quel bisogno di colmare la lacuna così prodottasi coll’assegnarsi un valore ingigantito, illegittimo, in mancanza di quello legittimo. E tale tendenza ad ingigantirsi, si ricorderà, l’abbiamo chiamata “superbia”. Credendo che ingigantirsi sia il suo bene, l’anima sentirà come beni i mezzi per soddisfare la propria superbia e ne rimarrà vincolata, produrrà verso di essi attaccamento; e, nella fattispecie, queste che testé abbiamo chiamato scorciatoie prenderanno in trappola il tipo di superbo appena descritto, quello che ha scelto come mezzo per ingigantire il proprio ego un’immagine illusoria di elezione, il quale dunque si sentirà profondamente attratto da queste fumose contraffazioni provando invece totale disinteresse per la verità, che non è un mezzo per ingigantirsi. Anzi, peggio ancora: gli uomini caduti nella superbia, nel gigantismo dell’ego, odiano la verità e la temono, perché essa li smaschera e minaccia di togliere loro la loro fonte di soddisfazione, che è la menzogna sul loro valore. Ecco dunque l’ostacolo più formidabile che ci impedisce di mettere in atto il nostro secondo proposito, quello di condividere il bene, la verità, con tutti gli altri uomini e realizzare appieno la nostra aspirazione di una vita etica. Avevamo già enunciato il problema, lo si ricorderà, ne La cura dell’anima, §5.3; lo incontriamo di nuovo qui, e non è un caso, visto che come già dicemmo, etica e cura dell’anima sono praticamente la stessa cosa, perché l’unica vita veramente etica è quella dedicata a curare l’anima, la propria e l’altrui, dal male, che è ignoranza e stoltezza, cioè inclinazione verso falsi saperi, e i difetti della forma spirituale che ne conseguono.

5.9.La tendenza a cercare scorciatoie, cioè a pretendere di arrivare a un fine senza mettere in atto i mezzi efficaci per ottenerlo, si chiama ACCIDIA. E’ un vizio, ed è il contrario dell’intelligenza, che è bontà, cioè tendenza a desiderare il bene, la verità, capace di trovare i mezzi per soddisfarsi, come già dicemmo supra, §§2.6-2.7 e §3.1. In effetti l’accidia può anche chiamarsi “stupidità”, cioè debolezza di mente, mancanza di intelligenza o anche di onestà concettuale. Non è vero dunque che i malvagi sono intelligenti e che la malvagità deriva da un eccessivo impiego della ragione, come a volte assurdamente si dice(13): i malvagi, i superbi, sono stupidi, perché sprecano fatica per fare il loro male. Noi però non siamo accidiosi, ma intelligenti, o almeno ci picchiamo di esserlo, e dunque, quando ci proponiamo di condividere il bene, la verità, col nostro prossimo e di realizzare il bene in tutti gli esseri e quindi la giustizia, non vogliamo illuderci soltanto di farlo, e non abbiamo fretta, non cerchiamo mezzi accidiosi, che ci diano soddisfazione subito con poca spesa ma realizzino solo l’immagine fasulla, contraffatta di giustizia. Noi non cerchiamo di far calare subito il regno di Cristo sulla terra tirando per le maniche il potere politico (cosa che accadde tra l’epoca di Costantino e Teodosio e quella di Giustiniano) e convincendolo a imporre ai suoi sudditi il Cristianesimo sicché tutti siano obbligati a onorare e riverire il nome di Cristo con riti e preghiere e a dirsi tutti quanti cristiani, salvo affossarne completamente le vere dottrine, come se bastasse imporre un nome diverso alle cose perché esse si trasformino e dunque chiamare col nome di cristiani una massa di idolatri superstiziosi perché essi diventino eletti, noi vogliamo realizzare realmente la giustizia, ma con i mezzi opportuni, non per finta, e cioè trovando il modo di convincere le anime ad accettare la verità e ad amarla. E c’è solo un modo di far accettare a un’anima la verità: dimostrargliela logicamente, e cioè applicando in modo ineccepibile il metodo logico-razionale. I teoremi di geometria non hanno bisogno del braccio secolare, della Santa Inquisizione e delle minacce di scomunica per farsi professare dagli studenti di matematica; basta che questi ne capiscano la dimostrazione. Ma, dicevamo, c’è un ostacolo formidabile. Le anime non vogliono capire, non accettano la verità, non la desiderano, e anche se gliela dimostri o fanno finta di non capire o non ti ascoltano o ti azzannano. E qui ci troviamo in estrema difficoltà, imprigionati in un circolo vizioso: se è il possesso della verità che rende l’anima incline al bene, cioè buona ed è solo l’anima che ha bontà, cioè desiderio di bene, a desiderare la verità, che è il bene, un’anima che non ha la verità e dunque non è buona, come desidererà la verità? E se non la desidera non l’accetta, continuerà a negarla… A quanto sembra, ci siamo incrodati su un picco impervio.

5.10.Forse siamo stati troppo ottimisti, quando abbiamo espresso la volontà di condividere il bene: che sia un’impresa impossibile? Non ci sono riusciti Socrate e Platone, non c’è riuscito nemmeno Cristo, e noi? come faremo noi? non siamo degli illusi? se tende al bene vero solo chi già conosce la verità e sa che cosa è realmente l’essere, mentre tende solo ai falsi beni e rifiuta la verità chi ignora l’essere e dunque è malvagio, come guarirà l’anima malvagia? come rettificherà la sua forma errata, come recupererà il suo retto valore, comprendendo di essere l’essere, e dunque il bene e dunque amandosi, sradicando così il bisogno di ingigantirsi che devia tutti i suoi desideri verso gli idoli e li trasforma in attaccamenti? Significa che un’anima che si sia ammalata una volta perdendo la retta cognizione dell’essere per essersi identificata col corpo terreno risulta poi inguaribile, che sarà ingiusta per sempre e che il suo inferno sarà eterno? Significa che il nostro mondo senza male, lo stato di giustizia non si realizzerà mai? Mah. Un momento, prima di cadere nella disperazione: stiamo calmi e ragioniamo. Io, per esempio, ne sono uscito. Ero ammalato come gli altri, identificato col corpo aggregato come gli altri, totalmente privo di virtù come gli altri; ma a un certo punto è successo qualcosa… Quindi una via d’uscita, una breccia, c’è e se ci sono passato io, ci sapranno passare anche tutti gli altri, una volta che l’abbiano trovata. Ma è questo il problema: la troveranno? e come?


NOTE AL LIBRO V.

 

Nota 1: cfr. La cura dell’anima, §1.5 e §2.1.

 

Nota 2: cfr. supra, §1.1.

 

Nota 3: rammento qui ciò che abbiamo già detto altrove, ma forse troppo di sfuggita: intendiamo per fruizione del bene la percezione della presenza stabile e infinita del bene, nostro e di tutte le altre anime; il suo contrario è la percezione della presenza di un male, che come si ricorderà, abbiamo chiamato sofferenza o dolore. Bisogna aggiungere che se uno percepisce il male razionalmente, significa che ha in sé la retta idea di bene e di male e che dunque nella sua anima non c’è alcun male; quindi la sofferenza razionale si prova solo per un male altrui, cioè se gli altri dimostrano di avere dei vizi nella propria anima. E anche quando qualcuno commette una colpa verso di noi, nessun male è presente nella nostra anima, perché qualunque torto subiamo, la nostra anima non subisce danno, non peggiora, non ne viene ammalata, visto che nient’altro è un male se non l’ignoranza, la stoltezza e i vizi che ne derivano e che sono la malattia dell’anima (come già dicemmo, la sofferenza razionale è un bene e non un male, è male la colpa che la provoca, ma la percezione del male è un bene). In quest’ultimo caso infatti soffriamo per la percezione di un male che è nell’anima di chi ci colpisce, cioè la sua mancanza di amore e giustizia, non perché a noi abbia fatto del male, ci ha fatto un torto ma non del male. Ci fa del male veramente solo chi riesce a introdurre nella nostra anima concezioni errate, convincendoci a scambiare l’errore per la verità, ma allora questo male non viene percepito razionalmente perché l’anima è obnubilata dagli errori e dunque, giudicando beni quelli che non lo sono, non ne soffre, ma anzi, a volte se ne esalta. L’entusiasmo e l’esaltazione per i falsi beni, che invece sono mali, e che dunque costituiscono una copia ingannevole della felicità, come quei sentimenti zuccherosi che caratterizzano le persone religiose o i moti di esaltazione dei fanatici, che nel mondo alla rovescia passano per mistici, che sono tutti sentimenti irrazionali, noi nel nostro codice simbolico li chiamiamo “ubriachezza”. Attenzione dunque al simbolo della vigna, che produce vino e quindi, appunto, ubriachezza. Ma del simbolismo parleremo in opere apposite, perché è un discorso complesso ed importante; qui basti solo notare come chi riceva realmente il male, cioè guasti nella propria anima, non se ne accorge e  non ne soffre, non lo percepisce correttamente, perché altrimenti non lascerebbe che si introduca nella propria anima, e invece chi si addolora quando vede il male ne è incolume; chi gioisce non necessariamente ha trovato il bene, mentre la felicità o è un sentimento razionale e infinitamente duraturo o non è tale, cioè definiamo felicità non qualsiasi sentimento di gioia, allegria, piacere, che sia la percezione contingente di qualcosa che crediamo bene ma può anche non esserlo, oppure è un bene ma provvisorio e non definitivo, come uno dei beni, cioè dei mezzi che ci avvicinano al bene, ma la fruizione eterna del vero bene, la verità e la giustizia, e dunque è un sentimento che causato da qualcosa di eterno e non contingente, diventa eterno.

 

Nota 4: cfr. supra, §3.2 in fondo e §3.4, e vedi anche la nota precedente. Aggiungo ancora una cosa sulla sofferenza: vorrei riservare i termini “sofferenza” e “dolore” solo al sentimento razionale, alla retta percezione di un male, perché, almeno alle mie orecchie, queste parole hanno un senso elevato, danno un’impressione di nobiltà, e penso che sia un abuso impiegarle (come ho fatto anch’io in precedenza al §3.5 di questo scritto forzandomi a seguire il linguaggio comune) per quei sentimenti negativi che essendo irrazionali sono colpe e non sono nobili affatto. Si può usare per questi ultimi la parola “scontentezza”, “dispiacere”, “insoddisfazione”, “tormento”, “fastidio”, ma lasciamo al sacro sentimento dei giusti che soffrono per il male i termini “dolore” e “sofferenza”. Così, come detto anche sopra, alla nota precedente, usiamo il termine “felicità” solo per il sentimento che provano i giusti di fronte alla realizzazione del bene eterno e “gioia”, parola più generica, anche per il sentimento razionale che proviene dalla percezione di un bene contingente, ma non abusiamo di queste parole chiamando felicità la condizione di prosperità terrena, benessere e prole cospicua, cioè la soddisfazione per dei falsi beni. Una volta si usava rivolgere alle spose una frase fatta, asserendo nel giorno del loro matrimonio che così avevano “trovato la loro felicità”: è proprio il mondo alla rovescia.

 

Nota 5: la scienza per essere tale deve conoscere il proprio oggetto e saperlo realizzare, altrimenti abusa di tale termine. Ad esempio, la medicina deve sapere che cos’è la salute e saperla realizzare, altrimenti non è medicina; va da sé che le scienze materialiste non sono vere scienze, perché non sanno che cos’è l’essere e non lo sanno realizzare. Produrre tecnologia è solo usare finte cause meccanicistiche, che, come dicemmo ne Il fondamento della ricerca, §§4.2 e 4.6-4.9, sono tutte simulazioni e non è vera causalità, né è vero essere il corpo aggregato su cui agiscono.

 

Nota 6: tutto ciò che avviene solo sul piano fisico non è reale, non è quello che sembra e non influisce minimamente sul vero essere delle persone. Per questo distinguiamo l’utile, che è ciò che aiuta il corpo aggregato a conservarsi, dal bene, che è ciò che mantiene l’anima nell’essere, che è la conoscenza di sé. Chi si contenta della copia contraffatta non ama la verità…

 

Nota 7: cfr Mt.23,27.

 

Nota 8: è importante ricordare che l’insegnamento di Gesù era così formulato: “Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt.22,39)”. Non sta dicendo di sacrificare te stesso per il prossimo, rinunciare al tuo bene per fare la carità al prossimo; sta dicendo che tutte le coscienze dell’essere, tu e il tuo prossimo, sono il bene e che dunque vanno amate. Infatti chi non ama sé stesso non può amare il suo prossimo, come abbiamo dimostrato ne La cura dell’anima, §§3.3-3.9; chi non ama sé stesso non ha capito che cos’è l’essere, non sa che l’essere è il bene e dunque non può amarlo, non amerà nemmeno gli altri atti di coscienza dell’essere, oltre al proprio e, smarrito nel mondo della simulazione, privo del retto valore, si ammalerà per questa svalutazione cercando di riparare la lesione con l’attribuirsi un valore fittizio, diventando superbo e alimentando tutti i vizi dell’anima. Per questo Gesù raccomanda prima di amare l’essere (Mt.22,37) e dopo specifica che amare l’essere significa amare sé stessi e tutti gli altri; ed è sempre per questo motivo che egli dice che i due comandamenti, ama Dio e ama il tuo prossimo come te stesso, sono simili (Mt.22,39), perché amare Dio significa amare tutte le coscienze elette, che sono l’essere, cioè sono Dio; amare il prossimo, che è il secondo comandamento, significa amare anche le anime in via, che hanno ancora bisogno di trovare il bene e che sono anch’esse l’essere, ma ancora in maniera imperfetta. Se intendesse dire un Dio separato dalle coscienze, un Sommo Bene assolutamente trascendente, che poi come sostengono assurdamente i Cattolici è anche un essere individuale (ma tre, altra contraddizione), i due comandamenti non potrebbero dirsi simili, ma sarebbero ben distinti, perché amare questo Dio sommo assolutamente trascendente e creatore sarebbe cosa completamente diversa dall’amare le sue “creature”. Invece egli avvisa che i due comandamenti, ama Dio e ama il tuo prossimo come te stesso, sono simili, e, anzi, ritengo che Gesù significasse che i due comandamenti sono addirittura uguali, che sono lo stesso comandamento, perché il testo greco dice: deutéra dè homoìa auté,(“il secondo è uguale al primo”: la parola homoios, in greco significa anche “uguale, identico” oltre che “simile”), intendendo dire che amare Dio è la stessa cosa che amare tutte le coscienze dell’essere.

 

Nota 9: lo so che sembrerò cattivo dicendo così, è destino degli eletti (su questo termine vedi ultra, nota 2 e nota 3 al libro VI) far la figura dei cattivi insensibili agli occhi degli irrazionali e questo perché con la luce della ragione dissipiamo le nebbie di quei sentimenti irrazionali, quei sentimentalismi zuccherosi e stucchevoli che invece i Cattolici scambiano per bontà e a cui sono tanto affezionati, ma confido nell’intelligenza del Lettore e spero che mi comprenda, e perciò vado fino in fondo: la maggior parte di questi missionari e missionarie, innamorati di Cristo, ma di lui in persona, non della verità di cui poteva esser portatore se non frainteso, ricordando quel versetto del Vangelo (Mt.25,35 e sgg.) il quale insegna che curare le persone deboli e bisognose è come curare lui, usano la cura del prossimo per piacere a Cristo, cioè usano il prossimo come un mezzo per lustrarsi ai suoi occhi, perché vogliono piacergli; agiscono cioè come quelle innamorate che vogliono farsi belle agli occhi dell’amato e dunque esibiscono una carità non sincera, ma solo strumentale. Usare il prossimo come un mezzo per arrivare al proprio scopo non è amarlo… Ovviamente tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione va, invece, a quelle persone di cultura laica, atei o agnostici che siano, che si dedicano ad aiutare coloro che soffrono nel terzo mondo o là dove si sono scatenate guerre sanguinose, ma che lo fanno non per piacere a Dio o immaginarsi d’essere la sposa di Cristo, lo fanno perché provano pietà per chi soffre e compassione vera. Essi mostrano di essere predisposti al vero amore, anche se poi agendo nel mondo terreno e non nell’anima, ottengono per il prossimo non il bene, ma fanno il suo utile, alleviando le sue sofferenze fisiche e aiutandolo nella vita terrena. Ma è già molto, e levare un uomo dalla sofferenza fisica e dal disagio terreno è un’azione giusta, perché all’anima non spetta di subire le conseguenze della sua identificazione col corpo terreno e soffrire le pene che vengono da esso, le spetterebbe invece salute e sicurezza nel vero mondo, e la felicità.

 

Nota 10: non si allarmi il Lettore razionale o razionalista se ci serviamo del termine tradizionale che i Cattolici hanno scambiato per il nome del “diavolo”. Ovviamente, il diavolo non esiste, così come non esiste un Dio sommo, creatore del cielo e della terra etc. Satana è uno dei nomi tradizionali delle forze che governano il mondo terreno, che creano la simulazione e ci imbrogliano nel male, quelle di cui ho parlato (non esaustivamente…) ne Il fondamento della ricerca, §§4.3-4.5; io le chiamo più sobriamente Natura o anche Elohim, che è il nome biblico del dio (ma il nome è un plurale collettivo) che aggrega materia e fa l’uomo (cioè intrappola le anime in corpi umani) ed è dunque la stessa cosa che Satana, essendo la causa del male. Abbiamo dimostrato la loro attività con metodo razionale (ivi, libro IV), ma, come si ricorderà, abbiamo omesso di chiarire qual è il loro vero scopo, limitandoci a osservare gli effetti della loro opera. Man mano che progrediremo nella conoscenza dell’anima e del suo male, della giustizia e cioè della realizzazione del bene in ogni anima, e dopo aver preso coscienza degli ostacoli che ci separano da essa, si comincerà a prospettare la soluzione del mistero, cioè si saranno messe le basi per capire perché questa mortifera simulazione e che fine ha la storia umana.

 

Nota 11: in molte anime prive della necessaria consapevolezza è presente un difetto mentale molto grave: la tendenza a ritenere vero senz’altro ciò che più a loro piace, e cioè, in genere, ciò che a loro serve di più o per soddisfare la smania di ingigantire il proprio ego, o allo scopo di rassicurarsi in qualche modo, cioè evitare di prendere atto dai possibili esiti del loro modo di essere e dei loro errori; come dire che chi non cerca realmente la verità ma ha uno scopo diverso, in genere, si autoinganna accettando credenze e convinzioni indimostrate. Qualche anno fa, parlando con una persona cattolica osservante (salvo che poi stranamente professava tesi sulla reiezione e sulla nullità dell’uomo senza la grazia divina che meglio starebbero in bocca a un protestante; la coerenza non è di questo mondo, evidentemente), e prospettandole la tesi di una giustizia divina ricavabile razionalmente per deduzione, mi sentii rispondere: “non mi piace questo Dio così rigoroso e intransigente, a me piace un Dio che sia indulgente e misericordioso…” Quando le feci notare che su ciò che è divino bisogna dire la verità e non inventarsi quello che ci piace e ci fa comodo, interruppe bruscamente il dialogo con me, salvo poi, dopo qualche giorno, mettere in atto una manovra predatoria per sedurmi: mi fece capire che voleva stare con me, invitandomi a una cena romantica te^te-à-te^te, proprio nello stesso momento in cui mi aveva comunicato di aver trovato una casa a un povero gatto abbandonato che mi stava particolarmente a cuore (per una vicenda disgraziata che gli stava alle spalle, povera bestiola, e che racconterò altrove, perché importante per capire come funzionano le cose in questo mondo), sicché secondo lei per amore del gatto non avrei mai potuto dirle di no e mi sarei trovato “incastrato”. La sua manovra tendeva a “normalizzarmi”, cioè a negare di prepotenza la mia vera identità di anima distaccata dai desideri animaleschi e rivolta al vero mondo, quello dello spirito, e a obbligarmi a essere un uomo “normale”, come tutti gli altri in cerca di un rapporto di coppia e di soddisfazioni sessuali. Fu terribile: quando, con una freddezza che non pensavo di poter esprimere, le dissi che rifiutavo le sue profferte, mi sentii l’anima lacerata, per quel povero gatto. Ma andò bene così, perché venni a sapere che non gli aveva affatto procurato una casa come mi aveva detto, quella carogna, bensì la sua intenzione era inserire il mio povero micio malandato e perseguitato (che storia fu la sua!) in una delle tante colonie di gatti seminomadi che ci sono in giro, il che era come dire abbandonarlo. Si capisce che a persone che si comportano così, con prepotenza e distruttività, egoismo e insensibilità totale, serva un Dio che perdona tutto e che quindi fervano di fede per il Dio cattolico, così indulgente verso chi lo adula con riti e preghiere.

 

Nota 12: non è difficile capire chi è questo “chissà chi”, sono quelle intelligenze che ingannano l’uomo costruendo il mondo della simulazione, quelle che reggono il “nostro” sistema nervoso e che abbiamo chiamato Natura (cfr. supra, nota 10 al presente libro). Esse sono feroci (altro che misericordia divina) verso gli inetti irrazionali, negligenti e accidiosi ma che vogliono, per ambizione di potere, procurarsi una verità che con poca spesa soddisfi la loro smania di esaltazione. Se rifiuti il sapere logico-razionale perché condivisibile, ma vuoi una verità oscura, misteriosa, incomprensibile per far mostra d’essere l’unico a capirla, tu e una conventicola di pochi adepti con la testa montata che vogliono credersi depositari di una particolare elezione, Satana (e va bene, chiamiamolo così, ma ricordiamoci che sono una gerarchia di intelligenze preposte alla creazione del mondo terreno, che è una simulazione, e che non esiste il diavolo dei Cattolici) ha buon gioco nell’abbindolarti dandoti proprio quello che cerchi; tu abbocchi e… Sulle operazioni della Natura e sulle sue funzioni “sataniche” si dirà diffusamente in altro luogo. Per ora il Lettore si convinca, ragionando con molta attenzione, che chi cerca “scorciatoie” (vedi oltre nel testo su questo argomento) sostitutive alla retta conduzione del pensiero per procurarsi la salute, cade nel sacco di “Satana”, cioè viene abbindolato e fuorviato da queste intelligenze astutissime che ci conoscono fin dentro ai nostri pensieri e, conoscendo meglio di noi i nostri attaccamenti, con essi sanno manipolarci, prenderci all’amo, ingannarci e ammalare la nostra anima sempre di più. I negligenti, i disattenti, gli accidiosi e insomma chi non ama la verità ma ha altri scopi che trovarla, cadono nelle numerose trappole di cui è costellato questo pericoloso mondo della simulazione, dove tutto sembra quello che non è e non è quello che sembra. Io vi ho avvisato.

 

Nota 13: la vera bontà, che è anche intelligenza, passa invece per cattiveria (è il mondo alla rovescia, già lo dicemmo) proprio perché smonta impietosamente tutte le false immagini di bontà che ingannano gli accidiosi che si contentano di sentimenti stucchevoli, artificiali e fasulli invece di cercare la vera bontà, il vero amore. Già ne abbiamo dato un esempio, supra, §5.4 (vedi specialmente la nota 9 al presente libro). Per questo spesso si sente dire che la malvagità è prodotto da un eccessivo impiego della ragione, da parte di coloro che esaltano il sentimentalismo e temono di essere smascherati, appunto, da chi ragiona. Essi poi hanno buon gioco nel corroborare la loro tesi portando per esempio gli scienziati  che mettono le loro scoperte al servizio della guerra progettando armi micidiali, parlano di Hitler come di un genio del male, per esempio, e per loro tutti gli scienziati sono un po’ in odore di nazismo, soprattutto se si occupano di eugenetica o di ricerca sulle cellule embrionali o di fecondazione in vitro. Ma questo non è un argomento che ci tocchi, perché nella nostra visuale la scienza materialista non è vera scienza, né la capacità di collezionare una serie di nessi causali credendoli veri solo perché fanno funzionare una tecnologia è vera razionalità, poiché, come già dicemmo nel nostro scritto dedicato all’ontologia, quelle che sembrano cause meccaniche non sono realmente tali ma solo complicate simulazioni, e quelli che si credono scienziati solo perché sanno far seguire un certo effetto desiderato a una causa che riescono a controllare, senza essersi mai chiesti che cos’è la realtà veramente, e che validità abbia la sensazione e se realmente una scienza possa fondarsi sull’esperienza sensibile e che necessità vi sia nei loro legami causali, sono in realtà come scimmie nella stanza dei bottoni, che sanno come arrivare alla banana perché si ricordano qual è il bottone giusto da premere per farla comparire, ma non sanno poi dire da dove viene la banana e in che modo compare. La loro anima non è realmente razionale, essi abusano di tale termine, spacciando per ragione quello che non è affatto tale e se capitasse poi (come nelle fantasie dei fideisti misologi) che qualcuno di loro si trasformi in mostro freddo e cattivo, e che si presti a macchinare qualcosa ai danni dell’umanità al servizio di un potere politico perverso, come è già successo ai tempi del nazismo, non sarebbe perché questi sono razionali, ma proprio perché non lo sono affatto, confermando la nostra tesi che per essere buoni occorre la vera intelligenza e la retta scienza, mentre la stoltezza che è falsa scienza porta al male. Quanto a Hitler… macché genio: basta leggere qualche pagina della sua opera teorica “Mein Kampf” per capire quanto poco ragione e intelligenza abitassero quella coscienza; il suo pensiero altro non è che una farraginosa serie di pregiudizi oscuri e mal digesti, e affonda le sue radici in un humus sottoculturale dove proprio per il mancato impiego della ragione si sono stratificati i peggiori errori concettuali che hanno caratterizzato la barbarie europea dai suoi primordi. Che poi sia arrivato qualcuno, uomini come un de Gobineau o un H.S.Chamberlain, che abbia tentato di dar forma moderna a questi errori e pregiudizi antichissimi, riversandoli in un sistema pseudoscientifico e chiamandolo “razzismo”, questo non significa affatto, come si usa dire in ambienti clericali, dove si è soliti accollare la responsabilità di tutti i mali alla ragione e alla scienza, che il razzismo è stato prodotto dalla scienza moderna, e che l’impiego della ragione rende l’uomo cattivo e incapace di sentimenti, ma è piuttosto segno di una vicenda storica, quella di un sistema di idee arretrato e barbarico che, sentitosi perso di fronte ai nuovi lumi del pensiero moderno, reagisce riplasmandosi, dandosi una nuova veste, e tentando di accreditarsi falsamente come scienza, scimmiottando cioè il modello e la terminologia razionali, ma in maniera farneticante, onde potersi conservare. Che razzismo e nazismo siano il riaffiorare di concezioni barbariche superstiziose, nate in seno alle religioni antiche e non alla scienza moderna, proprio quelle che il Cristianesimo aveva promesso di sradicare, fallendo poi invece nel proprio compito, perché guasto dalle irrazionali dottrine romane e da incrostazioni germaniche è diventato inefficace per l’educazione e la salvezza dell’uomo europeo, e perché il suo clero che all’uopo doveva impegnarsi invece si è affaccendato in tutt’altro, e che insomma il razzismo, la comparsa di Hitler nella storia e il suo successo siano un vistosissimo sintomo di fallimento del Cristianesimo, e non una conseguenza della secolarizzazione, della scienza e dell’impiego della ragione, ci proponiamo di dimostrarlo in uno scritto apposito.


LIBRO VI.

 

 

 

 

 

IL CRUCCIO E LA SPERANZA DI AGIS. REALIZZABILITA’ DEL BENE.

 


LIBRO VI.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Ancora l’enunciazione della domanda chiave: se uno non sa che cos’è il bene non lo desidera, e se non lo desidera non può procurarselo. Ma dunque chi già non possiede il bene non può procurarselo? L’esperienza sembra confermare questa tesi. Il cruccio di Agis(6.1).

 

Polemica coi Cattolici sul concetto di speranza(6.2). La speranza di Agis, quesito sulle possibilità di realizzazione(6.2).

 

Si mette in dubbio l’asserzione dell’impossibilità che un’anima priva del bene se lo procuri, con un’argomentazione a fortiori.  C’è almeno un caso che contraddice la tesi di cui sopra: io(6.3).

 

La teoria va corretta, raffinando la terminologia(6.4). Tutti gli esseri sono buoni e hanno già il bene in sé stessi, devono solo liberarlo da ciò che lo nasconde(6.4-6.6). Polemica contro il criptomanicheismo dei Cattolici e contro ogni determinismo in genere(6.5).

 

Un tentativo di soluzione, ma sbagliato; liberiamoci da un luogo comune: non basta invecchiare e morire per diventare saggi(6.7-6.9).

 

Ricapitolazione del problema: a che punto siamo? Riformulazione del quesito(6.10). Un nuovo quesito: forse ci sono due vie, che può percorrere l’anima per rettificarsi, non una sola(6.10-6.11). La prima via è lunga ed è fuori dalla nostra portata una qualsiasi azione efficace sulle anime che la percorrono, unico comportamento sensato è non intervenire(6.11-6.12). Reprimere i desideri irrazionali è un errore peggiore del male(6.11); polemica con i Cattolici(6.12). L’anima è immortale e dunque è inutile metterle fretta(6.13).

 

Il povero Agis torna al suo cruccio(6.13), ma non dispera, perché pensa che potrebbe esserci una piccola minoranza di persone che, come lui, vogliano intraprendere la via più diretta, quella della confutazione logica degli inganni del mondo(6.14). Racconto fenomenologico di come Agis ha trovato l’impulso verso la verità e la forza di lottare per essa(6.15-6.17). Note metodologiche(6.17).


6.1.Abbiamo dunque tratto le seguenti conclusioni, nel precedente libro di questo scritto: l’unica azione giusta che possa compiere un uomo su questa Terra è tenersi sgombero dagli errori concettuali che ammalano l’anima e la rendono propensa al male e all’ingiustizia, e trovare la verità difendendola dagli assalti dei numerosi nemici che ci assediano da ogni parte tentando di sottrarcela. Cioè, le vere buone azioni di una vita etica sono le riflessioni e gli studi mediante cui possiamo confutare il falso sapere che ci propina il mondo, che è stoltezza e follia. Già ce ne sarebbe per un’esistenza intera. Ma una seconda serie di azioni avevamo auspicato di poter compiere, nel precedente libro, definendole giuste: quelle rivolte a condividere il bene, cioè a comunicare la verità sull’essere al nostro prossimo e aiutarlo a trovare la via verso una forma sana dello spirito. A questo punto ci siamo imbattuti, però, in una difficoltà logica: se uno non possiede già la verità, che è il bene, non ha la bontà, non è buono e dunque non inclinerà al bene e se non tende a desiderare il bene non lo accetta, cioè non accetta la verità, e se non l’accetta non può rettificare la forma spirituale vedendo il vero bene e guarire… Come si fa a convincere un superbo che il bene è la verità e non l’ingigantire sé stesso e la sua importanza? come si fa a superare la barriera dell’invidia, della gelosia, della distruttività, dell’egoismo di questi mostri bipedi che infestano il mondo e si credono umani e normali? come si può far loro capire che la normalità, l’umanità, la salute è qualcosa di ben diverso da come pensano loro? Il povero Agis nella sua vita ha tentato molte volte di comunicare con quelle persone che gli sembravano più inclini alla ricerca e più aperte, ma ne ha ricavato solo insulti, scherno e antipatia, mai una volta in quattordici anni di tentativi, che qualcuno lo abbia ascoltato e abbia accettato di comunicare, scambiando sapere, con lui. La mia esperienza sembra confermare quanto detto sopra, che chi è malvagio non si schioda da lì e lì rimane. Ma, a ogni fallimento, dicevo a me stesso: “certo, questa persona non può accettare la verità, non ascolta, è impegolata in altri scopi, è superba e non accetta rapporti con chi non possa disprezzare, dominare, sottomettere ed è incapace di comunicare su basi di parità, sicché appena ha visto che io mostro una certa competenza su quello che lui non sa, invece di sentirsene attirato e incuriosito come chi ama il sapere, se ne è indispettito e, da buon presuntuoso, ha girato i tacchi e se n’è andato altrove, e adesso rifiuta di frequentarmi, non senza aver provato a screditarmi o ad accusarmi o a schernirmi, negando in qualche modo o la mia competenza o il valore della filosofia di cui sono il portatore. Certo, costui (o costei) era la persona sbagliata; ma questo non dimostra che tutta l’umanità sia così, perché sono sette miliardi, all’incirca, gli uomini che vivono sulla Terra e io ho parlato solo con una manciata di essi, non posso generalizzare. E’ soltanto che povero e solo come sono riesco ad arrivare a poche persone, e mi capitano sempre quelle sbagliate”. Ma più passava il tempo, più si moltiplicavano i fallimenti a cui andavo incontro e più le speranze di trovare qualcuno che volesse condividere il bene con me e diventare mio amico (e magari collaborare con le mie ricerche, arricchendo il nostro repertorio di conoscenze con studi suoi personali e occupandosi di ciò che io, per le mie limitate forze, sono costretto a omettere di indagare) si sono affievolite, fino a che non ho rinunciato del tutto a mi sono rassegnato alla solitudine. Questo non significa che ritengo inguaribili le anime dei miei simili, ma solo che finora io, senza mezzi e senza l’aiuto di nessuno, non sono stato capace di fare nulla di buono, in questo senso. E’ il mio cruccio. E il Lettore si fermi un momento a pensare, per favore, quanto la solitudine in mezzo al mondo possa pesare a un uomo come me, il cui unico desiderio e il cui unico scopo nella vita sarebbe condividere il bene con tutti i suoi simili, e che vorrebbe vivere in una società di fratelli e sorelle, dove i rapporti fossero paritari, dove ci si accompagnasse uno con l’altro verso il bene, amandosi reciprocamente e ritenendosi eguali. Con tanti superbi che vorrebbero essere unici e irripetibili, e che inclinano a tener discosto il prossimo da sé e a dirsi inarrivabili, lottando per negare la propria normalità umana e abbassare gli altri svilendoli e disprezzandoli, proprio io sono solo, proprio a me, che vorrei solo essere un pari fra pari insieme a tutti, che vorrei tanto far parte di una normalità (purché sia tale, però, non che si chiami normalità una condizione mostruosa e bestiale!) insieme a tutti gli esseri normali (quelli che seguono la retta norma, cioè, nel mio linguaggio, che è come dire i sapienti, gli eletti), e che insomma non cerco un modo per esaltarmi e ingigantirmi, ma solo amore, amore vero, che è quel profondo affetto che lega gli esseri fra loro quando essi desiderano il bene gli uni degli altri, proprio a me tocca di essere un unico e isolato competente di ontologia e conoscitore dei misteri. E ben lungi dall’esaltarmi per questo, sto soffrendo come un cane abbandonato. Ah, povero Agis! Ma non voglio essere troppo lagnoso, o il Lettore si stancherà di me: torniamo all’argomento principale. C’è speranza che l’anima storpia e ingiusta torni alla bellezza divina, alla forma sana ed eletta? Come dire: c’è speranza che lo spasmodico desiderio di Agis di avere dei fratelli sia appagato?

6.2.I Cattolici dicono che la speranza è una virtù. Macché virtù. Essa non ricade sotto la nostra definizione di virtù come tendenza a un desiderio razionale che sappia trovare i mezzi per realizzarsi (cfr. supra, §2.6): la speranza è un sentimento rivolto al futuro, cioè un sentimento positivo dovuto al fatto che riteniamo probabile in futuro l’appagamento di un nostro desiderio. Se il desiderio è razionale, perché il bene desiderato è razionalmente giudicato tale, la speranza è razionale e dunque è un bene, se invece il desiderio è irrazionale, è cioè il desiderio di un falso bene, la speranza è irrazionale ed è dunque un male(1). Ed è sciocco indursi forzatamente a sperare in qualcosa che non si sa dimostrato solo per far vedere che si ha fede: anche questa fiducia infondata è un atto di piaggeria, e se speri in qualcosa senza verificarne la realizzabilità e quali siano le condizioni di essa sei uno sciocco illuso e inconcludente, non una persona buona e virtuosa, cioè capace di realizzare il bene. Ora, invece, se la speranza è razionale, cioè se il bene che riteniamo verosimile si realizzi in futuro è veramente tale e non un falso bene, bisogna anche capire se è fondata oppure no, se è realistica o irrealistica, fantasiosa e dunque inutile, non crederci per forza. Perché poi bisognerà anche capire se il desiderio che speriamo si realizzi ci pioverà sul capo, cioè si verificherà senza il nostro intervento per forze esterne a noi e cause che lo facciano essere indipendentemente da noi, oppure se la speranza è fondata, sì, ma spetta a noi realizzarla, cioè se dobbiamo adoperare la nostra virtù perché il nostro desiderio, la cui realizzazione speriamo, si tramuti in realtà. Dunque il quesito con cui avevamo concluso il libro V del presente scritto e che qui abbiamo testé riformulato: è possibile che gli uomini recuperino la forma eletta e sana? coincide con quest’altro: le speranze di Agis sono realizzabili? e qual è il mezzo per realizzarle? è un mezzo che uno come Agis, che spera di poter compiere azioni giuste verso il prossimo e cioè di riuscire a condividere con lui il bene, può mettere in atto o è qualcosa, invece, che non dipende da lui? Vorrei proprio saperlo, perché in quest’ultimo caso, cioè che le mie speranze si realizzino indipendentemente da me, oppure in quell’altro, che siano irrealizzabili, vorrebbe dire che la mia vita, questo penoso e faticoso viaggio qui sulla Terra, non ha nessuno scopo e che me ne posso tornare a casa, finalmente, nel mondo vero dei corpi semplici ed eterni, prodotti dall’atto consapevole della coscienza che riveste di immagini i propri contenuti servendosi del linguaggio luminoso e poetico dei simboli. Là c’è la mia casa, e Dio sa se ne ho infinita nostalgia; potrei mettere fine alla mia solitudine e ai miei sospiri, se quell’unico filo che mi tiene ancora legato al mondo terreno, a questo viaggio scomodo e doloroso, e cioè la speranza di poter condividere il bene, la verità, con qualcuno, dopo essersi assottigliato sempre più in questi lunghi anni di completa solitudine e delusioni (troppi: assicuro il Lettore che quattordici anni così sono troppi per chiunque), infine si spezzasse.

6.3.Dunque, ragioniamo. La nostra teoria ci portava a escludere che un’anima che già non possieda la visione del bene, cioè la verità, possa desiderare il bene e avere la bontà, e questo perché se non vedi una cosa come bene non la desideri. E anche le mie esperienze confermano questa teoria: in effetti tutti coloro a cui ho offerto il bene, lo hanno rifiutato. Tutti tranne uno: me. E io non sono un essere speciale, non sono un eletto per predestinazione divina, che non esiste(2), non ho ricevuto doni particolari (da chi?), sono un uomo tra gli uomini, un’anima tra le anime, e non è che fossi particolarmente sveglio, così scioccamente appassionato di musica com’ero: da giovane ero abbastanza tonto. Se ce l’ho fatta io a rettificarmi(3), perché non possono farcela gli altri? Forse è la nostra teoria a essere debole: quando si enuncia una teoria, che sembra vera perché è coerente, ma un caso la contraddice, anche un solo caso, bisogna pensare che la teoria sia stata formulata male e dunque correggerla; non facciamo come i positivisti che formulano leggi scientifiche, e quando poi si verifica un evento contrario alle loro leggi semplicemente lo negano o lo ignorano per continuare a professare il falso. Noi siamo rigorosi. Evidentemente il nostro enunciato dei §§5.9(in fondo)-5.10 va corretto, probabilmente abbiamo usato male le parole e dobbiamo stare più attenti al loro significato.

6.4.Per quanto ci siamo sforzati a essere rigorosi con la nostra terminologia, infatti, come il Lettore più attento avrà già notato, possiamo riscontrare qualche piccola contraddizione nel nostro tessuto argomentativo. Si saranno notate, in particolare, due cose: a un certo punto del nostro precedente scritto (La cura dell’anima, §3.11), abbiamo detto che ogni anima ha valore infinito, l’anima sana come quella ammalata e che neanche il peggiore degli uomini va svalutato; poi, supra, nota 5 al libro III, abbiamo definito il termine “valore” e abbiamo detto che diamo valore ai beni, cioè chiamiamo valore ciò che va conservato perché è un bene, mentre è un “disvalore” (il contrario che “valore”) ciò che è un male e dunque è da eliminare. Ma dunque anche gli esseri malvagi sono beni? In secondo luogo, abbiamo detto che sono buone soltanto le anime sane, perché, per definizione anima sana (o eletta) è quella che tende ad avere solo desideri razionali, quella che avendo in sé la retta idea di essere, la verità, sa che cos’è il bene vero, che è l’essere inteso come coscienza e conoscenza di sé, e lo desidera (cfr. ivi, §1.5 e passim) non inclinando mai verso i beni falsi e illusori, e per definizione la bontà è appunto la tendenza a desiderare il vero bene; e abbiamo specificato: quella che tende al bene vero, non a quelli falsi, altrimenti avremmo dovuto chiamare buone tutte le anime, anche quelle che tendono al male, cioè ai falsi beni. Perché, a dire la verità, tutte le anime vogliono il bene e tendono dunque al bene, dato che tutte le anime desiderano, e quando un’anima desidera crede di desiderare un bene perché, per definizione il desiderio è quell’affetto che proviene all’anima dal considerare una cosa come bene: quando percepisco una cosa come bene la desidero, altrimenti no. Dunque tutti gli esseri tendono al bene, solo che alcuni sanno che cos’è il bene e tendono al bene vero razionalmente, e queste tendenze le abbiamo chiamate bontà, mentre altri l’ignorano e inclinano a desiderare beni illusori irrazionalmente; e abbiamo definito tendenza al male o malvagità la disposizione a provare sentimenti e desideri irrazionali, cioè l’inclinazione verso ai falsi beni, e a commettere di conseguenza azioni ingiuste. Questo però è in contraddizione col fatto che tutti gli esseri desiderano essere, nessuno desidera non essere; questo significa che, visto che abbiamo chiamato bene l’essere e male il non essere, nessun essere tende a desiderare il male, ma tutti tendono al bene, e dunque tutti devono risultare buoni e nessuno malvagio, perché la tendenza a desiderare il bene si chiama, nel nostro linguaggio, bontà. Come mai, invece, per altro verso, abbiamo trovato degli esseri malvagi? Non è una contraddizione in termini l’espressione “un essere malvagio” se l’essere è il bene? Posso dire “un bene malvagio”? Ma il linguaggio, la terminologia, sono convenzioni e quando le convenzioni cominciano a dare problemi vanno corrette: proviamo a raffinare il nostro linguaggio nel seguente modo. Chiamiamo bontà in senso più esteso la tendenza al bene, senza specificare se è razionale o irrazionale, poi dividiamo il genere della bontà in bontà razionale, e cioè bontà vera e propria, e bontà irrazionale, cioè cattiveria o malvagità, tendenza a desiderare beni falsi, fondata sulle false concezioni sull’essere. Abbiamo fatto due scoperte: che gli esseri sono tutti “buoni” (nel senso testé ridefinito, cioè cercano tutti il bene) e che la cattiveria è una specie di bontà, solo che è una bontà fallimentare, per così dire, è bontà degenerata verso falsi scopi. Tutti gli esseri sono buoni? ebbene, sì: abbiamo definito bene l’essere e buono chi tende all’essere (perché è buono chi tende al bene) e dunque tutti gli esseri sono buoni perché tendono all’essere e tutti gli esseri sono dei beni, perché sono esseri, ed è giusto dare loro valore e non negarlo, perché si nega valore solo a ciò che è un male, e mali sono la forma ammalata con i suoi vizi, e le cause del male, l’ignoranza e la stoltezza, ma non è un male l’anima ammalata, bensì è un bene, perché è un essere ed è un bene che ci sia, anche se è ammalata.

6.5.Questo mette a posto, dunque, entrambe le contraddizioni che, come dicevamo sopra, il Lettore deve aver notato nel nostro tessuto argomentativo: avevamo definito bene l’essere e male il non essere, dunque doveva risultare che tutti gli esseri sono dei beni e hanno valore, e che poiché tutti gli esseri tendono in qualche modo all’essere e non inclinano mai verso il non essere, e poiché l’essere è bene, devono per forza essere tutti buoni, perché la tendenza al bene si chiama bontà. E questo ora non è più in contraddizione col fatto che alcuni esseri sono stati definiti, invece, malvagi. Adesso che abbiamo ridefinito l’inclinazione al male, cioè la malvagità (o cattiveria), come bontà fallita, un desiderio di bene ma inintelligente, che non ha i mezzi per soddisfarsi perché manca della nozione retta di bene, tutto torna coerente dal punto di vista logico. Tutti gli spiriti sono buoni, ma alla bontà razionale di chi è fornito della virtù chiamata intelligenza, che consente di essere effettivamente buoni e giusti, per un motivo preciso, negli uomini si è sostituita una bontà deviata, inetta, accidiosa, inintelligente. Il che è come dire che tutte le anime tendono all’essere, ma alcune tendono all’essere vero che è pensiero e coscienza che ha retta conoscenza di sé, altre, quelle che non hanno chiara in mente l’idea di essere, ma hanno concezioni errate e credono che l’essere sia una realtà extramentale fatta di materia eterogenea al pensiero, tendono all’essere falso e dunque inseguono beni illusori, come la sopravvivenza nel corpo terreno, che credono l’essere, la sua riproduzione, il successo nell’ingigantire il proprio ego e così via. Sicché torniamo a dire che il motivo che ha causato tale deviazione nella bontà dell’anima umana, ciò che l’ha resa inintelligente e dunque malvagia è l’identificazione col corpo aggregato, con il falso essere. E questo è il male, la malattia che abbiamo chiamato forma errata e abbiamo distinto in forma animalesca e forma bestiale(4) a seconda del grado di approfondimento del male, ma che potremmo anche chiamare semplicemente “condizione umana”, ed è malvagità. Nessuno è malvagio “per natura”, nel senso che vi sarebbe un determinismo extraumano, meccanicistico, che fabbricherebbe tipi di uomini inderogabilmente diversi, buoni gli uni  e cattivi gli altri, come se l’anima non fosse “plastica”, cioè capace di cambiare forma, e non fosse autonoma, né fosse essere, cioè un’infinita potenzialità, indeterminata, che non essendo nulla di specifico, può diventare tutto, scegliendo da sé come specificarsi. E nessuno è predestinato da Dio (che non esiste, se con questo nome si intende un essere individuale al di sopra degli altri) a essere malvagio o reietto: l’anima si ammala da sé, quando erra e si lascia ingannare. Non ci sono due esseri, uno buono e l’altro cattivo, uno il bene e l’altro il male, come pensano i superstiziosi, non solo i manichei, ma anche i Cattolici che confondono il male con un essere e lo fanno diventare una persona, il diavolo, mentre chiamano Sommo Bene un altro essere e lo chiamano Dio. Il male non è essere e non è un essere (e tanto meno una persona con corna e zoccolo fesso), ma è carenza di essere, è cioè l’imperfezione di esseri che, non conoscendo l’idea di essere rettamente, si rappresentano sotto un immagine falsa e producono false immagini anche dell’essere. E poiché l’essere è coscienza, cioè pensiero che ha rappresentazione di sé, se la rappresentazione è errata, oscura e contraddittoria, l’essere così carente si è allontanato dall’essere e si è avvicinato al non essere, perché se l’essere è coscienza di sé, il non essere è dimenticanza del proprio essere.

6.6.Dunque ogni essere tende all’essere e dunque, potenzialmente, al bene, anche quando ha smarrito la visione del vero essere e del vero bene e, dimentico di sé, si è ingarbugliato nelle tendenze irrazionali e nei vizi. Diciamola anche in quest’altro modo: se ogni anima è essere, ogni anima possiede la verità, poiché la verità è l’essere. La coscienza è, non cessa mai di essere: anche quando è stordita da concezioni errate, distratta dalle sensazioni che il corpo aggregato le impone e frastornata dalla fantasmagoria continua e ininterrotta che proviene dal mondo della simulazione, la coscienza è comunque capace di percepirsi, perché anche quando si inganna, pensa e quando pensa, è. Insomma, ogni anima ha in sé perennemente la verità, solo che per disattenzione non la vede, o, addirittura, la nega. Voglio dire che in questo stato paradossale in cui si trova l’uomo, mentre egli, che è essere e coscienza, è la verità, invece mente su di sé e nega di esserlo, rappresentandosi l’essere e anche sé stesso con pensieri, concetti e segni sbagliati, producendo così immaginazioni oscure e, insomma, false. Chiama infatti “realtà” ciò che gli sembra fuori dal pensiero, mentre crede irreale la vera realtà, che è il pensiero con i suoi contenuti, la sua coscienza; ciò nondimeno, continua a essere pensiero e realtà. Sicché quando dicevamo che l’anima che non abbia in sé la retta idea di essere e dunque ignori che cos’è il bene (perché il bene è l’essere) ha tendenze verso desideri malvagi ed è malvagia, mentre l’anima che vede l’idea di essere e sa dov’è il bene inclina a desiderare il vero bene e dunque è buona, stavamo dicendo una cosa vera, sì, ma incompleta. L’anima ignorante e stolta, che inclina al male, non è priva assolutamente dell’idea di essere: ella è essere, deve ben avere idea di sé. Solo che la retta idea di essere è eclissata dietro a viluppi spessi e impenetrabili, e cioè concezioni errate e immaginazioni oscure. Per condividere il bene, dunque, non occorre insegnare la verità a un’anima che non ce l’ha ancora, come sarebbe dare la vista a un occhio cieco, cosa di cui non saremmo mai capaci, occorre invece che l’anima sia indotta a liberarsi dai velami spessi che ricoprono il suo vero essere e la retta visione di sé, cioè confuti tutti i concetti irrazionali, e ritrovi il suo sguardo sepolto sotto strati di errori.

6.7.Che cosa lega l’anima ai suoi errori? Ebbene: che li trova soddisfacenti. Finché si illude che tramite i suoi errori ed illusioni può soddisfarsi più che trovando la verità, sceglierà di pensare cose false e negherà la verità. La forza, dunque, che può portarla a liberarsene è la disillusione. Quando, invece che le soddisfazioni che si aspettava, si troverà addosso un senso di inconcludenza, di scontentezza e anche di angoscia, si sentirà spinta a cercare un rimedio; perché è vero che solo chi sente una cosa come bene la desidera, ma posso anche sentire come bene l’uscita da una situazione penosa di mancanza, purché mi renda conto, appunto, di tale mancanza. Questo è un punto importante: perché l’anima senta come bene la verità, non è necessario che già la possieda, è sufficiente che ne senta la mancanza, cioè che abbia capito quali sono gli esiti nefasti della sua mancanza di verità. E’ sufficiente dunque che l’anima prenda atto della nullità di tutti gli scopi che l’hanno mossa fino ad allora e percepisca chiaramente che i risultati delle sue azioni, la realizzazione di quei desideri che la legavano a falsi beni, non l’hanno portata alla felicità, ma le hanno conferito uno stato insoddisfacente e penoso, perché ella si muova verso una nuova direzione. Se l’anima finalmente si è resa conto della nullità di tutti gli scopi che la legano, di tutti i falsi beni della vita terrena, allora sentirà un vuoto gigantesco ed il bisogno di colmarlo, e cioè di cercare il bene. E chi cerca, trova. Ma, ci si domanderà: quando l’anima riesce a provare questa insoddisfazione per i falsi beni e a prendere atto della loro nullità? Perché, a ben vedere, qui si trovano solo persone indaffarate e frenetiche, spinte unicamente dal bisogno di ingigantire il proprio ego facendo carriera, procurandosi un ruolo lavorativo importante e prestigioso, accrescere i propri guadagni non per vivere comodi, ma per esibire lussi a dismisura mediante cui mostrare la propria posizione di arrivati; oppure di occuparsi dei vantaggi della propria famigliola, di passare il tempo libero in modo ameno, tra un barbecue nella seconda casa, un soggiorno al mare e qualche bel viaggio in luoghi esotici; la cultura serve solo per far bella figura nei salotti e a essere brillanti in società, è qualcosa di cui ci si agghinda come di un abito firmato o di un pezzo di bigiotteria alla moda. Chi ha mai visto queste persone, una volta finite le scuole e dunque essersi svincolati dalla finalità di ottenere il famoso pezzo di carta che fa contenti i genitori e ti introduce nel mondo del lavoro, sedersi a tavolino quotidianamente e studiare lunghe ore, interrogandosi e cercando nel pensiero degli uomini del passato, per capire chi e che cosa siamo veramente, e quale il nostro vero scopo? e chi li ha mai visti scrutare sistematicamente la storia e l’esperienza umana per capire che senso ha, da dove siamo partiti e dove ci sta portando? Cultura generica e vuota erudizione non servono a nulla, se sono finalizzate solo a fare successo e darsi arie, fini che ti spingono a seguire le mode del momento invece che a studi seri e sistematici. Quando mai arriverà questa benedetta disillusione?

6.8.Arriva: eccome se arriva. Nulla è eterno in questo mondo terreno, e per quanto tu sia soddisfatto ed arrivato, ricco, ammirato, arrogante, potente, o qualunque altro mezzo tu abbia usato per soddisfare la tua superbia, dovrai fare i conti con la vecchiaia e con la morte. Di colpo ti renderai conto che ciò che non è eterno non è soddisfacente, che qualunque cosa tu abbia ottenuto nella vita, ti sarà tolta e dunque non ti renderà felice(5). E ti renderai conto, allora, di quello che ti sei perso: potevi passare meglio il tempo della tua vita, invece di star dietro a tante inutili carabattole, a tanti beni falsi che allora ti sembravano dei valori. Ti sembrava urgente, allora, avere una buona immagine sociale, far contenti i genitori, sistemarti, vivere comodo, divertirti etc., ti sembrava urgente appagare la tua smania di ingigantire la tua importanza con qualche mezzo: piacere a una donna (o viceversa, a un uomo se sei una donna) e impadronirti di lei (di lui) per incarcerarla (-lo) nel tuo rapporto di coppia, ed escluderne tutto il resto del mondo, per avere agio di farti ammirare sconfinatamene da lei (o avere in esclusiva l’attenzione di lui), avere insomma l’adorazione del partner senza che questi si distragga con nient’altro, per esempio; ma è ciò di cui già abbiamo parlato ne La cura dell’anima, quando abbiamo esemplificato numerosi punti di alienazione del valore, quei falsi beni, i mezzi con cui gli uomini e le donne ingigantiscono la loro importanza, che assorbono tutte le energie degli esseri umani e li inducono a sprecare tutto il tempo della loro vita, quello che andrebbe invece speso nella rettificazione dell’anima. Qualunque mezzo tu abbia usato per ingigantirti o appagarti, ti sei accontentato di poco, di quello che è inutile e che non dura, e hai perso il molto, l’unica cosa importante, il bene eterno, quello che ti avrebbe dato la felicità. E ora? Ora arriva la morte, già ti alita sul collo, già ti ruggisce addosso la sua vittoria, già affonda i suoi denti nella tua gola e solo adesso ti rendi conto di quanto poco valore avessero quelle cose che finora avevi eletto a tuoi supremi fini. Sia benedetta la morte!

6.9.Ma, si dirà, e questo a che serve? quando arriva la morte, è troppo tardi per rettificarsi, e i vecchi, ben lungi dall’usare questo senso di mancanza e di vuoto come stimolo verso la ricerca, e mettersi tutti a studiare l’ontologia, la scienza dell’anima e la storia, diventano invece esseri terrorizzati e rancorosi e tutto quello che sanno fare è stordirsi con ore e ore di televisione, e tormentare i figli e le nuore con lamentele e pretese. Agis si è fatto prendere la mano dal classico memento mori caro a tutti gli iniziati (o a tutti i falliti, a seconda dei punti di vista) e ha detto una corbelleria. Mh. Forse il Lettore ha ragione se pensa così: in fondo il senso della morte, è vero, spinge alla riflessione, ma non tutti, bensì solo poche persone già inclini alla filosofia; gli altri fuggono tutta la vita da questa consapevolezza e quando si trovano di fronte alla morte è troppo tardi, e affrontano la cosa molto male, con angoscia e terrore, agonizzando a lungo, lottando per sopravvivere, per allungare la vita terrena anche di un solo giorno, anche se poi con il tempo di questa vita agonizzante non sanno che cosa fare e lo passano nella noia e nell’infelicità. Poi cedono soffrendo terribilmente. Macché benedetta la morte, macché arriva la disillusione; Agis, non dire sciocchezze e rimangiati quello che hai appena scritto sopra: la morte è un bene solo per l’iniziato (nel senso platonico del termine: l’iniziato è colui che vede le rette idee), il quale sa che non sta affatto morendo, perché per l’anima la vera morte è la dimenticanza di sé e dell’essere, non la disgregazione del corpo terreno, che non è il vero sé stesso ma una pesante maschera, essere liberato dalla quale è un grande sollievo. Per l’iniziato sì che la morte è un bene: è una carezza, la morte, come di una madre che sentendoti gemere nel sonno ti sveglia e ti leva da un brutto sogno che ti tormentava, da un incubo sabbioso, dove ti vedevi in un mondo dove c’è il male, dove tutti sono folli e pieni di freddezza, odio, gelosia, dove tutto è alla rovescia, dove tutti corrono dietro agli scopi sbagliati… Allora apri dolcemente gli occhi, mentre il corpo del mondo terreno li chiude e finalmente torni nella vera realtà, ti svegli e vedi il sole, quello vero, il vero cielo e le cristalline fonti d’acqua pura da cui nascono i mondi eterni(6), e torni a casa. Già, ma che cosa vede invece l’uomo stolto e impreparato? Crede di sognare, di avere allucinazioni, se è un materialista e non ha capito che i contenuti della coscienza sono la realtà: è convinto d’averla persa, la realtà, quella extramentale, che lui crede esista, e si dibatte nel panico. Cerca di svegliarsi da un sogno, ma non può: è già sveglio ma non lo sa. E se è religioso, rimane assai deluso: magari cerca un’illuminazione gratuita, pensando che basti morire per diventare angeli del paradiso, ma l’anima non diventa sapiente di colpo solo perché il corpo aggregato l’ha abbandonata a sé stessa. E confuso com’è sulle concezioni teologiche, magari cerca Dio fuori di sé, senza poterlo trovare o si smarrisce perché non sa giudicare se quello che vede è reale o immaginario; magari diffida di quelli che gli stanno intorno credendoli diavoli e invece sta vedendo simbolizzazioni dei contenuti della sua coscienza. Non so se costui potrà rendersi conto che la guazza nera in cui si viene a trovare è la rappresentazione dell’irrazionalità della sua anima, magari si terrorizzerà credendo di essere finito all’inferno, mentre quello che vede non è un castigo, ma una conseguenza, anzi una rappresentazione grafica, del suo modo di essere. Ma non divaghiamo, del post mortem parleremo in uno scritto apposito(7).

6.10.Dunque, se torniamo alla speranza espressa supra al §6.2, della quale, come si ricorderà, stavamo indagando la realizzabilità e le sue condizioni, dobbiamo dire: Agis, se speravi che il tuo desiderio di vedere anche le altre anime in possesso del bene si realizzasse grazie a forze che non dipendono da te, non sei riuscito affatto, almeno per ora, a corroborare questa speranza. Non restano che le altre due possibilità, o che essa sia irrealizzabile, o che sia realizzabile, ma con le tue forze e con le forze di quelli come te. Nel primo caso cadremmo nella disperazione, perché significherebbe che non avremo mai la felicità; nel secondo caso ci sentiremmo spinti a trovare un modo efficace per poter condividere il bene col nostro prossimo, che è l’unica azione giusta che vada realizzata, oltre a quella di procurare a sé stessi il bene e difenderlo confutando le false concezioni del mondo, che si possa davvero compiere per fare della propria vita una vita etica (cfr. supra, §5.1). Insomma quello che stiamo facendo è cercare di trasformare la nostra tendenza alla giustizia, cioè il nostro desiderio di condividere il bene con tutti gli altri uomini, di dare a ognuno ciò che gli spetta realizzando così il bene, in vera e propria virtù, cioè stiamo cercando i mezzi per procurarcene l’intelligenza. Ma, a quanto pare, per ora, non ci stiamo molto riuscendo, anche se un passo avanti lo avevamo fatto, prima di infilarci scioccamente nel ragionamento sbagliato del §6.8: avevamo infatti deciso (§§6.4-6.6) che gli esseri sono tutti buoni e hanno tutti valore, e che essendo esseri hanno tutti in sé la verità, che è l’essere; solo che essa è nascosta sotto errori concettuali e dimenticata o ignorata. E abbiamo anche ben chiaro in mente il principio che se l’anima non vuole pensare la verità, nessun determinismo esterno o potere misterioso può dargliela: se non l’accetta e non la pensa da sé, non l’avrà. Sicché il problema è diventato questo: come convincerla ad impegnarsi a confutare quelle concezioni errate che le nascondono l’essere e dunque il bene e a cessare di sentire come beni quelli che non lo sono affatto? non conviene, viceversa, tentare di farle sentire come deludenti quei falsi beni sicché ella si distacchi da essi e dalle concezioni errate sull’essere che glieli fanno sembrare beni? ovvero: viene prima la rettificazione dei concetti e la conseguente confutazione del giudizio errato che fa considerare bene una cosa che non lo è, o viceversa, prima si rimane delusi, ci si accorge che quella cosa non è un bene, perché appagando il desiderio esso si rivela inefficace per la nostra felicità, e anzi ci ha reso infelici, ed essendosi dissolto l’attaccamento, l’anima, non più legata all’errore concettuale che legittimava il desiderio irrazionale da cui ella si illudeva di ottenere soddisfazione, finalmente è disposta a rettificarlo? Perché, come dicemmo, una volta amaramente delusa dai falsi beni, l’anima potrebbe sentire il desiderio di colmare il vuoto lasciato da essi e finalmente mettersi a cercare il bene vero.

6.11.Forse sono buone tutt’e due le strade. In effetti, sembra logico: di fronte a un desiderio irrazionale puoi fare due cose, o lo confuti o lo soddisfi. Nel primo caso, se hai confutato che l’oggetto di quel desiderio sia un bene, quel desiderio svanisce perché se non senti più quella cosa come un bene non la desideri più, il che è come dire che quel desiderio lo hai sradicato dalla tua anima, cioè hai eliminato la concezione falsa che è come il seme e la radice da cui rampollava la tendenza a desiderarlo (il Lettore ricorderà l’immagine della pianta del §2.2). Ma per fare questo devi essere sapiente e capace di ragionare. Nel caso contrario, l’unico modo perché l’anima si disfi di quell’erbaccia tossica che è la tendenza a desiderare un falso bene è che ella subisca le conseguenze di aver soddisfatto quel desiderio che tende ad avere e si accorga che sono deleterie e che l’hanno resa non soddisfatta, ma infelice. Non c’è altro modo  per liberarsi dagli attaccamenti: o li confuti a priori o ne rimani deluso a posteriori; e perciò hanno torto i Cattolici, che vorrebbero salvare l’anima reprimendo i suoi desideri (a parte il fatto che ogni tanto reprimono quelli sani, per insipienza e per invidia) e proibendole di compiere azioni colpevoli con l’imporre dall’esterno i precetti e le norme di una morale pubblica e i comandamenti di una presunta volontà divina, spaventandola con minacce di pene infernali e lusingandola con la promessa del paradiso. Un desiderio represso a lungo cresce a dismisura, perché l’anima continua a sentire il suo oggetto come un bene e continua a fantasticare sulla sua soddisfazione, e la fantasia ingrandisce le cose. Abbiamo visto che dopo tanta repressione sessuale, che induceva gli uomini all’ipocrisia, il risultato che si è ottenuto è un’esplosione di sessualità sfrenata e insensata, squallida e fine a sé stessa. Inoltre, la repressione di un attaccamento può diventare anch’essa un attaccamento, nel senso che se una persona non può ingigantire la propria importanza mediante una certa soddisfazione perché la cultura dominante glielo proibisce, può fare della rinuncia a quella soddisfazione un mezzo per ingigantire parimenti il proprio ego. Se viene ammirata l’astinenza dal sesso perché il sesso è considerato qualcosa di sporco e peccaminoso, la castità può diventare un modo per credersi superiori moralmente e per ottenere ammirazione pubblica, e dunque per soddisfare la propria superbia, così come l’astinenza dagli altri piaceri, se la loro soddisfazione viene giudicata peccaminosa, sicché uno esibirà esteriormente una vita ascetica, quando la sua forma spirituale è oscura quant’altre mai e piena di boria e di disprezzo del prossimo. Bisogna ricordare che quando la smania di ingigantire il proprio ego trova la strada sbarrata perché il mezzo con cui intendeva ingigantirsi le è precluso, va a battere un’altra via e se ne trova un altro. E’ un errore dunque costringere le persone a reprimere i propri desideri, cioè a fare finta di non averli: è un tipo di menzogna che induce come minimo all’ipocrisia, quando non crea grovigli peggiori. Così si fa solo male. Bisogna guardarsi da questo errore e avere ben chiaro che la vita etica non coincide con la vita di un represso, che vuole nascondere i suoi desideri per far mostra di essere santo ed esibisce un falso distacco; l’unico vero distacco è quello di chi ha confutato che l’oggetto del suo desiderio sia realmente un bene e perciò ha visto tale desiderio scomparire dalla sua anima, l’ha sradicato, perché ne ha tolta la radice che era la falsa concezione sul bene che gli faceva giudicare un bene e dunque desiderare quella cosa. E’ inutile e dannoso far vergognare una persona perché ha dei desideri, come se desiderare fosse un segno di debolezza; la facoltà desiderativa va indirizzata ai beni veri, sicché diventi vero amore, non va repressa o negata. Ed è necessario capire bene la differenza che passa tra chi ha rettificato il proprio desiderio procurandosi l’intelligenza del bene e chi ipocritamente lo copre, nega di averlo, mentendo e reprimendone la soddisfazione: c’è una bella differenza tra uno che è guarito dalla peste e uno che ne nasconde i sintomi coprendo i suoi bubboni col cerone.

6.12.Dunque è bene che un’anima sia lasciata libera di esprimere e soddisfare i suoi desideri irrazionali(8), e anzi meglio sarebbe che ella fosse stimolata a farlo più in fretta e che le si offrissero prima possibile le occasioni di appagarli, invece che obbligarla a un ristagno reprimendola, così si renderebbe conto più in fretta degli esiti nefasti della sua forma spirituale errata, e arriverebbe più in fretta a essere delusa dai falsi beni, finalmente consapevole della loro inutilità, della loro incapacità di farla felice (perché abbiamo definito la felicità come fruizione del bene vero, non di quelli falsi), e sentendo più precocemente il vuoto e la mancanza di un senso nella sua vita, inizierebbe prima a desiderare di colmarlo e prima guarirebbe. Perché se continua a mentire a sé stessa e omette di esprimere le sue tendenze, impedita con questo di vedersi come realmente è, e di tirare le somme sulla propria inettitudine e malvagità, ristagna e rallenta il suo percorso; invece una volta che abbia sperimentato la soddisfazione di tutti i desideri possibili, quando questi siano malvagi, e la rendano perciò infelice, se ne disgusterà, e più in fretta è, meglio è, visto che prolungare la storia umana significa prolungare dolore e sofferenza, e una gran quantità di mali. Ma dunque l’unica azione giusta che di fronte a questa situazione possiamo compiere è evitare di indottrinare le persone, lasciare che esse esprimano quello che sono senza disprezzarle e aspettare, per così dire, il decorso della malattia? Ebbene, sì, direi proprio di sì. Omettere di montarci la testa con la presunzione di salvare le anime con catechismi e predicazioni è un’ottima cosa; e sarebbe opportuno anche evitare l’imposizione di norme morali rigide e obbligatorie e di operare pressioni in questo senso col biasimo pubblico o privato. E’ giusto infatti rispettare la volontà altrui e non reprimerla, perché spetta all’anima l’esercizio autonomo della volontà(9), mentre sarebbe ingiusto prevaricarla imponendo dall’esterno i comportamenti che ci piacciono; le impediremmo di prendere atto dei contenuti della sua coscienza, la ostacoleremmo nel difficile compito che ella ha di conoscersi, e poiché è bene la retta conoscenza di sé e non la menzogna, obbligandola a mentire con dei comportamenti ipocriti, faremmo il suo male, non il suo bene. Per noi è sommo valore il rispetto della volontà altrui anche quando è sbagliata, perché solo quando una realtà si esprime e risulta sbagliata può correggersi. E’ questo che la cultura cattolica non ha capito: è inutile correggere dall’esterno i comportamenti di una persona, quello che occorre è guarirne l’anima indicandole come modificare la sua forma; essi non vedono la realtà dell’anima e dei suoi contenuti, pensano solo in termini di premi e castighi per i comportamenti tenuti dall’uomo nel breve arco di una vita. Non vedono l’essere, non conoscono l’anima, non sanno che cosa è il suo bene e che cosa il suo male, nulla sanno della sua salute e della sua malattia e di come ci si procura la prima e si fugge la seconda; eppure presumono di avere, solo loro, il potere di salvarla. Noi amiamo la salute vera delle anime, e non ci siamo costruiti una falsa immagine di redenzione da imporre istituzionalmente a scopo di autoesaltazione e di potere, per pavoneggiarci nelle piazze e sugli altari raccontandoci che siamo al servizio di Dio e che stiamo salvando l’uomo, e così scimmiottando il ruolo del sacerdote. Perché il vero sacerdote è quello che guarisce l’anima realmente, con i mezzi opportuni, procurandoseli con impegno e fatica e lunghi studi e con onestà concettuale; i mezzi opportuni, dico, e questi sono la vera scienza, non riti, sacramenti e dogmi irrazionali. E chi ha vera scienza per aver applicato la logica e conosce la giustizia perché ne ha dato definizione precisa, sa che chi vuole realizzare realmente il bene, cioè dare a ogni anima ciò che le spetta, deve dare a ogni anima il bene, che è scienza della verità; ma sa anche che il bene, la verità, non entra nell’anima per forza, con la coercizione, con l’indottrinamento, col raggiro di promesse e minacce e nemmeno per via di misteriosi poteri propiziati da riti o preghiere: la verità si apprende, quando la si pensa, trovandola con l’applicazione del retto metodo di ragionamento. E noi sappiamo anche che l’anima non pensa quello che non vuole pensare; sicché non possiamo fare nulla prima che l’anima abbia trovato questa volontà: tutto quello che possiamo fare è astenerci dall’intervenire intempestivamente, e con infinita pazienza rimanere nascosti a osservare, cercando di capire con amore il perché di ogni male, di ogni inclinazione cattiva, e provare i retti sentimenti, cioè la sofferenza per il male e il desiderio di bene, della vera guarigione dell’anima, e non l’attaccamento a un ruolo pubblico e all’ammirazione del mondo. Questo è tutto ciò che possiamo fare, se vogliamo comportarci giustamente: capire, amare e aspettare.

6.13.D’accordo, dirà il Lettore, ma campa cavallo… qui prima che l’anima si sfoghi e si disilluda ci passano ere geologiche. Non possiamo aspettare così tanto: la vita umana dura pochi decenni e Agis ci sta solo facendo perdere tempo col suo rispetto per le volontà sbagliate. Se costui ha in mano il farmaco, cioè la retta ontologia, come dice, che aspetta a cacciarlo in gola alla gente con tutti i mezzi possibili? che agisca, no? o è buono solo a chiacchiere? Ma caro Lettore, secondo Lei, che dovrei fare? andare in giro a suonare campanelli, come fanno i Testimoni di Geova? scrivere una lettera al papa, pregandolo di accettare la mia ontologia e sperando che riformi la Chiesa? devo rivolgermi ai membri della Società Psicoanalitica e avvisarli che la loro scienza è tutta sbagliata e che devono imparare la mia? Vuole vedermi sul rogo come Giordano Bruno, legato con una camicia di forza o respinto a male parole dalla gente che ha altro da fare che sorbirsi le mie lezioni di ontologia? e perché devo cacciarmi nei guai, quando posso aspettare che tutto si risolva da sé? Infatti, stavolta non ci stiamo sbagliando come nel §6.8, stavolta stiamo ragionando bene. Se è vero che la morte non risolve nulla, che non basta invecchiare e morire per essere disillusi e distaccarsi dai falsi beni, è anche vero, però, che l’anima è immortale, lo abbiamo dimostrato ne Il fondamento della ricerca, §2.2, dove abbiamo asserito che essendo l’essere, l’anima è necessariamente esistente, perché l’essere non può non essere; perciò abbiamo tempo infinito: che fretta c’è? Non siamo come i Cattolici, torno a dire, i quali pretendono dall’anima una redenzione rapida, sostenendo che dopo questa vita chi non si è astenuto dal compiere “peccati(10)”, cioè dall’offendere un Dio assai permaloso e collerico sarà subito giudicato e condannato alle pene di un inferno eterno. Questi mettono fretta gettandoci nel panico e inducendoci a cercare scorciatoie in un’osservanza imposta dall’esterno, e nella speranza in una misericordia divina da impetrarsi con sacramenti e riti, preghiere e altri tipi di adulazione; ma, come già si è detto (supra, §5.7), le scorciatoie sono in realtà trappole. Per secoli l’anima incapace di rettificarsi e terrorizzata dall’inferno incombente, ha sentito il bisogno di rassicurarsi con metodi superstiziosi, e di mentire a sé stessa millantando una falsa immagine di bontà tanto rapida e facile da acquistare quanto inefficace. Ma noi non siamo accidiosi come i Cattolici e non abbiamo fretta di ottenere i risultati senza mettere in atto i mezzi opportuni per ottenerli(11), non pretendiamo di ottenere l’effetto senza procurarci la causa. La nostra intelligenza ci dice che per ottenere il distacco delle anime in via dai falsi beni ci vuole un processo lungo secoli, millenni, tante esperienze, tante prove, tante illusioni, tante delusioni; ogni cosa a suo tempo. Torna in auge, dunque, l’ipotesi (cfr. supra, §6.2) che le cose vadano avanti da sé senza l’intervento del povero Agis, che a questo punto si domanda: ma allora io che ci faccio qui in mezzo? perché aggirarmi inorridito in mezzo al male, tra i folli, gli insensati, le anime feroci e gelide, emarginato, umiliato dagli inetti presuntuosi che mi giudicano un povero scemo perché non faccio carriera e soldi, non mi dedico al sesso, ai viaggi, ai divertimenti? Perché sopportare ancora tutta questa solitudine in mezzo alle spine? Perché soggiornare ancora in questa città grigia (abito a Milano), brutta, maleodorante, piena di insopportabile frastuono, coi suoi lussi sciatti, la sua squallida borghesia frivola e snob tesa unicamente verso le più inutili ambizioni, tetra per le sue frustrazioni e catafratta ad ogni sentimento umano che non sia invidia, gelosia, malignità? Che c’entro io con questi borghesi? Che ci faccio tra questa gente vanitosa, ottusa, incapace di amicizia, tra questa gente egocentrica e piena di sé?

6.14.Eppure, dice il profeta: “non si scioglie la cintura dai suoi fianchi(12)”; sembra un incoraggiamento a continuare. Ma dicemmo (supra, 6.11): di fronte a un desiderio irrazionale, puoi fare due cose, o lo confuti o lo soddisfi. Gli uomini hanno due strade da percorrere per arrivare al bene, non una sola, e finora abbiamo parlato di quella più lenta e tortuosa, che ti porta a maturazione attraverso prove ed errori, regressi e ristagni. Ma c’è anche una via più diretta: la confutazione, la lotta attiva contro gli inganni del mondo terreno, lo sradicamento degli attaccamenti ai falsi beni e la vittoria sul mondo, il che ci riporta al quesito fondamentale: è possibile compiere la giusta azione, in questa vita (e aggiungiamo: a breve termine, non solo aspettando che il processo si compia) di condividere con qualcun altro il bene, cioè la retta conoscenza sull’essere e sull’anima, sul suo bene e sul suo male e sul senso della storia dell’uomo e della sua esperienza del male? C’è qualcuno che come me voglia percorrere questa strada? Non sarò il solo al mondo! E’ stata un’azione giusta interrogarsi su questo, perché pretendere di realizzare un’impresa senza i mezzi opportuni per farlo è un male, cioè se avessi cercato di vendere a tutti la mia filosofia a qualunque costo. Invece le nostre ricerche hanno fatto almeno un piccolo progresso: abbiamo dimostrato che la rettificazione dell’anima è possibile (cfr. supra, 6.4-6.6), ma che i nostri sforzi non vanno rivolti a tutti, perché la maggior parte dell’umanità farà le sue strade altrove (cfr. supra, 6.11-6.13); però c’è la possibilità che qualcuno voglia liberarsi dal male nell’altro modo, col metodo della confutazione degli errori concettuali sull’essere e sul bene, sciogliendosi dai vincoli con i falsi beni e ripristinando la forma sana già ora, magari in tempo utile per consolare Agis dalla sua solitudine. Che questo sia possibile, già dicemmo (cfr.supra, §6.3), lo dimostrammo con un’applicazione del metodo a fortiori: se una cosa è reale, se si è realizzata almeno una volta, a maggior ragione è possibile. E almeno un’anima che si sia dedicata alla confutazione degli errori concettuali esiste: me.

6.15.Come un’anima trovi l’impulso per arrivare a questo, uscendo dal suo sonno spirituale mentre è nel mondo terreno, non saprei dirlo, come legge generale, posso solo raccontare il mio caso particolare, come fu che mi riscossi e mi misi a cercare. Già dicemmo (cfr. Il fondamento della ricerca, §3.12) che è lecito servirsi del metodo fenomenologico, purché esso sia inquadrato in una solida ontologia, e cioè dopo che si siano chiarificati a sufficienza i concetti di essere e di realtà, sicché i fenomeni non risultino più ingannevoli. Ecco dunque la fenomenologia di Agis. Uscito dal liceo, stavo cercando di decidere come sarebbe stata la mia vita, che cosa sarei diventato, che cosa avrei fatto; era la prima volta che mi trovavo di fronte a una scelta: prima ero stato costretto a seguire i binari precostituiti della scuola dell’obbligo e avevo solo potuto occuparmi di studiare quello che insegna il liceo, assorbendo le concezioni della cultura comune. Avevo una professoressa di scienze positivista e agguerritissima, e un professore di lettere cattolico, ma consapevole delle nefandezze compiute dalla Chiesa in passato, cosa indispensabile per spiegare la Divina Commedia. Ne uscii con i due mezzi eserciti di cui abbiamo parlato sopra (§4.6) che mi cozzavano in testa. Inoltre, avevo avuto tre professori di filosofia, uno per ogni anno del liceo, ma tre incompetenti, uno peggio dell’altro, sicché la filosofia non mi sembrava nulla di serio, solo fumo e chiacchiere; mai avrei pensato che mi sarei laureato in filosofia. Ma accaddero due cose nella mia vita esteriore che mi portarono a riscuotermi e a impegnarmi nella ricerca della verità: la prepotenza dei miei genitori, che senza minimamente ascoltare le mie inclinazioni, i miei ideali e la mia sete spirituale di bellezza e di poesia, volevano impormi a tutti i costi la via che mi conducesse all’attività più remunerativa possibile dal punto di vista economico, e più possibile prestigiosa; questo mi fece soffrire molto, e riflettere: ma che senso ha una vita dedicata solo al suo mantenimento materiale? spendere la vita per guadagnarsi la vita? non è un circolo vizioso senza scopo e senza senso? questi vogliono costringermi a dare il tempo della mia vita, che vale di più, in cambio di denaro, che vale di meno; mi stanno derubando, come se mi costringessero a dare oro puro in cambio di tolla, è una truffa e se ci cadessi sarei uno stolto. La vita in cambio di denaro, non è un affare in perdita? Il fatto poi che questi miei pensieri rimanessero totalmente inascoltati e, anzi, venissero presi come segno di ribellione e cattiveria, se non addirittura di anormalità, cominciò a insospettirmi sul mondo umano, cominciai cioè ad accorgermi che tutto qui è giudicato alla rovescia, il male scambiato per il bene e il bene per il male, e insomma cominciai a non fidarmi più dei giudizi comuni. Il primo avvenimento cruciale fu dunque ciò che mi portò alla ribellione. Imposi la mia scelta, dopo una drammatica scenata in cui mi definirono pazzo: ottenni di organizzare la mia vita intorno allo studio del pianoforte (che era la mia passione, a quell’epoca), ma in compenso subii un’umiliante psicoterapia impostami dal parentado. Cominciò la mia lotta coi mostri. Il secondo avvenimento che mi spinse verso la ricerca fu la morte di un mio amico, a cui ero affezionato: fu investito mentre tornava a casa dal suo lavoro serale, che gli serviva a pagarsi, in parte, gli studi in Italia. Questo non fu solo un dolore, ma anche l’inizio delle mie riflessioni, perché cominciai a chiedermi: che cos’è la morte? chi siamo noi? ma davvero tutto ha così poco senso, siamo davvero il prodotto casuale di una materia che si aggrega e si disgrega meccanicamente, e la nostra vita davvero non vale nulla, è come una bolla di sapone che balugina un istante e poi scompare? Chi cerca, trova disse qualcuno; ecco, io cominciai a cercare: si era intorno al 1980(13).

6.16.Non so per gli altri come sia, per me è stato così: aprii gli occhi sul mondo alla rovescia, capii la natura del mondo umano come luogo dell’inganno, delle mete sbagliate, dei giudizi stolti. Cominciai ad accorgermi che qui le cose non vengono mai chiamate con il loro nome: per fare il tuo bene ti ammazzano spiritualmente, chiamando cattiveria la tua più nobile istanza. Inoltre aprii gli occhi su quanto sia fasulla la scienza positivista, dovendo inorridire davanti all’incompetenza e alla ferocia di quella belva dottorata, di quel mostro, che col pretesto di rendermi alla “normalità” mi voleva il più possibile bestiale, tutto istinto e niente ragione, pretendendo di trasformarmi in un sessuomane e in un arrivista egocentrico. Non capì nulla del mio amore per la musica e per la poesia, arrivando a dire che il pianoforte era un “sostituto del pene”, cioè aveva preso per sintomo nevrotico, evidentemente, la mia castità. Quando poi seppe che avevo cominciato a interessarmi di filosofia, a causa della morte del mio amico, la sua distruttività divenne violentissima, tentò di impedirmelo a tutti i costi: mi presentò l’impiego della ragione come un pericolo gravissimo per la mia salute mentale, che doveva coincidere, invece, con la “spontaneità” cioè con quello che spacciava lui per spontaneità, ed è invece bestialità ed insipienza. Gli dissi che mi veniva spontaneo condurre ricerche razionali; s’infuriò e vieppiù m’insultò sostenendo di prepotenza che spontaneità e razionalità non sono compatibili(14), e mi fece capire che mi riteneva una caso grave, quasi incurabile. Non mi lasciai condizionare e perseverai nelle mie riflessioni e, successivamente, lui continuò col tentativo di far passare il mio esercizio della ragione per sintomo nevrotico sostenendo che ero vittima di un “gigantesco superego”, un mostro oscuro proveniente dal mio inconscio che mi impediva di esprimere il vero me stesso (e dàlli, con queste immagini false del mio vero me stesso, foggiate a suo comodo per farmi essere il peggiore possibile, istintivo, irrazionale, basso ed egoista, per appagare la sua smania di ingigantirsi e la sua invidia). “Quello che lei chiama superego” risposi freddo “io lo chiamo intelletto(15)”. Andò su tutte le furie; mi rispose, accomiatandomi in malo modo e senza lasciarmi possibilità di replica: “allora si spari”. Lo piantai in asso dopo un po’ di questa solfa, disgustato; lui telefonò alla mia famiglia avvisando che con ogni probabilità avrei tentato di uccidermi. Mi risulta che questo brillante luminare della cura dell’anima sia ancora in auge, ricco e famoso. E incompetente. Con lui faremo i conti più tardi. Ah, povero Agis, che gli è toccato di sopportare(16).

6.17.Insomma, fu una lotta feroce, ma fu proprio qui che iniziai a raffinare le mie armi logiche, per difendermi dagli intenti spiriticidi del sedicente dottore. E’ così che è iniziata la mia lotta contro ai mostri. Non è per egotismo, spero che il Lettore me lo accrediti, che ho voluto confidargli qualche tratto della mia vita passata, scadendo un po’ nell’autobiografismo, ma è per onestà concettuale: infatti proprio non ho potuto trarre una regola generale dal mio caso particolare, non ho cioè potuto capire come di regola un’anima trovi la via del risveglio, posso solo ricordare che a me è successo così: ho sentito il bisogno, a un certo punto della mia vita, per i casi contingenti che mi stavano facendo soffrire, di trovare la verità e difenderla dagli assalti delle menzogne. Non posso ricavare una regola generale da un caso solo, questo è proibito dalla logica: il metodo induttivo è, infatti, un metodo fuorviante e inefficace, e indurre leggi a posteriori a partire da un certo numero di casi individuali si chiama “induzione indebita”, figuriamoci se poi si tratta di un caso solo. La mente deve guardarsi da simili errori di metodo: ciò che si conosce per induzione o per astrazione è sempre sbagliato. E’ correttamente dimostrato solo ciò che viene dedotto da assiomi e dunque si conosce a priori. Quindi, piuttosto che enunciare pomposamente una legge generale sbagliata, ho preferito comunicare al Lettore il mio caso particolare, fenomenologicamente, e poi vedrà Lui, o Lei, che cosa farsene. Spero solo che questo episodio della serie “I disagi di Agis” non l’abbia troppo annoiato.


NOTE AL LIBRO VI.

 

Nota 1: va distinto il concetto di speranza razionale da quello di speranza realistica, naturalmente: se una speranza è realizzabile non è detto che sia razionale, perché potrebbe trattarsi della realizzazione di un falso bene. Per esempio uno che speri di sposarsi e avere figli, e abbia possibilità concreta di farlo, è realista, ma sperando in un falso bene è irrazionale, mentre la speranza di condividere la verità con tutti gli altri, che è un vero bene, ma almeno per ora irrealizzabile, è una speranza razionale ma irrealistica, a breve termine. E’ un atto da sciocchi, inoltre, pretendere che le nostre speranze si realizzino per forza (quello che in certi ambiti oggi si dice “essere positivi”, cioè ottimisti ) senza indagare i mezzi della loro realizzabilità e come procurarceli; sperare poi che qualcuno ci salvi e ci doni la vita eterna con un atto di fede cieca, ben lungi dall’essere una virtù come sostengono i Cattolici, è invece uno sconsiderato atto di accidia (ricordiamo che l’accidia è la pretesa di essere arrivati a un fine senza mettere in atto i mezzi opportuni per ottenerlo, è la pretesa di ottenere un effetto senza realizzare la causa; cfr. supra, §5.9).

 

Nota 2: si definisce “anima eletta” nel nostro linguaggio, quella che ha perfetta conoscenza di sé e dell’essere, e che sapendo che il bene è l’essere inteso come pensiero e infinite coscienze che rappresentino rettamente l’essere, desidera l’essere e il bene di tutte le coscienze, cioè il loro essere vere rappresentazioni, eterne e felici, dell’essere. L’anima sapiente che ha solo desideri e sentimenti razionali, come già detto più volte, ha una forma spirituale sana, ha in sé cioè bontà e giustizia e tutte le virtù; e si chiama eletta perché è la forma mediante cui l’essere conosce rettamente sé stesso, e dunque è quella che l’essere, che è pensiero, sceglie per rappresentarsi. L’elezione non è un dono divino, una grazia concessa arbitrariamente e imperscrutabilmente a qualcuno da un Dio personale, che sarebbe come un tiranno che concede favori per far pesare la propria onnipotenza, trasformando un inetto in un personaggio importante a suo piacimento, ma sta all’anima, che si genera da sé ed è autonoma, conformarsi alla retta idea di essere e dunque al bene e quindi conferire a sé stessa, grazie alla propria intelligenza, la forma eletta.

 

Nota 3: Agis non è un presuntuoso, né un esaltato se asserisce di essere un eletto. Abbiamo dato la definizione di eletto (cfr. nota precedente) come anima che essendo in possesso dell’idea di essere ha rettificato la somma delle sue tendenze, grazie alla visione del vero bene e della giustizia, e tutto ciò che ricade sotto questa definizione può dirsi eletto, come tutto ciò che ha tre lati e tre angoli, ricadendo sotto la definizione di triangolo, può dirsi triangolo. Essere eletti non significa avere poteri magici, taumaturgici, doni profetici, o chissà che altro, né l’eletto è colui che trascina le folle con miracoli e segni soprannaturali: tutto questo è contraffazione “satanica” (cfr. per questo termine, supra, nota 10 al libro V e anche nota 12 allo stesso libro, ma ne riparleremo meglio in un prossimo scritto). Essere eletti significa solo aver applicato correttamente la logica e il principio di ragion sufficiente, essersi procurati la retta nozione di essere e dunque essere competenti in ontologia (quella vera) e aver di conseguenza eliminato da sé quell’identificazione col corpo aggregato che porta l’anima a sognare sull’essere, desiderare falsi beni e a produrre attaccamenti verso i mezzi che sembrino soddisfare la sua superbia. L’insieme delle tendenze razionali che abbiamo chiamato anche salute, che nascono nell’anima dalla capacità di vedere le rette idee mediante cui l’essere rappresenta sé stesso, è la forma eletta nel senso che è la migliore possibile, e dunque lo spirito la sceglie per sé, per rappresentarsi. E’ anche la forma, socraticamente, che l’anima imprime in sé stessa con volontà libera, perché quando l’anima si dà la forma eletta, vuole il bene e fa ciò che vuole, cioè avendo capito che cosa è il bene, la sapienza, riesce realmente a procurarselo, e dunque è libera quando sceglie di darsi tale forma, che è il bene, mentre quando l’anima sceglie di inserire in sé stessa una forma errata, un complesso di tendenze irrazionali e colpevoli, non è libera perché volendo il bene non fa ciò che vuole, ma è costretta dai suoi errori concettuali a darsi una forma sbagliata, che dunque non è eletta, nel senso che lo spirito non l’ha scelta liberamente ma l’ha subita, cioè la sua scelta non era libera, perché voleva una cosa, il bene, ma se ne è data un’altra, il male.

 

Nota 4: cfr. supra, nota 1 all’Introduzione.

 

Nota 5: ricordiamo, infatti, che la felicità è il sentimento o lo stato che deriva all’anima dalla fruizione eterna del bene.

 

Nota 6: cfr. Il fondamento della ricerca, §2.6 e passim, sulla visibilità nel mondo reale, quello dove i corpi sono pensieri. Il sole e la sua luce è immagine del pensiero e delle idee rette mediante cui egli si rappresenta, il cielo è lo spazio, che già (ivi, §§1.14-1.18) definimmo come immagine della capacità dell’essere, che è pensiero, di produrre immagini visibili che rappresentino i suoi contenuti invisibili, come dire che l’immaginazione dell’essere, quando immagina sé stessa si immagina come spazio; per meglio dire, il cielo è spazio illuminato, cioè immaginazione che impiega le idee rette. E le fonti d’acqua cristallina sono le coscienze dell’essere, che pensando in atto l’idea di essere, e riflettendola, producono nello spazio un’immagine di essa come materia liquida, capace cioè di ricevere tutte le altre forme e diventare corpo solido. Prometto una trattazione dettagliata sul vero mondo, quello cioè dove le forme immanenti (immagini visibili delle idee, o forme trascendenti) sono oggetto della percezione dell’anima libera dal corpo aggregato e degli inganni della simulazione.

 

Nota 7: abbiamo dimostrato l’eternità dell’anima e dunque la sua immortalità (si chiama “morte” semmai l’uscita da una condizione e l’ingresso in un’altra, non la sua scomparsa totale che non può mai avvenire: l’anima è “mortale”, ma in quest’altro senso, finché non trova la sua condizione definitiva, che è la forma sana ed eletta) ne Il fondamento della ricerca, §2.2, definendola necessariamente esistente; cfr. su questo anche infra, §8.2: l’anima non nasce e non muore, perché essendo essere è necessariamente esistente e non può mai non essere, per il principio di non contraddizione; cioè è impossibile la non esistenza dell’essere e dunque non è possibile che abbia un inizio, perché prima di questo inizio l’essere non sarebbe e sarebbe il non essere, il che è contraddittorio e non può verificarsi, dato che il non essere per definizione non è; e non può avere una fine per lo stesso motivo, perché dopo tale fine sarebbe il non essere, il che è contraddittorio e non può mai verificarsi. A chi dice che la singola anima non è l’essere, rispondiamo che si sbaglia, perché l’essere è pensiero e dunque, per definizione, coscienza, e quando ha coscienza di sé non può rappresentarsi come infinito (infatti l’infinito non è rappresentabile con un atto finito del pensiero), ma nel momento in cui si rappresenta (eternamente, perché l’essere è pensiero e dunque di necessità coscienza, cioè rappresentazione di sé) egli deve pensarsi come un essere, perché nessuna cosa è se non è una cosa. Dunque la coscienza deve essere individuale, o non sarebbe, cioè se il pensiero ha coscienza, è un essere, ma per necessità il pensiero è coscienza; dunque di necessità il pensiero deve rappresentarsi in forma individuale, ma essendo infinito e perciò non esaurendosi in un individuo solo, l’essere deve essere infiniti individui, ognuno un essere, un atto di coscienza finito dell’infinito pensiero, dell’infinita potenza di pensare. Detto sinteticamente: il pensiero in potenza, il principio, è uno e infinito, ma il pensiero in atto, l’essere, è individui infiniti di numero, è la somma degli infiniti atti di coscienza dell’essere. E poiché è necessario che l’essere si pensi e abbia coscienza, perché l’essere è pensiero e se non pensa non è, il che è impossibile, il suo atto molteplice di pensarsi è eterno e sono eterni dunque gli esseri, le sue coscienze. Quello che è contingente, semmai, è la forma spirituale, la quale finché è errata si modifica a seconda delle esperienze che spingono la coscienza a modificare le sue idee; ma una volta raggiunta la forma eletta, essa rimane tale in eterno.

 

Nota 8: c’è dunque un’antitesi tra le esigenze del mondo spirituale, che vorrebbe tutte le tendenze dell’anima libere di esplicarsi nel mondo terreno perché una volta rese evidenti le conseguenze nefaste di esse possano essere sradicate, e le esigenze delle società terrene, che devono reprimere coercitivamente quelle azioni violente che porterebbero alla loro distruzione. E’ per questo che la fonte autoritativa delle norme terrene non può essere la volontà divina, ma lo stato, per esistere, deve essere laico: il bene è diverso dall’utile (che è ciò che conserva in essere il corpo aggregato) e le società terrene devono perseguire l’utile, non il bene, se hanno lo scopo di esistere sulla Terra; che poi l’utile vada subordinato al bene, e che dunque la società terrena ideale procurerebbe l’utile dei cittadini perché essi avessero agio di arrivare al bene e non per altro scopo, questo è ben vero (si veda la Conclusione del presente scritto), ma ciò non toglie che l’organizzazione dello stato terreno va fondata su principi terreni e per finalità terrene, senza che si pretenda che i mezzi per far prosperare la società terrena piacciano a Dio e ci guadagnino il paradiso e che le vicende terrene della vita siano santificate con riti e sacramenti. Storicamente questa ibridazione  tra una religione della trascendenza, o escatologica, che dir si voglia (cioè che doveva fornire agli uomini i mezzi per vincere il mondo terreno e liberarsi della dipendenza dalle forze della Natura e tornare nel mondo reale) e una religione naturalistica come quella romana, finalizzata alla stabilità della società terrena, è stata disastrosa, dando luogo a forme politiche (imperi e monarchie per diritto divino) quant’altre mai ingiuste e violente, che metterà conto studiare dettagliatamente; ma ha avuto anche l’esito di creare un uomo lacerato e incoerente, per via della confusione tra finalità terrene e finalità celesti, sicché l’anima umana nell’evo cristiano è stata costretta ad attraversare un repertorio di forme instabili e bestiali che sarà importante analizzare. Quanto all’idea di un salutare disgusto di sé che proverrebbe all’anima dall’esperienza del male, ne anticipiamo qui un accenno e preghiamo il Lettore di riflettere e ricordare bene questo argomento, perché è molto importante per comprendere scientificamente il concetto di redenzione, che è guarigione dell’anima, liberandoci dall’assurdo dogma che nel Cristianesimo immise Ireneo di Lione e che è concezione mezzo aristotelica e mezzo superstiziosa, per nulla cristiana, di una redenzione compiuta da Cristo meccanicisticamente, lasciandoci per eredità biologica una forma (senza distinguere forma spirituale da forma biologica) rigenerata: per questo si sarebbe incarnato Cristo, per rigenerare in sé la forma che si era tarata col peccato di Adamo, e che da allora noi ereditavamo biologicamente già tarata di generazione in generazione, e lasciarci in eredità, al suo posto, quella sana; ma tale ereditarietà della forma sana, concepita da un lato biologicamente, dall’altro viene vista innescarsi in noi col rito del battesimo, che ci mette in comunione col Cristo, secondo tale ottica superstiziosa (per noi l’unica vera comunione tra anime è pensare la stessa verità). E c’è un’altra visione superstiziosa della redenzione (le due concezioni hanno convissuto tranquillamente per secoli e si sono mescolate senza che nessuno si occupasse di mettere ordine in questo guazzabuglio) che è di origine mitraica e deve essere confluita nel Cristianesimo grazie a Costantino (il mitraismo fu religione cara agli imperatori romani da Aureliano in poi), di una redenzione come favore divino propiziatoci da Cristo con il suo sacrificio cruento, essendosi lui offerto come vittima espiatoria. Che gli dèi si placassero grazie a sacrifici cruenti è superstizione proveniente dalla religione tradizionale politeista e l’idea di un Salvatore dell’umanità (tutta in blocco) che impiega per la sua impresa un sacrificio cruento è, appunto, mitraica. La visione scientifica dell’opera di redenzione messa in atto da Cristo sarà da noi trattata in uno scritto a parte, quando saremo riusciti a fornire al Lettore le nozioni e la competenza necessarie per comprenderla. A chi ne voglia un’anticipazioni (ma a suo rischio e pericolo) posso inviare, su richiesta, il mio scritto, una preghiera intitolata Sull’eutanasia, cui avevo dato stesura esasperato dal triste caso del sig. Welby, il Lettore se lo ricorderà; oppure un altro testo, intitolato Introduzione alla Scienza sacra, che non ho messo on line perché mi sono accorto essere troppo avanzato e dunque non del tutto comprensibile in prima battuta.

 

Nota 9: la volontà è la capacità di scelta, che l’anima esercita sui propri desideri nell’atto di realizzarli; cioè le singole volizioni, gli atti contingenti della volontà, sono quegli atti mediante cui l’anima sceglie, quando si presenta l’occasione, quale desiderio è di prima istanza in quel determinato momento e va dunque realizzato. Insomma, la volontà è un tipo di desiderio, e poiché il desiderio è la natura dell’anima (infatti l’anima è pensiero di sé e si muove per pensarsi quando desidera farlo, sicché pensare e desiderare di pensare, che è come dire essere e desiderare di essere, sono la stessa cosa), spetta all’anima di desiderare e dunque di esercitare la sua volontà ed è giusto dunque, poiché la definizione di giustizia è dare a ciascuno ciò che gli spetta, rispettare la volontà dell’anima anche quando è sbagliata; anche perché è sbagliando che si impara, non facendo finta di essere già perfetti.

 

Nota 10: il termine “peccato” è una parola vuota e priva di senso, che ha creato solo fumo nella mente dei fedeli e va dunque eliminato dal nostro vocabolario. Se per peccato si intende un‘offesa a Dio, esso non è nulla, perché non esiste un essere che è più essere degli altri e si chiama Dio, il quale si offende se non obbedisci a norme e precetti inventati dal clero per importi una morale falsa e dominarti, e costringerti a servire la specie. Il concetto fuorviante di peccato si è sostituito a quello di ingiustizia o colpa eclissandolo, danneggiando così l’anima umana che ne è rimasta confusa, vieppiù incapace di riconoscere il bene dal male. Per noi ingiustizia è deprivare un’anima da ciò che le spetta, e cioè del suo essere, che è coscienza che ha conoscenza di sé, e del suo valore e ogni azione che allontani l’anima dal suo bene, la conoscenza di sé e dell’essere, è una colpa così come è una colpa la sua umiliazione, che è negazione del suo valore; niente altro è colpa. Per esempio, per noi non è una colpa l’omosessualità, che invece i Cattolici definiscono un peccato perché secondo loro Dio si offende se non ti dedichi a riprodurre la specie terrena (finalità che interessa la Natura, che non è Dio, e anche se si offendesse, che ce ne importerebbe?); per noi piuttosto è una colpa umiliare una persona per una caratteristica del tutto innocente che le proviene dal corpo terreno e non dipende dall’anima.

 

Nota 11: richiamiamo, per comodità del Lettore, la definizione di “accidia” (cfr. supra, §5.9). Essa è il vizio di chi pretende di arrivare a un fine senza mettere in atto i mezzi opportuni che realmente possano produrlo, cioè la pretesa di ottenere un effetto senza attuare la causa che lo generi. E’ un tipo di menzogna, o di stupidità ed è il contrario dell’intelligenza, che è, appunto la capacità di procurarsi il bene, di appagare il proprio desiderio di bene trovando i mezzi opportuni per realizzarlo. Facciamo notare che, secondo la nostra definizione, l’accidia è diversa dalla semplice pigrizia, cioè dall’inclinazione a rinunciare all’azione e all’ottenimento di un qualche fine. In fin dei conti, se il fine era sbagliato, la pigrizia è quasi un bene… sto scherzando; la pigrizia è in realtà un sintomo di mancanza di amore, è debolezza dell’anima, ma meno grave dell’accidia, perché il pigro non mente a sé stesso fingendo di essere arrivato alla sua meta, ma semplicemente si rifiuta di raggiungerla.

 

Nota 12: Is.5,27. Tradotto, il simbolo significa: egli non si libera della sua vita terrena. Infatti anche nei sogni una cintura o un indumento che ti gira intorno alla vita simboleggia un ciclo vitale, l’arco di tempo di una vita.

 

Nota 13: devo anche aggiungere che in quel periodo ebbi un altro stimolo verso la ricerca, e cioè iniziai ad avere limpide visioni dei mondi spirituali; non posso negare che la visione diretta dei principi che compongono l’essere individuale, l’elemento liquido o matrice e le forme che lo cristallizzano, mi fu di non poca utilità per comprendere il discorso filosofico di Platone, perché poi vi riconobbi, quando, dopo essermi iscritto alla facoltà di filosofia, nel 1987, iniziai a leggere i suoi Dialoghi, la descrizione teorica di ciò che avevo visto direttamente nelle mie estasi e che mi ero spiegato con termini abbastanza simili. Ebbi il compito in questo periodo di difendere le mie visioni della vera realtà dal “drago” (=corrente di pensiero irrazionale) psicoanalitico, visto che, com’è ovvio, il sedicente terapeuta declassava le mie visioni a prodotti dell’inconscio e le interpretava di prepotenza in maniera farneticante e volgarissima. La cosa più difficile fu capire la natura della materia terrena, ma mi aiutarono in parte Platone, Plotino, Boezio, Leibniz e così via, in parte le visioni e le tradizioni simboliche antiche. Bisognerà parlare più in dettaglio di questo argomento, per ora sia sufficiente affermare che i contatti dell’anima coi mondi dei corpi semplici, i corpi di pensiero, non sono sintomi di malattia mentale che vengono dall’inconscio, né allucinazioni o sogni. Nessun contenuto della coscienza è un’allucinazione ma è sempre la rappresentazione di qualche cosa, di una realtà spirituale; e nessun sogno è solo un sogno, ma le immagini dei sogni sono rappresentazioni di cose reali espresse in un linguaggio particolare. L’anima “sogna” soltanto qui nella realtà terrena, quando crede di essere sveglia e invece è ipnotizzata dal sistema nervoso e costretta a vedere quello che non c’è realmente, ma sembra soltanto, e quello che realmente è, non lo vede (chi non sia convinto di questo rilegga, per favore, il libro I de Il fondamento della ricerca, e passim). L’importante è che le visioni estatiche e gli altri tipo di percezione spirituale vengano fondate sulla retta ontologia e interpretate secondo la corretta grammatica simbolica della manifestazione, altrimenti diventano pseudomisticismo fumoso e irrazionale e portano all’esaltazione. Cioè, i “mondi” (=esseri intelligenti, spiriti divini) ingannano l’incompetente, il negligente e l’accidioso, mentre danno alla persona seria ed impegnata, che si sia procurata la capacità di interpretare rettamente i simboli, istruzioni preziose: parleremo anche del doppio uso che essi fanno di questi fenomeni e della loro ambiguità, ma in altra sede, quando sarò riuscito a fornire al mio Lettore le armi sufficienti per non correre rischi.

 

Nota 14: questa visione della razionalità come artificio pericoloso che ci allontanerebbe dal nostro vero essere, che è la legittimazione del “secondo oscurantismo”, come propongo di chiamarlo, cioè quello degli psicoanalisti e consimili (ce n’è molti, di questi mostri feroci contro la ragione, in quelle insulse correnti esoteriche denominate “new age”, dove si trovano spesso oscuri connubi di vecchi irrazionalismi con la moderna psicoanalisi), poggia su una concezione sbagliata della natura umana, che vorrebbe l’uomo essere il risultato di un determinismo naturale inderogabile, e cioè qualcosa che viene foggiato da forze meccaniche extraumane intese come leggi di natura, e che quindi scambia per vero essere dell’uomo quello determinato dagli istinti animaleschi, i quali provengono dal corpo terreno e che noi sappiamo essere, invece, interferenze di cui l’anima è vittima, ricevendole passivamente dall’intelligenza che governa la specie (cfr. La cura dell’anima, nota 6 al libro II) e che hanno la funzione di eclissare i suoi veri affetti. Nell’ottica materialista, dunque, la spontaneità coincide con lo sfogo degli istinti animaleschi, mentre per noi la spontaneità, o sincerità, coincide con la capacità di esprimere i veri contenuti della propria coscienza ed è dunque il contrario dell’ipocrisia, non dell’impiego della ragione. Né per noi, ovviamente, la ragione è un artificio, essendo ella invece la vera natura dell’anima, cioè la causa vera del suo essere, poiché se l’essere è pensiero e conoscenza di sé, l’anima nasce realmente da sé stessa ed è essere in senso proprio quando si rappresenta mediante le rette idee di essere e di bene, quando cioè la coscienza si fa ragione. Infatti definiamo la ragione come capacità di riflettere rettamente le idee (sul termine “natura” cfr. Il fondamento della ricerca, §3.4).

 

Nota 15: è importante notare che l’uso improprio del linguaggio, cioè quel particolare tipo di solecismo che consiste nel chiamare una cosa col nome di un’altra, è estremamente pericoloso e spiriticida, poiché cambiando il nome di una cosa si può rovesciarne il giudizio di valore, cioè far apparire come male un bene e come bene un male. Si pensi solo come di recente, in Italia, si sia diffusa la moda di chiamare “comunismo” la giustizia e di bollare come “illiberale” qualunque azione ponga dei limiti alle smanie di smodato arricchimento o alle pretese di impunità di qualcuno. Il rigore terminologico, che consiste nel dare le definizioni precise, col retto metodo, alle cose è un arma indispensabile per difendersi da simili attacchi.

 

Nota 16: in termini simbolici questo incontro devastante con la psicoanalisi si chiama “dover bere l’aceto”, perché se il vino, ciò che ubriaca l’anima e la rende stolta, è la religione, e nella fattispecie il Cristianesimo storico (vedasi il simbolo della vigna, che significa la Chiesa, e che i Cattolici credono avere un significato positivo mentre esprime a chiare lettere la funzione “satanica” che tale istituzione svolge, producendo “vino”, cioè ubriachezza, come dire stoltezza, nelle anime, e non sapienza), l’aceto, che è vino inacidito e dunque è ciò che viene dopo il vino, rappresenta il succedaneo laico e materialista della religione cattolica, la psicoanalisi. Tale pseudoscienza, infatti, eredita la funzione di nascondere l’anima a sé stessa e indicarle una falsa via verso la salute che era prima propria del Cristianesimo storico. Anticipo qui, sperando di invogliare il Lettore verso questa via di ricerca, che la vicenda storica del Cristo ha anche un significato simbolico e profetico: annunzia, infatti, quello che deve capitare a un’anima eletta (su questo termine cfr. supra, note 2 e 3 a questo medesimo libro VI) nella sua esperienza terrena. Ciò che patisce il Cristo sulla croce è ciò che travaglierà l’anima eletta, quando sta ancora lottando contro le lesioni che il sistema di idee terreno le ha inflitto (le cinque piaghe e le quattro braccia della croce: anche i numeri hanno un significato preciso, che però ora sarebbe troppo lungo spiegare, dipendendo da una periodizzazione storica che non è di dominio comune) e prima di “risorgere”, cioè trovare la verità e nascere nuova. E l’aceto che tormenta le sue labbra piagate dalla sete è, appunto la psicoanalisi, in cui l’eletto dapprima, ingenuamente, si aspetta di trovare luce sull’anima, alleviando la sua sete di sapere, e dalla quale si trova invece crudelmente torturato.


LIBRO VII.

 

 

 

 

 

CASISTICA.


LIBRO VII.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Si riprende la questione: è possibile compiere azioni giuste e vivere una vita etica?(7.1).

 

Definiamo i generi dei mali e dei beni(7.2) e notiamo che piacere e dolore fisici non hanno niente a che vedere col bene e col male(7.2).

 

Azioni giuste verso sé stessi: primo, non sacrificare il tuo bene all’utile del corpo; chi lo fa commette colpa verso sé stesso(7.3-7.5). Omettere di ricercare le cause del male nella storia e quindi di collaborare al loro sradicamento è negligenza(7.5). Procurarsi il bene è azione giusta anche verso il prossimo; omettere di rettificare sé stessi e rendersi innocui è una colpa anche verso il prossimo(7.6-7.7). Secondo, datti il retto valore, fatti rispettare, combatti contro coloro che vogliono svalutarti(7.7).

 

Azioni giuste verso il prossimo: desideri e sentimenti razionali; si riprende e si approfondisce l’argomento: rispetto verso la realtà, non pretendiamo di realizzare l’impossibile, ma procuriamoci la retta comprensione dei mezzi opportuni per realizzare il bene e far sì che il nostro prossimo accetti la verità(7.8-7.13). Di nuovo sull’importanza del principio ontologico-psicologico per cui il bene non può essere imposto all’anima dall’esterno, perché ella non pensa la verità se non la vuole pensare(7.8). Abbiamo un mezzo per convincerla a volere la verità e ad accettare di rettificarsi: soffrire per le sue colpe e comunicarle la nostra collera, ma a suo tempo (7.9-7.10). Non è razionale dunque disperarsi per non essere riusciti a condividere il bene con nessuno in questa vita terrena: essa è solo una fase preliminare, poi verrà la resa dei conti(7.11). Strategia da tenersi(7.12).

 

Colpe verso il prossimo: negare il suo essere, cioè la retta conoscenza di sé, accollandogli immagini false di sé stesso: la religione, la falsa scienza e le abitudini comuni cadono in questa colpa (7.13-7.14). Anche negare il valore degli altri è una colpa: alcuni modi di svalutare il prossimo(7.15). Anche sottrarre al prossimo il tempo della sua vita costringendolo a impiegarlo in cose diverse dalla ricerca del bene è una colpa: esempi(7.16).

 

Primo accenno al seguente argomento: la procreazione è una colpa(7.17).


7.1.Ogni promessa è debito, e il Lettore si ricorderà che avevamo chiuso il libro IV del presente scritto con una promessa: avendo acquisito, dicemmo ivi, grazie all’applicazione del metodo logico, gli strumenti per il giudizio, non ci resta che esaminare la somma di azioni giuste e virtuose di una vita buona, e poi stabilire quale sia una vita veramente etica realizzabile nel periodo storico in cui stiamo ora vivendo e magari vagheggiare un’utopia per il futuro. Poi però ci siamo concessi una lunga digressione sulla realizzabilità della condivisione del bene e cioè sulla possibilità di agire virtuosamente in maniera giusta, per evitare di illuderci inutilmente. Agis, sperando di essere compreso, ha confidato al Lettore il suo cruccio e la sua speranza: dato che la giustizia è la realizzazione del bene e la realizzazione del bene è dare a ciascuno ciò che gli spetta, cioè la verità, che è l’essere dell’anima, e senza la giustizia non si può arrivare a vivere una vita veramente etica, Agis si era impegnato a condividere il bene, la sua dottrina sulla verità, con le persone che incontrava via via, ma non c’è mai riuscito. Diciamo che la mia tendenza alla giustizia si è arenata su uno scoglio e non è riuscita a diventare virtù. Povero Agis! Ma forse esaminando più a fondo le cose troveremo che, in fin dei conti, anche una vita dedicata solo alla cura della propria anima, e senza alcuna soddisfazione diversa dall’aver rettificato sé stessi, si può definire una vita etica. I filosofi hanno già dimostrato di sapersi consolare da soli: se c’è riuscito Severino Boezio(1), che in quel momento, tra l’altro, stava peggio di me, perché non potrei riuscirci anch’io?

7.2.Riprendiamo il discorso sui vizi e sulle virtù e sulle azioni buone e virtuose che un uomo (o una donna, si capisce, per noi il sesso del corpo terreno non fa alcuna differenza) può fare nella sua vita. Esamineremo anche una serie di errori che invece nella vita si possono compiere travisando, come si fa continuamente, i concetti di bene, male, vizio,virtù. Non pretendiamo di essere esaustivi nella nostra casistica, ovviamente, anche perché una volta afferrato il fondamento dell’etica, ognuno saprà bene trarre le proprie deduzioni da sé, ogni qual volta se ne presenti l’occasione. Ma vorremmo dare un’ampia esemplificazione della materia che forse sarà utile a comprenderla meglio. Dobbiamo però preliminarmente completare la trattazione di prima, cioè la serie di definizioni. Innanzi tutto dobbiamo ancora dare i nomi dei generi: abbiamo dato l’elenco delle cose che definiamo beni e delle cose che definiamo mali, nei §§3.2-3.3, ma non abbiamo ancora dato una definizione generica ai beni e ai mali. In secondo luogo, come già notato, non abbiamo classificato il dolore fisico né il piacere fisico, e abbiamo per lo più tralasciato di parlare delle cose materiali (nel senso di quelle della corporeità aggregata(2)). Dobbiamo ora colmare la lacuna. Non è difficile, perché se abbiamo chiamato bene l’essere e la sua vita, che è coscienza che conosce rettamente sé stessa, e male il non essere, che è la dimenticanza della retta idea di essere che spinge l’anima alla malattia e alla morte spirituale, cioè ignoranza e stoltezza(3), e a una falsa rappresentazione di sé, possiamo definire il genere dei beni come l’insieme delle cose che avvicina l’anima all’essere, alla vita, quella vera, che è pensiero e non processo biologico; e il genere dei mali come l’insieme delle cose che allontanano l’anima dalla vita vera, dall’essere, che è pensiero, e cioè ciò che la rende dimentica dell’idea di essere e induce in lei ignoranza e stoltezza, e false immagini di sé e della realtà. Com’è evidente, in nessun modo i piaceri, che sono sensazioni comunicate all’anima dal corpo aggregato (chiamiamoli, per brevità, “piaceri fisici”), rientrano nella definizione di bene e nemmeno i dolori fisici (idem, come sopra) rientrano pienamente nella definizione di male, perché né i piaceri ci avvicinano all’essere, alla conoscenza della verità, né le sofferenze fisiche ci allontanano dall’essere, cioè ci rendono dimentichi, più di quanto non fossimo prima, della retta idea di essere e della verità(4). Non prendo neanche in considerazione l’idea che il piacere fisico in sé sia un male e che il dolore fisico sia un bene se non addirittura un merito, che è un’idiozia cattolica, una stortura mentale dettata da invidia e crudeltà verso il prossimo.

7.3.Possiamo classificare con ordine le azioni buone e giuste e le rispettive negazioni di esse, che sono errori e colpe, dividendole in azioni giuste compiute verso sé stessi e azioni giuste compiute verso il prossimo, colpe verso sé stessi e colpe verso il prossimo. Infatti avevamo definito la giustizia come dare a ciascuno ciò che gli spetta, a sé stessi come a tutte le altre anime. Ci spetta essere e valore, dicemmo; e il nostro essere, la nostra vita, è coscienza pensante ed è viva e sana solo quando conosce rettamente sé stessa e il suo pensiero è retto: quando il pensiero è retto, l’essere è sano, perché il pensiero è l’essere. La prima serie di azioni giuste che l’anima può compiere verso sé stessa, dunque, è darsi agio nella vita di alimentarsi di sapienza e vivere sana; poiché, se il pensiero è l’essere, l’unico vero alimento per noi che siamo essere è il pensiero retto che ci fa essere, ed è errato preoccuparsi più della vita biologica che di quella spirituale, è un errore dedicarsi solo a trovare le risorse per alimentare il corpo aggregato che non è il nostro vero essere e lasciare l’anima priva del suo nutrimento. Commette un grave errore, e una colpa verso sé stesso, dunque, colui o colei che relega in seconda istanza le esigenze dell’anima convinto che procurarsi il mantenimento per il corpo terreno sia la cosa più urgente da fare nella vita. Coloro che si pongono come unica o principale meta trovare il posto fisso o dedicarsi a una professione, o insomma, come si dice, “sistemarsi”, avere sicurezza economica, provvedere alla propria vecchiaia preoccupandosi del benessere, e a questo sacrificano tutto il resto, sbagliano di grosso, commettono grave colpa verso sé stessi, deprivandosi di ciò che loro spetta: il progresso spirituale verso la verità. E’ importante, invece, ed è un’azione giusta organizzare la propria vita in funzione dell’anima, della sua cura: ridurre al massimo i bisogni del corpo e accontentarsi di lavori poco impegnativi, che ci lascino libera la maggior parte della giornata perché possiamo studiare e riflettere sistematicamente e con continuità, e che non ci richiedano uno spreco di quelle energie che vanno finalizzate alla ricerca del bene, della sapienza sull’essere. Dunque la PRIMA NORMA di comportamento che vorrei proporre è: non negarti l’essere, perché l’essere ti spetta e ricordati che sei, in senso proprio, solo quando sai che cosa realmente sei; tu sei l’essere, per conoscere te stesso devi procurarti la retta conoscenza dell’essere, e difenderla dai pensieri errati che troverai nel mondo, dunque procurati la retta ontologia, apprendi il retto metodo di ragionamento e confuta i saperi falsi, magari esaminandone la genesi storica… Così avrai compiuto azioni giuste verso te stesso, avrai fatto il tuo bene. E ricorda che la nostra vera vita è coscienza che pensa rettamente, il nostro vero essere è l’anima e che dunque è errato trascurare l’anima col suo alimento specifico che è la sapienza, perdendo la vera vita, e dedicarsi unicamente a procurare nutrimento terreno a quello che non è il nostro vero essere, ma una maschera e una simulazione. Non sacrificare il bene dell’anima all’utile del corpo, ma viceversa riduci i bisogni del corpo e cura l’anima.

7.4.E non dar retta a chi cerca di spaventarti chiedendoti: che cosa farai quando sarai vecchio? che farai se ti ammali? Non venderti l’anima per avere in cambio sicurezza a stabilità economica. Se non puoi fare a meno di queste cose, sappi che mentre ti senti tranquillo nella vita terrena, che è solo simulazione, stai gettando via la tua vita spirituale, che è quella vera, ti stai arricchendo nel mondo dell’apparenza, nei sogni, e stai diventando povero e miserabile nel mondo vero, nella vera realtà. Credi di guadagnarti la vita e ti stai procurando la morte; appena la maschera sarà caduta, avrai un’amara sorpresa. Per guadagnarti veramente la vita devi procurarti la sapienza, perché quella è la nostra vita. Non spendere, dunque, il tempo della tua vita, che vale di più, dietro al denaro, che vale di meno: non pagare oro puro della volgare tolla. L’unica vera ricchezza è la sapienza. Un ultimo monito: non ti illudere di poter trarre il tuo guadagno dal tuo esercizio spirituale, come fanno quelli che vogliono trasformare la loro attività intellettuale in un lavoro remunerativo e farne la propria fonte di sostentamento: lo spirito subordinato al lucro deve sottomettersi alle esigenze del mercato, deve adeguarsi alla cultura dominante, ai gusti dei compratori e deformarsi per farsi accettare dalla mentalità comune. Riserva il tuo spirito per la verità, non per il lucro o per il successo. Sono esclusi dalla vita etica i pennivendoli: scrittori di successo, giornalisti, filosofi e intellettuali che chiacchierano in TV invece che sedersi a tavolino e studiare seriamente, accademici prestigiosi che si premiano a vicenda purché nessuno infastidisca il potere costituito, chi pubblica libri di divulgazione in questo disgraziato sistema editoriale che mira al profitto e non alla verità, e così via. Ricordati il simbolo che ci è offerto dal rito misterico(5) di una religione antica : il sacerdote si china a recidere la spiga matura in silenzio.

7.5.Sii povero ed emarginato, dunque, e sarai libero, non servire il potere, ma te stesso, la tua anima, cioè Dio. In generale, sono esclusi dalla vita etica tutti coloro che, come si dice, siano “introdotti nel mondo del lavoro” e, ben sistemati, vivano comodi: non c’è posto fra gli eletti(6) per chi si dedica alla cultura nei ritagli di tempo, in maniera disordinata, non sistematica e frivola. C’è una bella differenza tra la sapienza e un’erudizione superficiale, una cultura pseudointellettuale, raffazzonata a vanvera da chi la usa per darsi un tono in società e pavoneggiarsi nei salotti, o anche tra chi è veramente cercatore della verità e chi amando la cultura per vero interesse, però se ne concede quel tanto che basta per tenersi aggiornato e soddisfarsi un po’, e per il resto si occupa d’altro. Conoscere lo spirito, l’uomo, la sua storia e il senso di essa è una passione totalizzante che assorbe tutta la tua vita, la tua anima e il tuo cuore, o è del tutto inefficace. Il Lettore dovrà rendersi conto che per realizzare il bene, cioè collaborare alla guarigione dell’anima umana, ci vuole un’approfonditissima competenza sul suo essere e sui suoi mali e sui mezzi di guarigione. E poiché le radici del male (i sistemi di idee errati, voglio dire) stanno aggrovigliate nella storia terrena dell’uomo, chi non si dedichi capillarmente all’analisi dei fatti storici e del loro significato spirituale e non si procuri la competenza utile a confutare le idee errate che si sono susseguite nella cultura umana ammalando l’anima, onde collaborare al loro sradicamento, non può dire di stare conducendo una vita etica; ed è inutile raccontarsi di esser buoni e giusti curando la propria famigliola, andando a messa e facendo volontariato: la negligenza di fronte al male è una colpa e ve la rinfacceremo, a suo tempo.

7.6.Ma, a dire la verità, chi rispetta sé stesso e si procura il bene, la retta sapienza, ha allo stesso tempo compiuto una giusta azione anche verso il prossimo, perché si è reso incline al bene, e dunque non nocivo. Infatti sono azioni colpevoli anche i sentimenti ostili che cova verso il prossimo un’anima ammalata, che ha in sé tendenze irrazionali. Il superbo che vuole ingigantire sé stesso e deprivare gli altri del loro valore cova invidia, che è appunto il desiderio di chi vuole deprivare gli altri di ciò che, a torto o a ragione, crede un bene, quando egli non lo possegga; e gelosia, che è il sentimento di chi vuol riservare unicamente a sé stesso qualcosa che, a torto o a ragione, crede essere un bene, quando già lo possieda o creda di possederlo. Sono due tipi di ostilità verso il prossimo e sono colpe, perché chi ne è oggetto viene deprivato di ciò che gli spetta, l’amore, e se ha capacità di percepirle correttamente, giustamente ne soffre. E già dimostrammo nel nostro precedente scritto La cura dell’anima, che l’anima desidera l’ingigantimento di sé come fosse un bene perché ignora quale sia il suo vero valore, perché non possedendo la retta idea di essere ignora di essere l’essere, e dunque di essere il bene e di avere valore infinito, e di non avere bisogno di darsi un valore spurio con altro, con qualcosa di esterno a sé stesso. Rettificando l’idea di essere l’anima confuta questo falso bene e il desiderio di ingigantirsi svanisce, svanisce la superbia, si ritrova l’amore per l’essere e dunque per sé stessi e per il prossimo insieme, perché l’essere è la somma di tutte le coscienza, la nostra e quella del prossimo, e l’ostilità svanisce. L’anima pura, scevra da errori concettuali, è sana e sa solo amare. Dunque tenere pura la propria anima e priva di macchie, cioè di concezioni errate, applicarsi allo studio dell’ontologia e alla comprensione dell’anima, non è un’azione da egocentrici che pensano solo a sé stessi e non si dedicano al prossimo, ma è un atto d’amore anche verso il prossimo. Infatti, se è buona educazione tenere pulita la propria casa e sgombero da sterpi e cespugli spinosi il proprio giardino perché gli ospiti, quando vi entrano, non si trovino a dover camminare in mezzo alle spine e mettere le mani nel nostro sudiciume, a maggior ragione è un atto giusto e buono mantenere la propria anima sgombera da sentimenti negativi e desideri maligni, e questi rampollano dalle false idee di bene che si confutano con la retta conoscenza dell’essere(7). Sicché solo chi ha compiuto il lavoro preliminare di rettificare le proprie idee sarà capace di avere a che fare col prossimo senza aggredirlo con sentimenti ostili come l’invidia e la gelosia, e di non disgustarlo col sudiciume di bassezza e volgarità. Posso consolarmi un pochino, dunque, per il fatto di non aver realizzato il bene nel mio prossimo neanche una volta: almeno mi sono reso innocuo, la mia anima è tale da non inclinare a far danno a nessuno, e questo è già un’azione giusta verso il prossimo. E’ un atto di giustizia rendersi capaci di rispetto e amore.

7.7Hanno torto dunque coloro che omettono di impegnarsi di trovare la verità sull’essere e su sé stessi, perché così facendo lasciano rampollare nella propria anima tutte le tendenze irrazionali nocive verso il prossimo e perciò tale negligenza non è solo una colpa verso sé stessi, ma anche verso gli altri. In effetti, per poter condividere il bene, bisogna prima possederlo e dunque procurarselo; e se uno è nocivo perché ha omesso di occuparsi di sé sradicando dalla propria anima le tendenze malvagie, non può pretendere di dedicarsi al bene degli altri, ma può solo far finta; ed è assurdo dunque il concetto di “sacrificarsi  per il prossimo”, perché se sacrifichi il tuo bene, e dunque non possiedi il bene, come puoi darlo al tuo prossimo? Lasciare in sé ignoranza e stoltezza è negligenza grave. Ma proseguiamo nella nostra classificazione delle azioni giuste: dopo aver dato a noi stessi l’essere procurandoci la sapienza, se vogliamo essere giusti verso noi stessi dobbiamo anche darci il retto valore. Umiliarsi è un atto di ingiustizia, perciò la SECONDA NORMA che qui voglio proporre è: fatti rispettare. Non lasciarti trattare da nessuno da meno di quello che sei. Ricordati che sei l’essere, una delle infinite coscienze dell’essere e cioè, potenzialmente, un dio (questo è il nome che si dà all’anima eletta, tradizionalmente) e lo sarai attualmente quando avrai rettificato tutte le tue idee e ti sarai procurato un intelletto, cosicché anche tutte le tue tendenze siano rivolte al bene. Non lasciare che ti trattino da incapace di intendere e di volere: chi ti dice che devi credere ciecamente perché non sei in grado di capire una verità soprarazionale e misteriosa e che hai bisogno di lasciarti illuminare dalla fede ti insulta e ti imbroglia: ciò che non è razionale è irrazionale, per definizione, e dunque non è verità, e ciò che è misterioso è oscuro e non ti illumina; chi getta discredito sulla ragione ti svaluta, perché tu sei pensiero e ragione, e svalutarti è una colpa verso di te. Se la ragione è la facoltà di vedere rettamente le idee, e le idee, che rappresentano l’essere, sono la verità, la ragione è la facoltà specifica di vedere la verità, e chi la svaluta ti nasconde l’essere, ti fa non essere, ti uccide. E chi ti calunnia convincendoti che sei colpevole e incapace di giustizia perché sei umano, facendoti credere che l’unica via di salvezza è ammettere la tua incapacità e impetrare perdono presso la misericordia divina, sta solo sfogando la sua invidia, non lasciarlo fare. Chi impiega rettamente la ragione e vede l’idea di giustizia è giusto e non ha bisogno di umiliarsi di fronte a un Dio per ottenere misericordia. Sii giusto e fatti rispettare, non lasciare che costoro ti guastino l’anima. E combatti anche contro coloro che ti trattano da sottoprodotto della materia a ti considerano un meccanicismo determinato da cause esterne come se la nostra forma dipendesse da un’inderogabile legge di natura. La Natura ci imprime degli istinti, ma noi con la ragione possiamo sradicarli e vincerli. E non farti insultare da chi nega la tua intelligenza e la tua volontà dipingendoti come un burattino dell’”inconscio”: non esiste nessun inconscio, perché l’essere è coscienza di sé e una cosa che non ha coscienza non è essere e dunque non è(8). Tu sei coscienza e volontà e sei autonomo, decidi tu che cosa essere se non ti lasci ingannare da chi per privarti del tuo valore ti impone una rappresentazione falsa di te stesso. E non svalutarti da te, non pensare di non meritarti la felicità; ti spetta, invece, perché sei l’essere e l’essere è il bene, e a ogni essere spetta l’infinita fruizione del bene, che è la felicità. Non accontentarti di niente di meno. E sappi che chi non ti ama, cioè chi non vuole il tuo bene, commette colpa verso di te perché ti depriva di ciò che ti spetta, il bene. Se qualcuno ti dice che devi sacrificare il tuo bene in nome di qualcos’altro, qualunque cosa sia, non dargli retta perché sta solo sfogando la sua invidia. E se qualcuno prova antipatia per te perché stai procurandoti la salute dell’anima, cioè sapienza e bontà, che è eccellenza, e ti accusa chiamandoti presuntuoso, superbo, pieno di boria e di orgoglio, non lasciartene condizionare: abbiamo dato la definizione di superbia come tendenza ad ingigantire sé stessi e la propria importanza(9), e se stai rettamente cercando la sapienza, tu non ricadi sotto questa definizione, perché stai cercando la verità e il tuo retto valore, non un valore ingigantito indebitamente. Se cerchi la verità, cioè desideri il bene, hai la bontà, perché il desiderio di bene si chiama bontà e se desideri realizzare il bene, cioè condividerlo con tutti dando a ciascuno ciò che gli spetta e non deprivando nessuno, sei giusto e non è superbia accreditarsi bontà e giustizia quando nell’anima si hanno realmente tali virtù. E’ superbia negare il valore del prossimo.

7.8.Passiamo a elencare quelle che per noi sono azioni giuste che si possono compiere verso il prossimo, a parte quella che già dicemmo, cioè tenere sgombera la propria anima dai semi del male, dalle concezioni irrazionali sull’essere e sul bene che producono tendenze a desideri nocivi e a sentimenti malvagi che ti rendono dannoso. Se sai che l’essere è il bene, e che l’essere è infinite coscienze, la tua e tutte le altre, sentendo anche tutte le altre anime come bene, desidererai il loro essere e darai loro valore. In pratica che cosa significa questo? Desiderare il bene del prossimo significa volere che si liberi dal male, e dunque compiere azioni giuste verso il prossimo significa capire quali sono i mezzi che consentono a ciascuna anima di liberarsi dal male. Sulla possibilità che questo accada abbiamo discusso già a lungo, spero solo di essere riuscito a esprimere un concetto molto importante: finché uno non si è procurato i mezzi perché il suo prossimo accetti di sradicare il male da sé rettificando le proprie idee, è meglio che si astenga dall’agire. Infatti non dobbiamo avere fretta di realizzare il nostro desiderio di liberare il prossimo dal male tanto per raccontare a noi stessi che siamo giusti e virtuosi, ma dobbiamo vedere la realtà, non possiamo forzare la realtà a essere come fa comodo a noi. E dobbiamo procurarci i mezzi perché questo accada davvero, non illuderci soltanto. I mezzi per portare un’anima a desiderare la verità non sono in mio potere né in quello di nessun altro uomo. E ricordiamoci che la verità non si può imporre, non si può introdurre nell’anima con la forza, con la coercizione o mediante qualche potere misterioso e invisibile: l’anima non è una cosa soggetta a meccanicismo, che si possa determinare dall’esterno(10), è pensiero e non ha in sé la verità se non la pensa, e non la pensa se non la vuole pensare. Infatti pensiero e volontà di pensiero sono la stessa cosa, il pensiero è libero movimento dell’anima, è l’atto volontario mediante cui ella rappresenta sé stessa e specchia l’essere, se non c’è volontà di pensare non c’è pensiero e non c’è anima. Quando l’anima guarda un’idea (guardare un’idea=pensare) è mossa dalla volontà di guardarla e se questa volontà non c’è, non esiste altro modo perché lo faccia. Dunque perché l’anima rettifichi un’idea in sé stessa, cioè si rivolga a guardare quella retta dopo aver confutato la concezione errata ed oscura che la eclissava, deve desiderare di farlo, e scegliere attivamente di mettere in atto questo desiderio, cioè volerlo fare. Noi non possiamo costringerla, tutto ciò che possiamo fare è non interferire e non ostacolarla. Desidererà farlo quando ne sentirà la mancanza(11).

7.9.Ma dunque non possiamo fare nulla attivamente per il bene del prossimo? Sicuramente non quello che comunemente si pensa, cioè tentare di indottrinarlo e convincerlo ad agire bene per dovere, per guadagnarsi una buona reputazione o con minacce di pene eterne e promesse di premi ultramondani, né tanto meno imporgli un credo con la coercizione, che sarebbe un’azione errata, come testé detto, anche se tale credo coincidesse con la verità, a maggior ragione lo è quando è un credo irrazionale. Però qualcosa possiamo fare. Non qualcosa di vistoso, che ci dia subito la soddisfazione illusoria di aver compiuto chissà che impresa, di aver ritrovato una pecorella smarrita e di averla redenta, ad esempio, o addirittura di aver fondato il regno di Cristo sulla terra per aver diffuso il suo culto e di aver redento tutte le pecore in blocco: noi non abbiamo fretta, dicemmo, perché sappiamo che l’anima è immortale e che non esiste l’inferno eterno di cui parlano i Cattolici, che spalanca le sue fauci e ti inghiotte dopo il brevissimo arco di una vita umana, se hai commesso qualche “peccato”; né desideriamo far mostra d’essere santi con poca spesa, creando uno scenario fittizio in cui noi facciamo i vicari di Cristo e coi suoi poteri miracolosi salviamo le anime dei fedeli sottomessi alla nostra Chiesa. No: il nostro fine non è l’autoesaltazione, ma il bene degli uomini, quello vero. E usiamo intelligenza per procurarcelo, e insieme all’intelligenza la pazienza, che è il contrario dell’accidia. Se l’accidioso pretende di procurarsi un fine senza mettere in atto i mezzi opportuni perché esso si realizzi (che è, già lo dicemmo(12), un tipo di stupidità o anche di disonestà concettuale), l’uomo paziente mette in atto i mezzi opportuni e aspetta che si realizzino senza fretta, senza impazienza, appunto, perché è onesto concettualmente e non vuole mentire a sé stesso procurandosi una soddisfazione illusoria, vuole il bene vero. E la nostra intelligenza ci ha detto che se vogliamo che un’anima accetti la verità deve sentirne la mancanza, deve accorgersi delle conseguenze nefaste prodotte dalla sua forma spirituale oscura ed errata. E fra le conseguenze nefaste della sua forma spirituale priva di verità c’è il male che ella ha fatto a noi, cioè le azioni ingiuste messe in atto nei nostri confronti. Se noi percepiamo correttamente tali ingiustizie, e cioè se razionalmente giudichiamo un male quello che ci è stato fatto o che si è tentato di farci, e percependo il male soffriamo, questa sofferenza va a carico di chi l’ha provocata. E’ dunque un’azione giusta procurarci la capacità di distinguere rettamente il bene dal male, affinché, quando riceviamo il male, lo percepiamo razionalmente come tale e proviamo il sentimento razionale della sofferenza. La sofferenza razionale, come abbiamo già detto (13), è un bene; e aggiungiamo qui: è anche un’azione giusta, poiché così diamo a ciascuno ciò che gli spetta, cioè al colpevole diamo la colpa. Infatti, se sopportiamo tutto e perdoniamo a vanvera, come pretendono che facciamo i Cattolici, non diamo a ciascuno ciò che gli spetta, perché neghiamo una realtà, che quello ci ha fatto soffrire e che ha commesso un male. E’ vero che dicemmo che anche l’anima ammalata ha valore infinito, che anch’essa è un bene e che l’amiamo; ma amare qualcuno, non significa dargliele tutte vinte, amare qualcuno significa desiderare il suo bene, cioè che si liberi dal male, dalla sua forma spirituale errata, sicché possa raggiungere il bene, la salute dell’anima per il possesso della verità. Ma se noi trascuriamo di soffrire e di rimproverarlo per il male che ci ha fatto, egli non sarà colpito dalle conseguenze nefaste della sua forma spirituale errata e non proverà mai il desiderio di rettificarla. Con la loro assurda etica del perdono a vanvera, i Cattolici ci privano dell’unico mezzo che abbiamo per indurre le anime a rettificarsi. Perciò proprio perché, come raccomanda il Vangelo, noi amiamo i nostri nemici e cioè vogliamo il loro bene, lo sradicamento del male dalla loro anima, non perdoniamo nulla. Prima devono redimersi e diventare giusti, e poi li perdoneremo. Ed è una prova in più di quanto, per amare realmente e non fare solo mostra di una bontà fasulla e sdolcinata, occorra l’intelligenza.

7.10.Dunque le azioni giuste verso il prossimo sono i nostri sentimenti razionali. Chi sa soffrire(14) fa il bene del prossimo, anche se i frutti di questa sofferenza non maturano subito, in questa vita. Non si pretende infatti che chi ti colpisce ammetta di averlo fatto, inorridisca di sé e subito si redima, entro l’arco della vita terrena. Non succede mai; qui l’anima può mentire a sé stessa e coprire la realtà, e fingere d’ignorare di aver compiuto ingiustizia e la tua sofferenza non le fa neanche il solletico: qui siamo nel mondo alla rovescia, dove non compare mai quello che è reale e dove quello che sembra non è mai realtà. Qui i malvagi sono stimati e riveriti. Ma nel mondo vero dove i contenuti della coscienza sono realtà e appaiono riflessi simbolicamente nello spazio, e dove tutti si troveranno prima o poi, il malvagio dovrà ben affrontare la visione della sua colpa e della giusta collera che essa ha provocato, allora non potrà autoingannarsi, non potrà mentire(15). Non facciamoci imbrogliare da chi dice che la vendetta spetta solo a Dio: “la vendetta è mia, dice il Signore”. Già, ma noi siamo il Signore: l’Assemblea dei giusti, delle anime elette è il Signore (nel senso che ha la sovranità: Signore è un termine politico per indicare, appunto chi detiene potere decisionale, e dunque è un altro nome dell’eletto, che fa parte dell’assemblea sovrana, la “chiesa” vera, non quella terrena che ha potere solo sul mondo finto della simulazione) e quelli siamo noi, e noi siamo in collera e ci spetta la vendetta. Ed è vero anche che “la miglior vendetta è il perdono”, ma nel senso che dopo la rettificazione del malvagio andremo a pari coi conti, cioè che riterremo un risarcimento soddisfacente la sua guarigione, perché il suo bene è anche il nostro, e non pretenderemo nient’altro da lui e lo perdoneremo. Ma solo dopo la sua guarigione e non prima.

7.11.Agis dunque è riuscito a consolarsi con la sua filosofia. No, la mia vita non è inutile; non è stato inutile durante questi ultimi quattordici anni aver perseverato nel tentativo di comunicare per condividere il bene: tutti coloro a cui ho offerto la mia sapienza e che l’hanno disprezzata per la loro superbia, che hanno tentato di negare il mio valore e di strapparmi il mio bene, umiliando e schernendo me perché invece di cercare comode scorciatoie e poi dedicarmi a soddisfazioni egoistiche mi sono impegnato in studi seri, e disprezzando la verità, negando invidiosamente valore al pensiero razionale come fonte di salvezza, e tentando di convincermi che la logica e la ragione sono mortiferi e il bene consiste nella fede cieca o in oscure pratiche esoteriche, e anche coloro che hanno dato uno sguardo indifferente alle mie dottrine e dopo avermi trattato con sufficienza sono tornati ai loro impegni terreni, alle loro insulse soddisfazioni individualistiche, che evidentemente valutavano più preziose della verità, tutti questi ora hanno addosso il peso della mia sofferenza e della mia solitudine; chiedevo loro di aiutarmi, di collaborare all’impresa di capire il male e combatterlo, chiedevo solo un po’ di impegno e mostravo loro quanta scienza ci sia da trovare e quanto l’anima può nutrirsi di essa, proponevo loro l’eccellenza e la nobiltà d’animo, il bene, ma avevano sempre qualcosa di meglio da fare. Io davo amore, loro scherno e freddezza; assaggeranno la mia collera. Rinfaccerò loro la loro negligenza, la loro stoltezza, la loro invidia, la loro distruttività, il loro accidioso teppismo spirituale, il loro torpore, la loro indifferenza verso il bene e verso il male, la loro ottusità. E questa collera è un’azione buona e giusta che io compio verso il mio prossimo e che fa della mia vita una vita veramente etica: sarà ciò che sveglierà le loro anime a suo tempo e le condurrà,  prima, alla presa di coscienza della loro inettitudine, all’orrore di sé, e poi le spingerà alla guarigione. Dopo, finalmente, mi ameranno.

7.12.La NORMA più importante, dunque, che va usata nei confronti del prossimo è: cerca di conoscerlo rettamente, osserva la sua forma spirituale; se è ammalata, cioè tende a commettere colpe, rispetta le sue tendenze e lascia che si esprimano. Non tentare di forzarlo a una rettificazione impossibile, abbi pazienza e, in silenzio, desidera il suo bene senza provare ad imporglielo. Al massimo puoi proporgli cautamente qualche nozione, dargli qualche stimolo per saggiare la sua anima, ma se risponde male, non insistere e lascialo perdere: farà la sua strada altrove. E dare valore al prossimo, in questo caso, come occorre fare se vogliamo essere giusti, significa non usarlo come mezzo di autoesaltazione in una fantasmagoria di comodo dove noi facciamo i santi, i buoni che redimono le anime, quando non stiamo ottenendo un bel nulla, ma avere come unico fine il suo bene vero, la sua guarigione reale, da operarsi a tempo debito e coi mezzi opportuni. Sai soffrire in silenzio? Questa è la vera umiltà.

7.13.Ma continuiamo con la nostra esposizione: dobbiamo affrontare un elenco delle colpe che si possono commettere verso il prossimo negandone l’essere o il valore.  Poiché, come già più volte dicemmo, l’essere di un’anima è la conoscenza che ha di sé, si depriva dell’essere una persona quando la si inganna, le si impone una falsa immagine di sé stessa, le si accolla un ruolo che non le spetta, si nega forzatamente la sua capacità, la sua volontà, la sua intelligenza, la sua consapevolezza. E qui non abbiamo che da gettar le reti dove ci capita perché si riempiano all’inverosimile: vi cadranno dentro tutto il clero e i cattolici che lo seguono con il loro misologismo e oscurantismo, la loro fede cieca e il loro disprezzo verso chi ragiona; e tutti i materialisti e positivisti che vogliono vedere l’uomo come una macchina mossa da determinismi e leggi naturali inderogabili; per non parlare degli psicoanalisti, che non ammettono che tu possa pensare e volere coscientemente, ma tutto quello che dici o fai lo interpretano, pretendendo di scorgere nelle tue parole e nei tuoi gesti un significato di cui tu sei inconsapevole, perché prodotto da un più vero te stesso che però non sei tu e non è sotto il controllo della tua coscienza ed è un’entità oscura e demoniaca che chiamano, contraddittoriamente, “inconscio”. Ma, più in generale, nega il vero essere di un’anima chi ometta di percepirla, cioè chi si rappresenta le persone accontentandosi della loro apparenza fisica e giudicandole in base ad essa, rifiutandosi di ascoltare i loro pensieri, i loro sentimenti e desideri, cioè di guardare il loro vero essere, l’anima. E qui cadono tutti(16), perché non mi è mai capitato di trovare qualcuno in grado di comunicare veramente con chi gli sta attorno: si guardano ma non si vedono, si usano reciprocamente per il loro scopi, ma non si conoscono né si amano, sono oggetti gli uni per gli altri e mai soggetti. Non puoi dir loro più di due parole, perché alla terza hanno già rivolto la loro attenzione altrove: la loro superbia impedisce loro di comunicare su basi di parità, sarebbe come ammettersi eguale, e questo è ciò che massimamente li terrorizza(17), dacché rigettano, credendola screditante, la forma umana. Sono ammalati, sono colpevoli, anche solo quando ti impongono un’immagine e ti relegano in un ruolo perché sei femmina piuttosto che maschio, nero o extracomunitario piuttosto che bianco o europeo, povero piuttosto che ricco, socialmente umile piuttosto che importante e potente, brutto piuttosto che bello, vecchio o bambino piuttosto che giovane o adulto, malato piuttosto che sano, invalido piuttosto che normodotato. Scrutano la tua maschera per decidere se ti invidieranno o ti disprezzeranno, ma conoscerti e amarti, guardando il vero te stesso, la tua anima, questo non lo faranno mai. Chiusi nelle loro fantasmagorie di comodo, non vedono mai la realtà, credono di vivere in un mondo intersoggetivo, in una società, e invece ognuno è chiuso nel suo sepolcro fatto di inganni e di menzogne, di gelo ed egoismo, di incomunicabilità; non si guardano, non si ascoltano, non si conoscono reciprocamente; ognuno vede solo sé stesso e le sue fantasie: chiamano realtà il mondo dei sogni.

7.14.Sogna il marito, quando vede sua moglie come determinata dall’istinto naturale ad avere un unico desiderio: lui, il grande maschio e di figliare per lui e dedicarsi solo alla sua prole; ella è un anima e non è determinata da nulla, se non si lascia ingannare. Sogna anche l’innamorata o l’innamorato, quando pensa che tutta l’attenzione che il partner ha per lei o lui sia amore e considerazione, e da essa pretende di trarre valore e ritenersi importante: non è amore, ma è un istinto del corpo, accompagnato da una smania possessiva, al cosiddetto innamorato interessa solo trovare qualcuno che sia disposto a ingigantire la sua importanza e a non occuparsi d’altro che di lui; sogna chi si sente ammirato perché è ricco e importante e invece è solo invidiato. Sogni, se sei uno di quei capi arroganti che relegano i sottoposti nell’incapacità, e credono che tutti i loro atti adulatori siano segno di ammirazione: in realtà ti disprezzano; sogni, se sei uno di quegli insegnanti gelosi dei giovani, che si mette in cattedra trattando i suoi studenti da incapaci, ignorando le loro istanze intellettuali e omettendo di guidare le loro intuizioni: sei convinto che ti guardino come a un essere superiore, ma loro sentono la tua freddezza, e ti detestano. Sei convinto di essere ammirato e apprezzato come un eroe quando ti sacrifichi per la patria? ma sogni: apri gli occhi e vedrai che questi potenti ti ingannano e ti usano per fare solo i loro interessi. E così via. Sognano tutti, quando scambiano i propri desideri per realtà e invece di osservare dietro la maschera dell’apparenza terrena per trovare la vera realtà, la coscienza e i suoi contenuti, si appagano di quella ingannevole diventandone complici.

7.15.Negare il valore degli altri si può fare in tanti modi; per esempio svalutando le persone col dichiararle colpevoli. La tendenza a colpevolizzare il prossimo imputandogli quelle che non sono affatto colpe è un’azione distruttiva e violentissima. Facciamo un solo esempio: imputare a una persona l’omosessualità come se fosse una colpa, una nefandezza, un peccato contro Dio e contro Natura come fanno ancora oggi i Cattolici, fondandosi su una visione completamente sbagliata di Dio, della Natura, dell’uomo e della realtà terrena, vuole dire umiliare gravemente un’anima, discriminarla, insultarla e farla soffrire terribilmente. Ma più in generale, coloro che si compiacciono delle colpe altrui, vere o presunte, dimostrano una smania di accusare il prossimo che proviene da un punto di alienazione: questi sono superbi che vogliono accrescere il loro valore col credersi più santi degli altri e tendono a svalutare il prossimo accollandogli colpe, e che in genere fanno passare per colpe anche e soprattutto i meriti o le cose che danno gioia, di cui sono invidiosi. Invece anche di fronte a un’anima che si sia macchiata di qualche colpa autentica, il sentimento razionale non è disprezzo, ma dolore: già dicemmo che ogni anima è un bene e ha valore infinito, anche quando la sua forma è errata, e dunque quando sbaglia è razionale guardarla con premura e trepidazione, soffrendo per lei, non con maligno compiacimento perché noi siamo migliori e lei è caduta e s’è infangata. E la collera di cui parlammo sopra, come spero si sarà inteso, non è un atto di odio, ma di amore, perché è disapprovazione della forma errata e desiderio di quella sana, e desiderare la salute di un’anima è volere il suo bene, è amarla, non odiarla. Noi non disprezziamo nemmeno il peggiore degli uomini, ma desideriamo la sua rettificazione, il suo bene, e per questo usiamo verso di lui la giusta collera. Ma si svaluta il prossimo anche in altri modi, non solo colpevolizzandolo, per esempio relegando in seconda istanza le sue ragioni in nome del nostro interesse. Il mondo è pieno di persone che vedono piccole o nulle le ragioni degli altri, quando a ogni proprio capriccio danno un’importanza gigantesca. E nella vita quotidiana con quante manovre impercettibili si può umiliare il prossimo! Fingendo di non capire o di non sentire quello che dice, per non ammettere che ha detto qualcosa di intelligente, per esempio; o non reagire in modo consono alle sue parole, così da disorientarlo, cioè negandogli l’assenso se ha fatto un’osservazione giusta, o facendo mostra di apprezzarlo quando fa qualcosa di irrazionale o sciocco, incoraggiando così le sue debolezze; o anche negando partecipazione ai suoi stati d’animo, rifiutando di ridere a una sua battuta di spirito, o assumendo quella tipica espressione di sprezzante sufficienza di fronte ai suoi sentimenti e ai suoi pensieri, come se fossero segno di immaturità o infantilismo. Quando questi segnali fuorvianti vengono da genitori e colpiscono dei giovani adolescenti, nell’età in cui si devono fare le scelte e si forma la personalità, e quando ancora il ragazzo è insicuro e non sa giudicare da sé, possono fare danni assai gravi. Insomma, è una guerra vera e propria: siamo continuamente oggetto di simili manovre da parte di chi ci sta intorno e vuol negare il nostro valore, le nostre capacità, e dobbiamo sfinirci a sventarle perché non ci condizionino, quando vorremmo invece vivere sereni e in santa pace.

7.16.Inoltre, anche deprivare il prossimo del suo tempo e delle sue energie per i nostri scopi è un’azione ingiusta, perché a ciascuna persona spetta di usare la propria vita per raggiungere il bene, curando la propria anima finché diventi sana e sapiente, e dunque pretendere che le persone si dedichino ad altro che alla riflessione e allo studio è una grave colpa. Già dicemmo del torto della Chiesa cattolica che accolla alle persone di sesso femminile un ruolo animalesco(18), proibendo alla donna di considerarsi un fine e obbligandola a fare da mezzo per gli scopi della famiglia e della società terrena e sottraendole dunque il suo valore (perché si considerano valori i fini, non i mezzi); possiamo qui parlare di chi fa profitto sul lavoro altrui, quali gli industriali che sottraendo la vita degli operai al ritmo di otto ore al giorno, poi usano la ricchezza così prodotta per i loro squallidi sciali, mandando persa, insieme a quella degli operai, anche la propria vita, male spesa in divertimenti e lussi idioti. E ha torto il clero cattolico, quando tuona per difendere il valore della vita, ma di quella falsa, la vita dell’embrione, e cioè intesa solo in senso biologico, quando in difesa della vita vera del dipendente usurpata dall’avido datore di lavoro non ha mai speso un fiato. E già stigmatizzammo più volte quei genitori che vogliono obbligare i figli a organizzare la vita in funzione del benessere materiale e del prestigio; aggiungiamo qui che troviamo ingiusta anche la pretesa di costoro, quando diventano vecchi e si ammalano nel corpo fisico, di monopolizzare il tempo e le energie dei figli per le loro cure. Se ti ammali è per incuria e indisciplina, per intemperanza, pigrizia, inettitudine e questa è una mancanza di rispetto verso te stesso e verso il prossimo, e non puoi pensare che tutti debbano correre in funzione tua: se ti sei procurato un male, non puoi accollarne il peso agli altri(19).

7.17.E so che ora solleverò sdegno e disapprovazione in coloro che si accontentano di un’immagine fasulla e stucchevole di bontà: anche mettere al mondo figli è una colpa. E anche tutta questa retorica in voga oggi del valore della vita è una colpa, se per vita si intende la simulazione di vita che è nel corpo aggregato, e cioè la vita biologica. Ma poiché vedo che l’argomento è complesso e non lo si può trattare in un paragrafo solo, anche perché collegato con quelli che riguardano il nostro rapporto con la Natura, e cioè le intelligenze ingannatrici che aggregando esseri creano simulazioni di corpi e governano il mondo terreno, chiudo qui il libro VII e rimando la trattazione sulla riproduzione della specie come azione colpevole al prossimo libro VIII.


NOTE AL LIBRO VII.

 

Nota 1: alludo, naturalmente, all’opera più famosa di Severino Boezio, la Consolatio philosophiae, che egli scrisse in prigione, accusato di complotto anti-goto contro il re Teodorico. Fu poi giustiziato.

 

Nota 2: non è materiale soltanto il mondo terreno, perché la vera materia è l’immagine della coscienza riflessa nello spazio (cfr. Il fondamento della ricerca, §2.6 e passim), mentre la materia dei corpi aggregati è una complessa e ingannevole simulazione. Per questo quando parliamo cercando di non discostarci troppo dal linguaggio comune troviamo non poca difficoltà, essendo la mentalità comune avvezza a una dicotomia tra spirito invisibile e materia visibile, incorporeo e corporeo. Per noi il vero corpo è l’anima riflessa nello spazio, frutto dell’unione della la matrice o ricettacolo, che è l’immagine dell’essere, del pensiero ancora potenziale (è la forma immanente che riproduce visibilmente l’idea trascendente di essere, cioè la forma più generica di tutte, per dirla nel linguaggio dei neoplatonici) con la forma specifica (immagine delle altre idee più specifiche mediante cui la coscienza si conosce); il mondo spirituale non è invisibile affatto, è corporeo e materiale ma in questo senso ridefinito, per il quale i corpi sono immagini arricchite di qualità perfettamente sensibili, come colori, profumi, sensazioni tattili, che esprimono i contenuti della coscienza di cui il corpo è immagine; come dire che i corpi sono pensieri, poiché anche l’immaginazione, che è la capacità di produrre immagini, è pensiero. Dunque i beni spirituali non sono per nulla immateriali, ma risaltano ben visibili, splendidi corpi nel vero spazio (se verrai nel vero mondo potrai assaggiare il mio amore, profuma di pane); perciò quando parliamo di beni materiali alludendo ai falsi beni del mondo della simulazione commettiamo un abuso: bisognerebbe chiamare la materia composta da atomi (spiriti, atti semplici di coscienza condizionati dalla Natura ad aggregarsi e manifestare certe qualità che non sarebbero loro proprie senza l’opera delle intelligenze formatrici) “falsa materia” e “materia” quella semplice, incomposta, immagine informe dell’essere ancora generico, quella che ho anche chiamato elemento liquido o acqua cristallina. Si ricorderà che entrambe le materie sono di natura spirituale (o se no si rileggano i libri III e IV de Il fondamento della ricerca), e che anche le forme del mondo terreno sono pensieri, perché non può esistere nulla al di fuori del pensiero. Lasciamo dunque il termine “fisico” e “materiale” come sinonimo di “terreno”, per non diventare astrusi, ma ricordiamoci che esiste un'altra natura, quella vera, e un’altra corporeità, quella vera, e un’altra materia, quella vera, e un altro mondo perfettamente visibile e sensibile, quello vero: dopo che avrò condotto il Lettore a conoscere le operazioni della Natura, cioè delle intelligenze che aggregano materia per creare la simulazione, e dopo che l’avrò invece portato attraverso le splendide visioni del mondo vero, che manifesta l’essere con le leggi della significazione e del simbolo, sarà tutto molto più chiaro ed evidente.

 

Nota 3: ricordiamo che l’ignoranza è mancanza di sapere, la stoltezza è sapere falso e illusorio.

 

Nota 4: ci occuperemo di piacere e dolore fisico (cioè quello comunicato all’anima dal corpo aggregato) in altra sede, nei libri dedicati all’anima e alla sua interazione col corpo terreno. Qui basti dire che piacere e dolore (nei loro vari gradi di intensità: sollievo, sensazioni gradevoli, piacere più o meno intenso; fastidio, sensazioni sgradevoli, dolore fisico etc.) sono segnali che manda il corpo terreno alla coscienza per comunicarle il verificarsi in sé di qualcosa di utile o dannoso: sono insomma segnali o d’allarme o di benestare. Se abbiamo procurato al corpo fisico qualcosa che aiuta la sua sopravvivenza (per esempio mangiare nella giusta misura, la giusta temperatura etc.) esso ci comunica sensazioni piacevoli, viceversa se facciamo qualcosa che minacci di danneggiarlo (per esempio esporlo a temperature sbagliate, forzare un’articolazione, esporlo a urti, eccesso o difetto di alimento etc.) esso ci segnala il pericolo con sensazioni dolorose. Anche i desideri che provengono dal corpo fisico segnalano il suo utile o il suo eventuale danneggiamento, perché quello che ci attrae e ci sembra piacevole è benefico per il corpo fisico (se per qualche deviazione del senso del piacere non lo si ricerca in eccesso o se non si distorce per motivi vari il senso del gusto), quello che ci ripugna si dimostra dannoso per il corpo fisico: mangiare vermi e scarafaggi, per esempio, porterebbe il corpo ad ammalarsi, perché non sono l’alimento adatto per noi, mentre lasciarsi attirare da una bella zuppa di legumi profumata è salutare. Tutto questo, si sarà capito, non ha niente a che vedere col bene e col male: chi ti dice che il piacere è un male, è un peccato, è solo invidioso e vuol deprivarti delle sensazioni gradevoli che ti confortano nella vita e ti sono utili; e chi dice che la sofferenza (senza distinguere quella fisica da quella spirituale) è un merito, sostenendo quest’idiozia con un argomento visibilmente rabberciato e pretestuoso, che la sofferenza “avvicina a Dio” (chissà perché il loro Dio ha in antipatia gli uomini che godono di buona salute) è un sadico. I Cattolici hanno il vizio di chiamare volontà divina gli sfoghi della loro invidia. Spero che il Lettore abbia inteso bene quale sofferenza è realmente un bene e ci porta a essere giusti e dunque divini. Piaceri e dolori del corpo aggregato non sono né beni né mali, ma segnali che, se ascoltati correttamente, ti guidano verso l’utile e ti allontanano da ciò che è dannoso, consentendoti di mantenere in salute il corpo aggregato. E l’utile, ciò che ci consente la sopravvivenza nel mondo terreno, risulterebbe essere un bene se riuscissimo a dimostrare che la nostra esperienza nel mondo della simulazione, dell’illusione e del male è un bene, cioè accresce in noi la conoscenza dell’essere. Dovremo deciderlo in futuro; per ora lasciamo in sospeso la domanda: l’esperienza del male è un bene? Che è come dire: le intelligenze che creano i corpi aggregati e ce li accollano hanno buone o cattive intenzioni nei nostri confronti?

 

Nota 5: i riti religiosi ingannano gli stolti, gli ignoranti e chi cerca scorciatoie; il sapiente vi coglie il significato riposto e se ne istruisce. Il rito cui alludo nel testo (fonte ne è Ippol. ref. 5,7,34) si teneva ad Eleusi, il famoso santuario ateniese, durante la celebrazione dei misteri. Il grano è simbolo di sapienza, nutrimento dello spirito. Se ti procuri la sapienza non cercare clamore, dice il rito, ma agisci in solitudine e nascondimento. L’atto di recidere la spiga simboleggia il distacco dai falsi beni: l’anima recide le radici che la legano alla terra quando ha confutato la falsa idea di essere e l’identificazione di sé con il corpo aggregato e rettifica così tutte le sue tendenze, diventando grano e pane, cioè sapienza.

 

Nota 6: quelli come me si chiamano a buon diritto “eletti” (cfr. supra, nota 2 e nota 3 al libro VI). So che definirsi eletto sembrerà un sintomo di fanatismo e di esaltazione, ma il Lettore cerchi di capire: ci troviamo nella condizione in cui si troverebbe anche un matematico, se per secoli un gran numero di esaltati e di superstiziosi fossero andati in giro a proclamarsi matematici senza nemmeno sapere che cos’è la matematica, scimmiottando a casaccio la vera matematica, e se un’istituzione perversa avesse diffuso della matematica un’immagine irrazionale e superstiziosa. Un competente in matematica, con tanto di laurea, dichiarandosi a buon diritto matematico, verrebbe confuso coi matti e rimarrebbe inascoltato; è quello che sta capitando a noi dopo che la religione ha eclissato per secoli la retta ontologia, l’ha sostituita con una dogmatica irrazionale e ha monopolizzato termini e concetti della vera scienza dando loro un significato assurdo, fino a creare l’idea, per reazione, che chi si occupa di spirito e di realtà soprasensibile sia un superstizioso e che la razionalità coincida con la negazione dello spirito e della realtà soprasensibile. La parole “eletto” oggi suscita diffidenza e scherno, quando è il normalissimo titolo che a buon diritto s’accredita un’anima competente in ontologia e che dunque sia in possesso di bontà e giustizia, mete queste, come abbiamo visto, per nulla straordinarie e inarrivabili, che spetterebbero normalmente a tutte le anime se la loro evoluzione non fosse stata deviata e inceppata dai falsi mezzi di redenzione offerti dal Cristianesimo storico e dalla falsa terapia dell’anima propinata poi dalla psicoanalisi. Il popolo degli eletti sarebbe una realtà molto concreta se non fosse per questi ostacoli.

 

Nota 7: già a più riprese parlammo di questo argomento, di come desideri e sentimenti irrazionali e cioè nocivi dipendano dalla falsa idea di essere che l’anima ha in sé quando è identificata col corpo terreno, perché si desidera e si approva ciò che si crede essere un bene e si crede un bene ciò che ci mantiene nell’essere o ciò mediante cui ci illudiamo di ripristinare il valore che ci manca quando non conosciamo più noi stessi, quando per via della dimenticanza della retta idea di essere, non riconosciamo più noi stessi come essere e dunque ignoriamo di avere valore infinito. Il Lettore si renda conto, per favore, che quando avrà riflettuto a sufficienza su questo argomento, e avrà ritrovato la conoscenza di sé e il proprio retto valore vedrà svanire in sé desideri irrazionali nocivi e sentimenti ostili, perché ne avrà estirpata la radice; e allora sarà guarito dal male e in via di ristabilire la propria salute spirituale e cioè di acquisire la forma eletta, la somma di tendenze verso il bene che chiamiamo così.

 

Nota 8: abbiamo già dato alcune brevi confutazioni del concetto di inconscio: per esempio cfr. Il fondamento della ricerca, nota 16 al libro III.

 

Nota 9: ne La cura dell’anima, libro III.

 

Nota 10: le visioni irrazionali e superstiziose dello spirito nascono proprio dall’immaginarsi vigente anche nel mondo dello spirito una causalità di tipo meccanicistico, simile a quella che sembra governare i corpi aggregati: la mente disattenta conserva l’abitudine tratta empiricamente dal mondo sensibile terreno anche quando pensa alla realtà spirituale, e la immagina perciò simile a quella sensibile a cui è abituata, una specie di doppione invisibile della realtà terrena. Così nasce l’idea di forze invisibili che possono agire sull’anima al di fuori della sua consapevolezza, come se ella fosse un oggetto e non un essere di pensiero, senza comprendere che ciò che è al di fuori della sua consapevolezza non è nell’anima, perché l’anima è consapevolezza e l’unica forza che può agire su di essa è la comunicazione di pensieri. Sicché risulta chiaro che la visione dello spirito presente nel Cristianesimo storico è irrazionale e superstiziosa come quella di tutte le altre religioni, benché i cristiani pretendano di essere l’unica religione non superstiziosa rispetto a tutte le altre, mentre gli stessi errori delle altre religioni sono presenti anche nel Cristianesimo, cioè il fatto stesso che esso consista in sacramenti e riti lo rende superstizioso, perché il rito pretende di muovere forze soprannaturali e di ottenere effetti in modo magico-meccanicistico nell’anima. Il concetto stesso di rito o sacramento è un concetto magico-meccanicistico e dunque una superstizione irrazionale e perciò, se una religione per essere tale deve consistere in un culto ed esplicarsi in riti e sacramenti, ogni religione in quanto tale è superstiziosa e non esiste una vera religione che non è superstiziosa perché conosce i riti veri e le formule giuste per far funzionare la magia, in antitesi con tutte le altre religioni che sono false perché i loro riti non funzionano e i loro dèi sono ingannevoli: tutte le religioni per definizione fanno parte del genere delle pratiche superstiziose perché il concetto stesso di rito è superstizioso e irrazionale.

 

Nota 11: mi permetto di invitare il Lettore a prestare più possibile attenzione a quanto esposto qui e nei due successivi paragrafi, perché l’argomento è della massima importanza per trovare la risposta alla domanda che abbiamo lasciato in sospeso alla fine della nota 4 al presente libro VII. Tale risposta altro non è che lo svelamento del segreto del male, cui si arriverà per gradi, quando avremo acquisito la sufficiente strumentazione metodologica e terminologica per esporla in modo scientifico. Ci vado cauto, perché ho provato a intavolare un dialogo civile con una signora cattolica (ma dissidente col Vaticano, è per questo che avevo sperato di cavarne qualcosa) su questo argomento, ma quando le ho comunicato la mia posizione più che dileggio e insulti non ne ho ottenuto; quando poi, applicando le corrette regole della logica predicativa, le ho dimostrato che la sua risposta era uno sragionamento pieno di strafalcioni, mi ha chiuso in faccia la sua casella di posta elettronica, dicendo che se le avessi riscritto avrebbe cestinato senza aprire. Povero Agis! che gli tocca sopportare. Ecco il passaggio essenziale di tale (si fa per dire) dialogo. Avevo tentato di comunicarle che nel mondo terreno governano le intelligenze ostili all’uomo, che lo fanno cadere nel male, di cui s’è parlato ne Il fondamento della ricerca, ma che queste non sono il Satana dei cattolici, cioè il loro scopo non è perdere l’uomo definitivamente, ma istruirlo sul male. “Il male è male, d’accordo,” le avevo detto “ma l’esperienza del male è conoscenza, e la conoscenza è un bene”.  Dopo avermi dato dell’ingenuo e di quello che ama chiacchierare tanto per chiacchierare, la signora in questione mi scriveva: “Ma ti rendi conto di quello che dici? Perché parliamo del male e del bene se sono la stessa cosa? L’esperienza del bene è bene perché conoscenza; l’esperienza del male è bene perché conoscenza; quindi male e bene sono la stessa cosa. Suvvia, Gregorio! Devo andare avanti, figlio mio? Ti rendi conto che non posso mettermi sul piano dell’irrazionalità assoluta? Ti dico solo che questo Dio che tu immagini, che è bene e male insieme, a me interessa assai poco! Etc.” Evidentemente la signora non aveva letto attentamente le mie argomentazioni e ha capito fischi per fiaschi, perché non avevo affatto parlato di un Dio che è bene e male insieme, ma di intelligenze (non estranee all’Assemblea, che per noi è Dio) che a fin di bene ci fanno passare l’esperienza del male; si noti che la signora ha il vizio di molti cattolici, di credere a ciò che loro interessa, non a ciò che è vero (questo Dio… a me interessa assai poco, dice infatti). Inoltre aveva il vezzo di chiamare razionalità il dogma cattolico, visto che mi ha dato dell’irrazionale, in un altro brano della lettera, perché negavo l’esistenza del diavolo, imponendomi stizzosamente la regola che, se volevo parlare con lei, dovevo dimostrare tutto quello che dicevo. Ma, o bella, una corretta metodologia vuole che è chi asserisce l’esistenza di qualcosa a doverla dimostrare, ad avere cioè l’onere della prova, e che non spetta agli altri dimostrare che quella cosa non esiste! Se qualcuno asserisce l’esistenza degli extraterresti o del mostro di Loch Ness, non può semplicemente pretendere che, se gli altri non gli dimostrano che queste cose non esistono, lui ha ragione, deve essere lui a dimostrarne l’esistenza con dati certi e prove positive. Stavo per abbozzare e lasciar perdere, anche perché sono sfinito da lunghi anni di solitudine in mezzo a tali spine, ma poi mi sono detto: eh no, Agis! questa non lasciargliela passare liscia. Sono stanco di aspettare la resa dei conti con chi mi insulta chissà dove e chissà quando; a questa mocciosa impertinente (non so che età abbia nel corpo fisico ma sicuramente l’anima è infantile e completamente immatura), arrogante, prepotente e presuntuosa mette conto dare una zampata subito, poi vedremo. Congegnai uno scritto di tre pagine a cui rispondevo praticamente a tutti i suoi insulti e ai suoi argomenti poco saldi, e dove, per il punto che ci interessa qui, ribattevo: “Quanto alla tua pretesa di trarre una conseguenza assurda dal mio ragionamento (la conoscenza del male è bene, la conoscenza del bene è bene, dunque male e bene sono la stessa cosa) stai usando un sillogismo sofistico, cioè una forma errata di ragionamento: se due costanti godono dello stesso predicato le due costanti coincidono? Ma è come dire: a è rosso, b è rosso; se a è un maglione e b un semaforo, se ne inferisce che il maglione e il semaforo sono la stessa cosa? Aristotele non è passato da casa tua, evidentemente! Dunque non hai proprio ragione di schernirmi, perché non è questo l’esito del mio ragionamento. La conoscenza di tutto è sempre conoscenza, ma la conoscenza può avere gli oggetti più svariati ed essere sempre un bene senza che questi si identifichino. Per esempio: la conoscenza dei numeri è un bene, la conoscenza delle leggi è un bene, la conoscenza della medicina è un bene, ma non per questo numeri, leggi e medicina sono la stessa cosa. La conoscenza è bene, ma gli oggetti della conoscenza possono essere dei mali. Dunque se dico che la conoscenza del bene è bene e la conoscenza del male è bene, non sto dicendo che il male e il bene sono la stessa cosa (come pretenderesti Tu), perché predico il bene della conoscenza non degli oggetti della conoscenza. Infatti potrei dire che è bene conoscere le malattie, perché ciò è necessario per guarirle; non sto dicendo che le malattie sono bene, ma che è bene conoscerle. Se dico: conoscere la salute è un bene, conoscere la malattia è un bene, sto dicendo che salute e malattia sono la stessa cosa? Non sto dicendo, invece, che è bene conoscere sia la salute che la malattia per poter conservare la prima e allontanare la seconda? Sono io che devo rendermi conto di quello che dico, V.? Bada, a chi dai dell’irrazionale”. Devo però dire, a discolpa della signora V., che sono stato troppo brusco nel pretendere che s’ingollasse il segreto del male tutto in una volta, senza la debita preparazione; lei doveva rispondere con più educazione, più attenzione e più calma, senza menar colpi alla cieca, ma io dovevo esser più cauto. Essendo rimasto isolato per troppo tempo non mi ricordavo più quanto fosse distante la coscienza media europea dalla visione chiara delle cose e dalla capacità di usare con proprietà il linguaggio e la logica. E’ per questo che ho voluto impegnarmi poi nel presente sito a fornire un’istruzione graduale alle coscienze che provino interesse per questi argomenti e abbiano voglia di prestar loro la dovuta attenzione, senza fretta e senza preconcetti. Al massimo, se al Lettore non piace la nostra filosofia può sempre propormene un’altra, ma senza insulti e irrisione, per favore, con un poco di rispetto.

 

Nota 12: cfr. supra, §5.9 e nota 11 al libro VI. Vorrei far notare che il significato che diamo noi alle parole a volte si discosta dalla consuetudine, proprio perché grazie alla rettificazione dei concetti noi possiamo eliminare fumosità e imprecisione che provengono da abitudini mentali acquisite dall’anima per via della sua identificazione col corpo aggregato. Nel linguaggio comune l’accidia è l’inclinazione a non passare all’azione, a non agire sul piano pratico e dunque viene giudicato accidioso colui che si dedica alla contemplazione e alla vita solitaria; ma noi sappiamo che qualunque azione si compia nel mondo terreno è irreale e inefficace o al massimo ha risultati effimeri e che l’unica vera azione è il pensiero, perché la vera realtà è pensiero e immagine del pensiero. I veri effetti si ottengono nell’anima col pensiero, e chi intende ottenere risultati con altri mezzi che non siano la rettificazione delle idee è un illuso e un accidioso, perché non agisce realmente ma finge soltanto o si illude di averlo fatto.

 

Nota 13: cfr. supra,§3.4.

 

Nota 14: il tema del valore della sofferenza, che abbiamo testé esposto e speriamo sia stato recepito in maniera scientifica, è stato completamente frainteso dal Cattolicesimo, fino a diventare quell’idiozia che vorrebbe far credere che star bene è una colpa, mentre è un merito soffrire (in generale, non solo per essere stati vittime di una colpa): al Dio che immaginano i Cattolici è antipatico l’uomo che sappia procurarsi il bene dell’anima e l’utile del corpo, godendo anche di buona salute fisica e di serenità, mentre sembra concedere un’occhiata di simpatia solo agli inetti e a chi è colpito da sofferenze fisiche o menomato. E’ evidente che essi si sono foggiati questo idolo mostruoso, che spacciano per Dio, attribuendogli il loro egoismo, la loro superbia, la loro gelosia, e la loro invidia e con la presunta volontà di questo Dio distorto legittimano la loro crudeltà. La sofferenza fisica non è un valore, è un’ingiustizia che subisce l’anima imprigionata nel corpo terreno, perché l’anima è pensiero e vita e non le spetta di soffrire malattia e morte. Pensi il Lettore, e mi comprenda se può, quanta sofferenza provi un uomo come me che ama la verità e vorrebbe il bene in tutte le anime, e la loro felicità, quando sente un famoso monsignore, stimato e riverito come grande teologo e biblista, spacciare per verità sacrosanta e pensiero profondo quella che è la più volgare e blasfema delle idiozie, che cioè la malattia è un dono di Dio della quale devi essergli grato, perché con tale dono ti avvicina a Lui. Non che io vada ad ascoltare le messe di quel tale monsignore (non sono un autolesionista), è lui che invade il mio campo venendo a celebrare una messa tutte le estati nel prato condominiale di casa mia. Sono orami molti anni che la cosa si ripete, e ogni anno costui rispolvera questa stessa ignobile calunnia verso lo spirito e io devo sorbirmi la scena in cui i miei vicini di casa, che trattano me da povero caratteriale mezzo scemo, vanno a baciargli le pile. Ah, povero Agis, che gli tocca sopportare! Ma gli chiederò conto, a suo tempo. Dio, lo spirito, è infinite coscienze, è l’Assemblea degli eletti, noi siamo Dio. E noi, che vogliamo il bene e amiamo le anime tutte, non ci divertiamo a veder soffrire le persone in corpi ammalati; noi che siamo giusti non proviamo alcun compiacimento per le sofferenze altrui, né invidia verso chi sta bene. E non siamo gelosi: vogliamo che tutti abbiano il bene e non intendiamo deprivarne gli uomini per riservarlo solo a noi stessi. Se Dio è bontà e giustizia, Cattolici, vuole il bene e non il male, ama ciò che è giusto e non commette ingiustizia, e non si comporta come il vostro maledetto Moloch sanguinario, non accolla sofferenze inutili obbligando gli uomini a sopportarle in nome della sua onnipotenza. N.B.: per la definizione di “eletto” vedi supra, nota 2 e nota 3 al libro VI; per la nozione di Dio come la somma delle coscienze elette, che chiamiamo per brevità “Assemblea”, e che è quell’ekklesìa di cui parlava Cristo nell’annunzio originario ancora leggibile nel Vecchio Simbolo Romano, titolo che poi è stato usurpato dalla falsa Chiesa terrena, cfr. Il fondamento della ricerca, §§2.1-2.2; 2.4 e §§2.9-2.10 e anche §§2.13-2.14. Non mi si dia del matto o dell’eretico, per favore, se parlo come se fossi Dio: io da solo no, ma insieme alle infinite coscienze elette siamo Dio, e io sono un dio. No, non è un atto di esaltazione, ma una definizione logica: infatti la coscienza eletta si chiama “dio” come chi ha tre lati e tre angoli si chiama triangolo (possiamo richiamare qui quanto detto supra, §1.4: quando l’anima è giusta ella stessa è dio); un dio, cioè una coscienza eletta, non ha superpoteri o onnipotenza, il suo unico potere è quello di pensare rettamente, gioire per il bene, soffrire per il male, e insomma amare; chi cerca un dio diverso cade nell’idolatria. E non bisogna pregare Dio o un dio (il monoteismo per noi è una superstizione peggiore del politeismo) e tributargli un culto, bisogna essere dio, per realizzare l’unione con Dio, cioè entrare a far parte dell’Assemblea delle anime elette o, che dir si voglia, divine: ogni altro rapporto con Dio è errato e colpevole. Sì, sto invitando il Lettore, secondo la migliore tradizione platonica, a diventare dio e a unirsi a Dio, alla nostra Assemblea. Chi riesce a liberarsi dal fumo e dall’accecamento della religione istituzionale e della scienza materialista può farlo agevolmente.

 

Nota 15: sui tempi e ritmi dell’opera di redenzione discuteremo altrove; prometto di trattare con metodo logico-razionale il problema escatologico, ma in altra sede e non prima di aver fornito al Lettore gli strumenti terminologici e concettuali per accettare queste tesi non per credenza soltanto ma perché dimostrate scientificamente o al massimo col supporto di qualche visione simbolica, la cui natura di percezione del vero ormai non sfuggirà al Lettore attento che abbia assorbito a sufficienza la nostra ontologia, ma interpretata secondo la retta grammatica dell’essere; anticipo solo qui che le chiavi di certe visioni stanno nei numeri: 7 tempi, 12 tribù, 40 anni nel deserto, 7 settimane di anni etc., i numeri biblici sono tutti divisori di archi di tempo significativi nella periodizzazione storica che alla cultura comune è nascosta e che invece io ho potuto scoprire grazie alla visione corretta della storia umana e delle forze che in essa si esplicano.

 

Nota 16: dev’essere un’iperbole, spero, questo “tutti”che mi sono lasciato sfuggire nel testo. A me non è mai capitato di incontrare nessuno che guardi l’anima delle persone, ma ciò non significa che dalla manciata di esperienze che ho avuto io possa ricavarsi un enunciato universale: già dicemmo che ricavare una legge generale da un numero finito di casi particolari è un errore logico che si chiama “induzione indebita”. Tutte le induzioni sono indebite, a meno che la legge che così si è formulata sia poi controllata con metodo assiomatico-deduttivo e confermata da esso. Ma non posso dedurre dalla natura dell’uomo la sua incapacità a comunicare realmente col prossimo, anzi, dai principi della nostra scienza posso dedurre il contrario, che cioè l’incapacità dell’anima di vedere la vera realtà proviene da cause esterne a lei e contingenti e che dunque è possibile che ella se ne liberi e torni a vedere.

 

Nota 17: sul rifiuto della normalità umana sentita come screditante e dunque dei rapporti paritari col prossimo, abbiamo parlato diffusamente ne La cura dell’anima.

 

Nota 18: cfr. La cura dell’anima, §4.6.

 

Nota 19: so che continuerò a passare per cattivo, per via di questa asserzione, perché nella morale comune i figli sono tenuti a essere grati ai genitori per essere stati messi al mondo e perché si dà importanza ai vincoli di sangue. Ma tutto questo è irrazionale: la mia coscienza non ha nulla a che vedere con costoro, che mi hanno fatto solo del male, quando mi hanno intrappolato in un falso corpo (su questo vedi infra, libro VIII) e hanno poi fatto di tutto per uccidere il mio spirito, e i vincoli biologici dipendono dal corpo aggregato che non è il vero me stesso, sono una simulazione e non hanno alcun valore. Polemizzo fortemente, inoltre, con il rapporto che hanno col corpo terreno le persone di cultura occidentale: essi credono che la realtà sia materia extramentale e che il loro vero essere sia il corpo, poi però lo trascurano, pretendono di ignorare la causalità che lo governa, e si illudono di avere in dono la salute dal cielo, dalla fortuna o chissà da dove, sicché fanno tutto ciò che loro aggrada senza seguire alcuna disciplina e senza applicare alcuna tecnica atta a mantenere il corpo sano e allenato, e gli infliggono uno stile di vita malsano, lo minano con intemperanze, pensando che se qualcosa si guasta, per rimetterla a posto poi basterà una pillola. E, inoltre, pur essendo attaccati alla vita biologica come cozze a uno scoglio, e terrorizzati dalla morte, ciò nondimeno non la rispettano, perché inquinano l’ambiente dove vivono, pretendono di fare i loro comodi andando in auto ovunque e costringono il loro organismo (e il mio) a sopravvivere in mezzo a polveri velenose e fumi tossici. Devo dire che in questo mi è piaciuto molto ciò che ho imparato dalle discipline orientali, delle tecniche semplici ed eleganti per convivere con l’organismo rispettandolo e facendo in modo che lui rispetti te e non degeneri invecchiando: anche se sono nel mio quarantasettesimo anno, mi danno ancora tutti del tu e mi scambiano per un giovane per via del “mio” corpo flessibile e snello. E mi è piaciuto dei giapponesi questo loro atteggiamento mentale, che giudicano negligente chi si ammala o invecchia male e disapprovano infermità e malattie come delle colpe, mentre in occidente, quando questi che hanno passato la vita a fumare, a ingozzarsi e a rimbecillirsi davanti alla TV, incapaci di muover due passi, cascano a faccia avanti colpiti da qualche malanno cardiovascolare o neurologico, si dà per scontato che i figli debbano sacrificare tutto per occuparsene col massimo zelo. Quando vedevo mio padre ingozzarsi di salsicce e fumare ottanta sigarette al giorno, pensavo tra me e me: se si ammala, prendo la sedia a rotelle e lo butto in un burrone. E quando si è effettivamente ammalato, non ho potuto fare così solo per un motivo: a Milano non ci sono burroni. E dopo mesi e mesi di tormento, quando ero completamente sfinito e quasi annientato dalla prepotenza e dalla distruttività di quel mostro che la Natura mi ha accollato come madre biologica, la quale aveva subito approfittato della situazione per impadronirsi di me e ridurmi a uno straccio nelle sue mani, ho risolto il problema scagliando una maledizione verso le intelligenze che governano i “nostri” corpi, il cosiddetto “Dio creatore”, e imponendo loro un ultimatum: o ve lo riprendete voi entro la fine di maggio (si era nel ’99) o trovo io il modo di mandarvelo. Ebbene: il 28 di maggio l’organismo di mio padre collassò, rimase in agonia ancora qualche giorno, poi morì. Se ho resistito tanto (quasi due anni) è perché mio padre, dopo il grave infarto cerebrale che l’aveva colpito, era diventato un altro essere, non era più quell’introverso inceppato nella sua incapacità di sopportare la sua normalità umana, reso ostile, cupo, rancoroso dal fallimento delle manovre messe in atto per soddisfare la sua smania di ingigantirsi (si veda il capitolo sul fallimento dei punti di alienazione del valore ne La cura dell’anima, libro VI), e dunque incapace di provare desideri e sentimenti che lo facessero sentire umano, era diventato invece un povero essere smarrito e terrorizzato, che mi fece pena, e non è dunque per dovere filiale se l’ho accudito fino a che ho potuto resistere (e forse senza le pesanti e insopportabili interferenze di mia madre avrei potuto resistere anche di più, ma d’altronde per lui era meglio liberarsi da un tale peso e incamminarsi su una nuova via), ma perché provavo per lui un sentimento di pietà, l’ho fatto per amore, perché mi è piaciuto così, non per dovere. Chiedo scusa al Lettore se quando si parla di genitori la mia esemplificazione scade nell’autobiografismo, ma la mia parentela è una tale fonte inesauribile di esempi negativi pertinenti, che la cosa è inevitabile.


LIBRO VIII.

 

 

 

 

 

LA VITA, L’INGANNO.

 


LIBRO VIII.

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

Dopo tutte le nostre riflessioni, ci troviamo contro corrente: affossiamo ora il falso valore della vita biologica, in nome della vita vera(8.1-8.2); procreare non è un atto d’amore ma istinto animalesco ed egoismo(8.3).

 

Sul falso valore della vita biologica si fonda una falsa morale crudele e irrazionale: gli esempi dell’eutanasia, della ricerca su cellule embrionali e dell’aborto(8.4-8.6). La sofferenza fisica non spetta all’anima, è ingiusta, e certamente non è un valore; anzi, è già un’ingiustizia inflitta all’anima essere aggregata a un corpo terreno. La vita biologica non è un dono, ma un danno e nessun Dio ha diritto di vita o di morte su di noi, perché chi si comportasse così sarebbe ingiusto e violento e, per definizione, non sarebbe Dio(8.5).

 

L’unica azione giusta verso chi crea l’inganno e induce nella mente umana false immagini di vita e di bene, di divinità e di devozione è la ribellione; non adulare un Dio ingiusto(8.7). Una prima allusione alle vere intenzioni delle intelligenze che governano la Natura. Il Lettore stia molto attento e rifletta bene su questo(8.7).


8.1.Abbiamo dunque concluso, nella precedente discussione, che l’unica vita veramente etica è quella dedicata alla rettificazione di sé, che si compie mediante l’acquisizione della sapienza sull’essere e sull’anima; che la pretesa di compiere azioni buone e giuste verso il prossimo è illusoria, perché il vero bene del prossimo non è alla nostra portata a breve termine, ma possiamo solo provare i retti sentimenti e aspettare che tutto si compia a tempo debito; e potremmo anche consolare noi stessi di questa impotenza indagando seriamente il senso di questa nostra vita terrena, sia di quella individuale sia della storia umana nel suo complesso (e questo sarà argomento dei prossimi studi); e stavamo raccomandando altresì a chi ci legga di riconoscere come azioni colpevoli quelle grandi e piccole, vistose o impercettibili, che sono rivolte alla deprivazione del nostro essere e del nostro valore. Si sarà notato che la nostra classificazione è un po’ contro corrente, visto che offriamo come azioni buone e giuste quelle che vengono guardate di solito con fastidio e vengono giudicate, in genere, come minimo inconcludenti, come massimo atti di orgoglio o comunque segni di egocentrismo: dedicarsi alla riflessione e allo studio sull’essere, all’osservazione dettagliata dell’uomo e della storia della sua civiltà, che sembra ai più un vezzo da intellettuali vanitosi, invece per noi è cura dell’anima ed è l’unica azione giusta che si possa compiere nella vita, mentre abbiamo affossato come presunzione l’idea che sia giusta e meritevole l’abnegazione di sé e il sacrificio di sé per il prossimo(1). Ora addirittura ci accingiamo ad affossare inesorabilmente a colpi di logica ed ontologia quello che i più riconoscono invece come supremo valore: il valore della vita e in particolare della maternità, di quel gesto che sembra un profondo atto d’amore, un dono supremo, un miracolo… Sembra impossibile che ci sia qualcuno che non si commuove di fronte a una nuova vita che nasce e sboccia, a meno che non sia un mostro di perversione, un demonio o una strega.

8.2.Macché vita nuova che nasce, macché dono, macché atto d’amore. Chi ci abbia seguito fino a qui con la dovuta attenzione e la dovuta serietà e abbia riflettuto bene su quanto da noi esposto ne Il fondamento della ricerca riguardo al vero essere e alla simulazione, avrà ormai ben chiaro in mente che il mondo dei corpi aggregati, il mondo terreno, non è un vero mondo, è una simulazione dove ci si trova in mezzo a una falsa realtà e dove tutto ciò che appare è ingannevole: quello che sembra un corpo non lo è, ma è un aggregato di atomi, di spiriti (altri individui, ciascuno col suo corpo, il riflesso della coscienza nello spazio) che simula forme e sembra un corpo e invece è uno sciame foltissimo di corpi; le forze che aggregano e disgregano il “nostro” corpo e gli oggetti della “nostra” percezione sensibile interferiscono con la nostra coscienza e ci ingannano, comunicandoci immagini sensibili che sembrano dipendere dal “nostro” corpo e venire dall’esterno imprimendo in noi la convinzione che il mondo sia fatto di una materia eterogenea al pensiero, extramentale e che l’essere e la realtà non siano pensiero e coscienza e che la visibilità non nasca dal pensiero per la sua forza di generare immagini estese visibili nello spazio(2), ma che al contrario sia indipendente da esso e che sia reale solo ciò che pensiero non è. Sicché la coscienza perde la retta nozione di essere, dimentica di essere l’essere e si smarrisce, si ammala e muore; perché la morte, in senso spirituale, cioè nella vera realtà, è dimenticanza e ignoranza di sé. Né quella che gli uomini chiamano morte, che è solo disgregazione del corpo aggregato, è vera morte, perché l’anima è un indivisibile atto di coscienza e non può essere distrutta, né quella che gli uomini chiamano nascita è veramente tale, perché trattasi solo di aggregazione di atomi in cellule, di cellule in organi e tessuti, e di organi e tessuti in un organismo che non è vita ma simulazione di vita e di essere. In realtà è uno sciame di esseri estranei alla coscienza che vi viene legata. L’anima non ha bisogno di essere creata perché si genera da sé pensandosi, e lo fa in eterno perché l’anima è l’essere e l’essere non può mai non essere, per il principio di non contraddizione, e dunque non ha principio e non ha fine. Non vi era un momento in cui non fosse, perché prima del suo principio, allora, vi sarebbe stato il non essere, ma il non essere non può mai essere; né, per lo stesso motivo, avrà mai fine, perché dopo questa fine vi sarebbe il non essere, ma questo non può accadere perché il non essere non può mai essere, per il principio di non contraddizione. Dunque, se l’anima è coscienza e cioè essere è eterna; e non ha bisogno di ricevere in dono la vita da nessuno, perché ella è vita in quanto è pensiero, perché la vera vita è pensiero. Sbaglia chi chiama vita quel processo che aggrega spiriti diversi, conferisce loro forme che non hanno realmente, e imprimendole gradatamente nell’aggregato secondo quello che sembra uno sviluppo ed è solo una simulazione, dà l’impressione che una nuova vita sia nata, cresca, maturi e poi declini. La vita biologica non è vera vita e non è il sommo valore; a stento le si troverà un valore(3). Ti illudi di creare una nuova vita? ma va’. Quello che realmente succede è tutt’altro, è che dentro al “tuo” corpo aggregato, che non è il vero te stesso ma un complesso d’esseri estranei, comincia a formarsi un altro aggregato, un altro complesso di esseri estranei alla coscienza che ne sarà imprigionata, alla quale non stai affatto donando una nuova vita. Niente di questo è nuova vita, tutti gli atomi che compongono il nuovo aggregato esistevano già prima, infatti anche quelli sono coscienze e perciò sono eterni. E quando l’anima umana comincia a percepirsi all’interno dell’aggregato nuovo che tu chiami erroneamente nuova vita, cioè quando le viene nascosto il vero mondo, lo spazio vivo e amoroso dove si riflettono gli spiriti, e quando dunque non può più vedere i riflessi visibili dello spirito invisibile, che sono i veri corpi e la vera realtà, i corpi semplici e non aggregati, quelli prodotti da un unico atto consapevole del pensiero, e comincia a essere bombardata dalle percezioni alterate, incomprensibili e fuorvianti che dipendono dal corpo aggregato, nell’identificarsi con esso perde la coscienza di sé, dimentica l’essere, e muore; perché la vera morte è la dimenticanza di sé e l’ignoranza dell’essere. E’ questo che fai intrappolando un’anima all’interno di un corpo aggregato: non le doni la vita, ma la uccidi.

8.3.Non è un atto di amore quello che fai, ma ti muovi dietro un istinto che proviene dalla specie, cioè da una di quelle intelligenze che governano la natura e ingannano l’uomo per i loro misteriosi scopi(4). L’istinto materno non è amore, perché non è un sentimento che proviene attivamente dall’anima ma è ricevuto da lei passivamente ed è una spinta verso la conservazione della specie, che non è il bene (mentre amare significa volere il bene), e non è per amore che le persone si affaccendano ad assecondarlo, bensì per realizzare un desiderio irrazionale e per egoismo. Il genitore nel nuovo organismo cerca un altro sé stesso, che continui la sua vita rimpiazzando il suo organismo vecchio, perché si identifica col corpo terreno e si crede mortale e si illude così di trovare un surrogato di immortalità; e l’idea di occupare il territorio con la sua stirpe è un atto di dominio, gli uomini quando hanno tanti figli si sentono potenti perché pensano di aver vinto la lotta per la sopravvivenza, di aver affermato la propria vita a scapito di quella degli altri e lo sentono come un successo. Il vero amore è ben altro, è volere il bene, cioè l’essere, ma l’essere è coscienze infinite e dunque volere l’essere significa dare valore all’esistenza di tutte le anime, e desiderare il loro bene, la loro vera vita che è il pensiero e la verità. Invece chi si dedica alla riproduzione della specie tende a desiderare l’utile della propria famigliola, cerca solo il proprio vantaggio e quello dei propri figli consanguinei ed è in concorrenza con gli altri, che sente come estranei. Questa vicenda animalesca innesca l’egoismo e spegne l’amore. Perciò hanno torto coloro che definiscono la famiglia come la prima cellula della società: la vera società sarebbe quella dove tutti sono legati da vincoli di amore reciproco, ogni anima con ogni altra, mentre quando c’è la famiglia si crea una cerchia ristretta, comprendente solo chi è legato da vincoli di sangue, che inclina a fare unicamente il proprio interesse, a procurarsi quanto più possibile vantaggi e privilegi, escludendone gli altri. Chi mette al mondo dei figli vuole poi fare soltanto il vantaggio di questi mentre è totalmente indifferente al bene dei giovani che stanno fuori dal suo gruppo di parentela, e se può, anzi, li depriva e li danneggia(5). La famiglia, dunque, ben lungi dall’essere la prima cellula della società, ne è invece la negazione. Noi non abbiamo famiglia, noi amiamo.

8.4.Non è vergognoso? In nome di questo falso valore, la vita biologica, si compiono i misfatti più atroci. Ho già parlato del maschilismo in altra sede(6), e si potrà completare questo argomento in sede storica, studiando le forme di oppressione che sulle donne a ogni stadio culturale la società ha esercitato; aggiungiamo qui il discorso sull’eutanasia, sulla ricerca scientifica ostacolata in nome della sacralità dell’embrione e sull’aborto. Questa assurda superstizione, che la vita intesa in senso puramente biologico sia un dono di Dio e che è sacra, induce la Chiesa cattolica a proibire l’eutanasia, e la legislazione dello stato segue tale prescrizione. A parte il fatto che se un dono mi fa soffrire diventa un danno, e se mi regali un danno, che è un modo solecistico per dire che mi fai del male, commetti una colpa verso di me (o posso dire: “ti regalo una coltellata”? avrebbe senso questo?); a parte questo, l’idea che gli uomini non possano ribellarsi alla natura, perché secondo la falsa teologia cattolica la legge di natura è volontà divina, e che dunque non possiamo interrompere il decorso naturale delle cose senza offendere Dio è una superstizione. Abbiamo dimostrato razionalmente(7) che la Natura non è Dio e che le leggi di natura non essendo giuste non possono essere volontà divina; spero che questo sia acquisito. E non è assurdo? Se interrompere il decorso delle leggi naturali fosse una colpa, non sarebbe lecito nemmeno mettere il latte in frigorifero, perché così facendo interromperei il processo naturale di decadimento che lo porta a inacidirsi; non sarebbe lecito neanche prendere le medicine, perché interrompono il decorso naturale della malattia(8). A questo punto sarebbe coerente con le premesse dei Cattolici non intervenire nel momento critico intubando il paziente o rianimandolo con le moderne tecniche, né tenerlo in vita artificialmente con i mezzi della moderna medicina, perché è quello il momento in cui l’uomo, intervenendo sul decorso naturale della malattia si ribella alla legge della natura, che essi credono volontà divina. Dunque perché prendersela con chi vuole interrompere le cure artificiali, staccare il respiratore e lasciar morire in pace l’ammalato? Chi agisce così non farebbe altro che ripristinare il corso degli eventi naturali e lasciar agire la “volontà divina”. Anche nel sistema di idee irrazionale e superstizioso dei Cattolici, dunque, la proibizione dell’eutanasia risulta sbagliata perché incoerente con le premesse. Parlano di natura e non sanno che cos’è, e non hanno mai chiarificato che cosa debba intendersi di preciso per “legge naturale” e non si rendono conto che ossequiare la natura è abbandonare il bene, perché la natura impone leggi crudeli e ingiuste, come la legge del più forte, che sopravvive a scapito del debole o la rivalità tra branchi per il territorio e cioè il valore della guerra. Cristo non santificava la natura, ma invitava a vincere il mondo, e cioè a uscirne.

8.5.Il nostro punto di vista perciò è assai diverso. La vita biologica nel corpo aggregato non è un dono, ma un danno, già quando il corpo è sano e non presenta malattie; figuriamoci quando l’associazione col corpo fisico diventa una tortura. Non dobbiamo gratitudine, adorazione, né riverenza ad alcuno perché ci ha creati, piuttosto chiediamo conto del perché di questa ingiusta prigionia che ci è stata accollata. Perché non spetta all’anima di essere obnubilata e ingannata da un falso essere: le spetta la verità; né le spetta di essere ammalata e uccisa dall’identificazione col corpo aggregato che la rende animalesca prima e poi bestiale(9), quando ella è divina. E non le spetta la sofferenza fisica, che è una menzogna: dicemmo che la vera sofferenza è la percezione di un male, e che mali sono le ingiustizie, i desideri e i sentimenti irrazionali, la stoltezza e l’ignoranza, cioè la mancanza di essere. Questa è la vera sofferenza, che attivamente l’anima produce da sé quando, essendo razionale, riconosce i mali e li giudica correttamente tali. Oppure l’anima irrazionale può soffrire per scontentezza e frustrazione dovuta al mancato soddisfarsi di pretese illegittime, ma allora causa la sua sofferenza da sé e se la merita. Ma in nessun modo la sofferenza che proviene dal corpo aggregato spetta all’anima, né a quella sana e razionale, né a quella ancora ammalata da errori concettuali, perché ciò che accade nell’aggregato non accade nel nostro essere, e non spetterebbe a noi subirne le conseguenze. Pretendere che l’anima soffra in un corpo devastato, paralizzato, privo delle normali funzioni vitali e dove anche solo respirare è qualcosa di estremamente doloroso non è un atto di giustizia ma un’indicibile, intollerabile crudeltà, e l’anima ha tutto il diritto di essere liberata al più presto da sofferenze insopportabili. Dunque noi siamo favorevoli anche all’eutanasia attiva, non solo a quella passiva. Dire che non siamo padroni della nostra vita e che spetta solo a Dio decidere quando togliercela è un atto di disgustosa piaggeria, che dimostra quanto poco ami il prossimo chi gli impone sofferenze atroci e ingiuste, con l’unico fine di adulare, pensando con questo di ottenere in cambio favori e di mantenere saldo un sistema di potere, un onnipotente che, ben lungi dall’essere un Dio giusto, si comporta invece da crudele tiranno. Il sistema di potere fondato su questa immagine mostruosa di Dio non è certo la vera Chiesa di Cristo, poiché egli disse “ama il tuo prossimo”, non “leccami i piedi”; e chi sceglie di affiliarsi a una tale Chiesa non è di Cristo, ma adorando la Natura, che è quell’insieme di intelligenze che inganna l’uomo e lo conduce verso il male e che si merita dunque l’appellativo tradizionale di Satana, è, appunto, di Satana.

8.6.Lo stesso dicasi sulla ricerca scientifica ostacolata dalla sacralità delle cellule embrionali. Tutta questa premura per un grumo di cellule composte ciascuna da un fascio d’atomi (individui, spiriti), i quali non subiscono alcun danno a esser di nuovo disgregati, perché, intatti, vanno ad aggregarsi di nuovo altrove, è grottesca; noi non saremmo contrari nemmeno alla produzione apposita di embrioni a scopo di ricerca, perché non spacciamo i grumi di cellule per persone. Per noi sono persone piuttosto quelle anime che soffrono in corpi devastati da malattie, e non sacrifichiamo la possibilità di dar loro sollievo per salvaguardare l’onnipotenza di un tiranno ingiusto, e adularlo. Noi amiamo il nostro prossimo, non idolatriamo la Natura chiamandola Dio. E così dicasi anche per l’aborto, che è un’azione perfettamente legittima: se la donna non si sente di procreare e se non ci sono le condizioni per farlo serenamente, è il male minore(10).

8.7.E così possiamo esprimere un’altra NORMA molto importante nel nostro sistema etico: non dare valore alla vita biologica; la vera vita è il pensiero. E non provare sentimenti irrazionali verso un presunto creatore: non ringraziare a vanvera chi ti fa del male. Non pregare, come fanno i cattolici, non adorare, non adulare, non tributare un culto a nessuno; non sottometterti a nessuno. Per l’eletto esiste l’Assemblea, l’insieme della anime giuste, e quella è Dio e cioè siamo noi Dio; e vi è un solo tipo di preghiera, quella del giusto che chiede giustizia. E non è un supplice che si umilia di fronte a un essere potente, un suddito di fronte a un tiranno, ma un cittadino davanti a un’assemblea, il quale non supplica ma chiede con fermezza, anzi esige, giustizia. Non chiediamo grazie ma diritti. E se giustizia non è rispettata il giusto è capace anche di andare in collera e ribellarsi(11). E’ questo che cerchiamo: un cittadino, non un suddito, un giusto, non un adulatore, un’anima che abbia fermezza e non un essere tremebondo e superstizioso, un vigliacco che teme i potenti e li adula. Sai alzarti in piedi e gridare la tua collera, per il male che ci è stato inflitto? Sai ribellarti contro queste intelligenze che ci ingannano e ci ammalano? Di’ loro che sono ingiusti, arroganti, maligni e che non hanno il diritto di trattarci così. Non ne avrai paura, spero, che ti possono fare? se pensi rettamente e non ti lasci ingannare non possono nulla su di te, perché l’unico male che esiste per l’anima è l’inganno. Hai il coraggio di chiedere loro conto per il mondo del male, dove la verità è assente, dove vige l’ingiustizia e dove è regola dolore e malattia e dove regna la morte? Perché se invece li ringrazi di tutto questo dimostri insipienza, bassezza e inclinazione alla piaggeria. Se solo la smetteste di gnagnerare i vostri stolidi ringraziamenti, maledetti cattolici! Se ci ringrazi per un mondo ingiusto, vuol dire che non ami la giustizia. Se ti sottometti a un Dio malvagio, vuol dire che non ami il Dio giusto, e se scegli di obbedire a leggi che ti impongono il male, vuol dire che non desideri il bene, e se scegli di credere ciecamente a quello che ti impongono senza indagare, vuol dire che non cerchi la verità, che non la ami. E allora sei in nostra balìa: è così che ragionano, spietatamente, o meglio nella maniera più intransigente e severa, codesti spiriti occulti che governano il mondo. Chi non è più che ineccepibile, è in loro balìa. Perché è proprio questo che vogliono sapere, come ti comporti di fronte all’inganno: sei a un bivio e devi scegliere, vuoi la verità, l’amore, la giustizia o ti appaghi della menzogna, dell’egoismo, della violenza? E’ la domanda che il mondo ti pone, e per trovare la risposta giusta hai a disposizione un arco di tempo limitato, quello che comunemente si chiama “vita”. Non sprecarlo.

 


NOTE AL LIBRO VIII.

 

Nota 1: c’è una contraddizione logica nell’idea che sia meritevole chi sacrifica sé stesso per il prossimo: se sacrifico il mio bene, faccio il mio male e dunque se il prossimo a cui sto sacrificando il mio bene è buono, non può compiacersene, perché se è buono non può desiderare il mio male. In questo modo, facendo l’utile del mio prossimo e sacrificando per questo il mio bene, lo costringerei a commettere una colpa verso di me e a diventare malvagio, facendo dunque il suo male e non il suo bene, perché essere colpevoli e malvagi è un male. In effetti, in coloro che esibiscono sacrificio di sé noto spesso questa ipocrisia, che lo fanno per presentarsi come santi e virtuosi, accollando alla persona aiutata il ruolo di egoista e di colpevole (vedasi La cura dell’anima, §5.4, in fondo). Stai attento a chi si sacrifica per te, perché vuole o disprezzarti o ricattarti, o tutt’e due le cose insieme. Ribadisco che nel comandamento “Ama il tuo prossimo come te stesso” Cristo invitava alla condivisione del bene, non a sacrificare il proprio bene per l’utile degli altri. Al massimo posso sacrificare il mio utile per quello degli altri, cioè rinunciare a dei vantaggi materiali (ricordiamo che il bene è invece dedicarsi alla ricerca della sapienza ontologica e alla comprensione dell’uomo e dei fatti storici, non il benessere materiale), quando le ragioni del mio prossimo lo richiedano, perché qualcuno ne ha bisogno, per alleviare sofferenze; e l’eletto sacrifica sempre le soddisfazioni mandane per fare il bene senza distinguere il bene mio dal bene tuo, perché, torniamo a dire, il bene è l’essere e dunque tutte le anime, che sono l’essere devono avere l’essere, la conoscenza della verità, perché il bene sia realizzato.

 

Nota 2: si ricordi il Lettore che lo spazio è la prima immagine, quella cioè che rappresenta la facoltà stessa che ha il pensiero di immaginare e che appunto rappresenta sé medesima come spazio: lo spazio è l’immagine dell’immaginazione dell’essere, quando l’immaginazione immagina sé stessa si immagina come spazio (cfr. Il fondamento della ricerca, §§1.14-1.17).

 

Nota 3: abbiamo già anticipato qualcosa sul valore dell’esperienza terrena (che possiamo chiamare anche “esperienza del male”, visto che l’identificazione col corpo terreno produce in noi la dimenticanza dell’essere, che è ignoranza e stoltezza ed è la radice dei mali, che sono desideri irrazionali e nocivi, sentimenti ostili e azioni colpevoli) in nota 2 al libro IV e in nota 4 al libro VII, in fondo, e anche a nota 11 al libro VII, dove ho suggerito tra le righe del mio dissidio con la signora V. un accenno di risposta, ma forse in modo ancora scarsamente convincente e accettabile. Dovremo discutere l’argomento con metodo logico-razionale più a lungo.

 

Nota 4: i misteri si possono svelare; e lo faremo prossimamente (cfr. la nota precedente) in uno scritto dedicato alle operazioni della Natura. Per adesso si mediti, per favore, su quanto diremo infra, §8.7.

 

Nota 5: si pensi solo al fenomeno della “baronia”, per esempio, dove i rampolli degli accademici importanti, anche se magari sono inetti e incompetenti, ottengono ruoli prestigiosi grazie ai maneggii dei loro genitori, quando magari una persona seria, impegnata e ben preparata viene lasciata da parte.

 

Nota 6: cfr. La cura dell’anima, §4.6.

 

Nota 7: Il fondamento della ricerca, libro IV; per la confutazione del creazionismo cfr. ivi, libro II e §§ 3.18-3.19.

 

Nota 8: ci sono alcune correnti di pensiero extracattoliche (macrobiotici e assimilati) dove circola la convinzione che le malattie organiche non siano il prodotto di leggi di natura, ma frutto della civilizzazione, cioè siano il risultato dell’allontanamento dell’uomo dal suo stato naturale. E’ una di quelle classiche fantasie irrazionali che abitano le menti scarsamente avvedute, che essendosi poco o nulla curate di studiare la realtà umana nella sua evoluzione storica, se la inventano. Non è mai esistito “l’uomo naturale”, perché senza tecnica o artificio ci saremmo già estinti: l’uomo è per definizione “animale con cultura”. Inoltre, anche in “natura”, cioè presso le specie animali prive di cultura, esistono le malattie e non vi è alcuna evidenza che presso gli uomini del paleolitico i corpi organici fossero esenti da malanni di ogni sorta e vivessero più a lungo che oggi i “nostri”, anzi, si è osservato il contrario. La natura prevede malattie, tanto che ha messo in atto virus, batteri e disfunzioni nella replica del DNA (che è quella catena di esseri dove viene registrata -memorizzata coscientemente, cioè, perché non c’è memoria fuori dalla coscienza- la lista delle istruzioni che serve alle intelligenze della Natura per costruire un nuovo organismo); al massimo si potrebbe parlare di malattie provocate  nell’organismo da un mancato rispetto delle leggi naturali per quelle che seguono a carenze o disordini alimentari (questa è la fissazione dei macrobiotici) oppure per quelle che si scatenano in un organismo esposto a inquinamento e sostanze tossiche. Sicché torno a dire che chi voglia rispettare le leggi di natura come fossero volontà divina, deve coerentemente evitare l’uso di farmaci e l’impiego della moderna medicina per non interrompere con l’artificio il corso naturale delle cose, o altrimenti, accorgendosi dell’assurdità della conseguenza, sradicare la premessa.

 

Nota 9: per la distinzione tra animalesco e bestiale cfr. supra, nota 1 all’Introduzione.

 

Nota 10: si capisce che per evitare traumi fisici alle donne (l’aborto non sarebbe un trauma morale se si sapesse che l’embrione non è vera vita e che nessuno viene danneggiato e soffre con la sua eliminazione, tutti i segnali di coscienza che il feto dà nel grembo materno provengono, verosimilmente, dal sistema nervoso e non dall’anima individuale; comunque anche se l’anima in procinto di incorporarsi fosse già in collegamento con l’aggregato, dalla disgregazione di quest’ultimo non riceverebbe alcun danno) sarebbe meglio che le persone imparassero il valore della castità. Ma il distacco dalla funzione sessuale può averlo soltanto l’eletto che avendo confutato il falso valore della vita biologica non ha più nessun interesse a dedicarsi alla riproduzione della specie e dunque al sesso, e non avendo nessun bisogno di ricavare valore fittizio dall’interesse sessuale di qualcuno, avendo in sé intatta l’idea retta di essere e dunque il proprio vero valore, non si dedica alle squallide vicende dell’innamoramento e dei rapporti di coppia, dove si chiama abusivamente amore quella che è la disponibilità dell’altro a ingigantire la nostra importanza e il nostro interesse ad usare l’altro come mezzo appunto per questo scopo, evitando quindi anche quella sgradevole e disgustosa contraffazione dell’amore vero che è la pratica sessuale; ma non si può pretendere che le persone ancora “in via”, come diciamo noi per intendere gli uomini e le donne ancora privi della forma eletta, reprimano e conculchino le loro tendenze: la realtà non va negata o nascosta, ma deve esprimersi e dunque è inevitabile che, essendo il piacere sessuale un mezzo di soddisfazione narcisistica per molti, essi ne facciano uso fuori della finalità riproduttiva e che le donne rimangano incinte senza volerlo. Va da sé che in questo caso è giusto scegliere il male minore, e dunque il metodo contraccettivo più efficace e meno intrusivo per la donna (compresa la pillola del giorno dopo, invece aborrita dal clero). Il male peggiore è quello imposto dai Cattolici come dovere: essi impediscono l’uso della contraccezione e vietano l’aborto, obbligando quindi molte anime a essere aggregate nel momento sbagliato e nell’ambiente sbagliato dove soffriranno una vita intera per mancanza d’amore.

 

Nota 11: si può ottenere un po’ di rispetto da queste intelligenze che governano i “nostri” corpi e tutto il mondo naturale se le si accusa fondatamente e con cognizione di causa quando i nostri affanni diventano troppi e siamo sicuri di non meritarceli (vedi l’esempio riportato supra, nota 19 al libro VII: quando ho scagliato una maledizione e un’accusa verso le forze che tenevano troppo a lungo mio padre in agonia, esse si sono indotte a lasciarlo libero; che non sia stata una semplice combinazione potrò dimostrarlo al Lettore che sappia seguirmi attraverso il linguaggio simbolico dei sogni, che sono comunicazioni col vero essere dove si trovano le spiegazioni più vere di quello che accade nella nostra vita); invece coloro che si rivolgono ad esse con piaggeria ottengono solo il loro disgusto e le loro reazioni sardoniche.


CONCLUSIONE.

 

Il Lettore avrà forse pensato che siamo troppo severi: se è una vita etica solo quella di chi rinuncia a una collocazione nella società per vivere ai margini, vive con poco riducendo al minimo i bisogni del suo corpo terreno, e non si dedica né al proprio sostentamento né a formarsi una famiglia, non intreccia rapporti di innamoramento con l’altro sesso (e nemmeno col medesimo) perché ha capito che i legami di coppia non sono vero amore ma sfoghi di autoesaltazione, e dunque rifiuta i rapporti sessuali, che sono la copia contraffatta, grottesca e disgustosa, del vero amore (che è scambio spirituale, comunicazione di pensiero e non sfregamento di mucose), e nega a sé stesso anche divertimenti e piaceri(1), cioè quelle cose che, almeno così si crede, rendono gradevole la vita, concentrando tutte le forze a un fine solo e subordinando ad esso tutto il resto, quello di capire la vera natura delle cose, distinguere la realtà dalla simulazione, il vero bene da quelli illusori, il male da quello che solamente si dice tale; e capire altresì la storia dell’uomo, il susseguirsi dei suoi sistemi di idee errati, la sua involuzione nel male, le sue miserie, magari prospettando cure; e anche adoperarsi per capire lo scopo della storia e del mondo del male, cioè osservare, seguendo con la massima attenzione, lo sviluppo della civiltà, onde intravedervi l’operato di queste intelligenze che governano la natura e i nostri destini, e coglierne quindi le vere intenzioni in modo da sfuggire alle loro insidie e ai loro tranelli, se -dicevo- solo questa è una vita etica, evidentemente la vita veramente etica non è alla portata di molte persone. Se l’eletto(2) vive come un profugo solitario e tribolato, chi mai vorrà entrare nel novero degli eletti? si sarà chiesto il Lettore, non poco allarmato da tutto ciò. E’ vero, siamo intransigenti, non abbiamo la manica larga come la Chiesa cattolica che spalanca le porte a cani e porci, svendendo santità e regalando salvezza, noi non promettiamo il paradiso agli uomini che non abbiano la minima intenzione di lasciare la propria vita vecchia, il vecchio sé imbrogliato in desideri terreni e di ripristinare in sé la forma sana, purché si lascino plagiare e dominare, e siano disposti a onorarci e riverirci: noi siamo seri. Noi applichiamo il metodo logico-razionale: sappiamo che cos’è l’essere e conosciamo la causalità spirituale (l’unica vera causalità, perché il meccanicismo è una simulazione): è felice chi ha raggiunto il bene, la verità, e lo condivide; altri no. E il paradiso è la felicità, è uno stato dell’anima, non, come raccontano i Cattolici, un luogo soprannaturale dove ti porta un angelo con le ali e l’aureola, se hai fatto “il bravo”, cioè se hai obbedito ai precetti e alle norme che costoro spacciano per volontà divina e sono invece lo sfogo della loro superbia e della loro invidia. E la felicità la raggiunge solo chi ha i mezzi opportuni per farlo, non gli accidiosi che credono di poter arrivare a un fine con mezzi comodi e spuri, inefficaci, pretendendo irrazionalmente che un effetto si produca senza che sia messa in atto la sola causa che può produrlo. Solo se hai tre lati e tre angoli sei un triangolo; solo se la tua anima, avendo in sé la retta visione dell’essere, riconosce come bene e dunque desidera il vero essere, l’infinita molteplicità delle coscienze che rappresentano l’infinito essere, e dunque vuole il bene di tutte le coscienze, cioè solo se tendi alla giustizia, sei giusto e puoi dirti eletto e, una volta realizzata la giustizia, puoi essere felice. Non c’è altra strada per il paradiso, perché il paradiso è la felicità, che è la fruizione eterna del bene, e la realizzazione del bene è la giustizia, e senza giustizia dunque non c’è paradiso. Quando ogni coscienza avrà il suo bene, cioè la verità, e sarà libera dal male, quello sarà il paradiso(3). Chi te ne promette un altro con sacramenti e riti e spruzzate di acqua santa, ti imbroglia. Certo che siamo intransigenti, perché siamo razionali e scientifici, non superstiziosi e stolti, e quando vogliamo ottenere un effetto mettiamo in atto razionalmente e rigorosamente la causa che lo produce, e non facciamo appello a poteri salvifici misteriosi accontentandoci di fare finta di averlo ottenuto. Noi non siamo di manica larga, e solo chi è riuscito a superare il vaglio delle prove terrene sarà dei nostri, chi non è caduto nelle trappole delle false immagini di bontà e santità della religione ufficiale, nella falsa immagine di ragione della pseudoscienza materialista e nelle pseudoiniziazioni degli esoterismi oscuri in voga oggi dopo l’indebolimento dell’autorità ecclesiastica, cioè chi non abbia seguito scorciatoie, sentendosi attirato dalla possibilità di dirsi santo, razionale o sapiente senza aver compiuto la fatica di trasformare la propria anima veramente, senza aver sradicato le tendenze irrazionali verso beni falsi e averle sostituite con tendenze a desiderare il bene vero. Chi vuole conservare la sua vecchia vita perde quella nuova; non puoi dirti nuovo quando sei ancora vecchio. Ebbene sì, il nostro vaglio è estremamente severo, noi non offriamo un’etica comoda alla portata di tutti, perché il nostro scopo non è diffondere la nostra scienza nel mondo, avere un pubblico più vasto possibile per fare successo, procurarci la gloria, la fama, onori nel mondo terreno, magari raccontando a noi stessi che così abbiamo portato a trionfare la verità, illusi di passare alla storia come chi ha fondato il regno dei cieli sulla terra (senza notare la contraddizione in termini); che ce n’importa di tutto questo? Se un regno è sulla terra è un regno terreno e non è il regno dei cieli, e qui siamo nel mondo del male e della simulazione dove tutto è effimero e non dura, ed è inutile sprecare fatica per fondare regni che poi degenerano: qui il pensiero subisce sempre involuzioni e ristagni, e tende ad appagarsi di copie contraffatte, di scimmiottamenti della verità, ed è meglio dunque non consegnarne un’immagine volgarizzata in mani indegne che ne farebbero strame per cattiva volontà trasformandola in un mezzo di potere o in un accidioso fanatismo. La verità va rispettata e deve trovarla solo chi ne sia degno, chi la cerca per amore del bene, chi la trova dopo aver anelato ad essa come un assetato alla fonte. E siamo estremamente intransigenti anche perché sappiamo che non succede nulla di male a chi non sappia realizzare subito, in un arco di tempo così breve come una vita terrena, la propria vita etica e dunque non abbiamo bisogno di rassicurarci, raccontando a noi stessi che Dio è buono e misericordioso e che salva tutti, non si sa come, con qualche miracolo. E’ buono chi vuole il bene, e il bene è la reale rettificazione dell’anima, non un’amnistia generale che non guarirebbe nessuno e non risolverebbe nulla. L’anima incolpata non è persa, sta solo passando attraverso l’esperienza del male; l’anima è eterna, no? dunque che fretta abbiamo? non possiamo lasciare che faccia i suoi errori e ne tragga le sue conseguenze con calma? Sbaglia; ebbene? Ha forse meno valore per questo? dobbiamo biasimarla, investirla di sentimenti di discredito, ostilità, disprezzo? Ma no. Ogni essere ha valore infinito, non ci stancheremo mai di ripeterlo, quello sano come quello ammalato, quello buono come quello malvagio, quello giusto come quello ingiusto. E l’ingiustizia che proviene all’anima dalla mancanza dell’idea retta di essere, dall’inclinazione a desiderare falsi beni che si è prodotta in lei essendosi ella identificata con il falso essere, e dal bisogno di ingigantirsi che le proviene dalla perdita del retto valore, per conservare il quale le occorrerebbe conoscersi come essere, tutto questo dipende dall’identificazione col corpo aggregato di cui l’anima non è responsabile ma vittima. Il superstizioso chiede perdono a Dio delle sue colpe; il sapiente accusa questo creatore della natura terrena, che non è Dio, perché è responsabile e colpevole del male che ha prodotto nell’uomo occultandogli l’essere e così privandolo del bene, e gli chiede conto. Nessuno può condannarci eternamente se commettiamo degli errori; la collera dei giusti di cui parlavo sopra, e che è un atto d’amore, è funzionale alla redenzione, perché è la spinta che obbligherà l’anima malvagia a prendere coscienza della sua malattia, della sua tendenza al male, e la convincerà a cercare la salute, non è collera distruttiva e punitiva, come credono i Cattolici; noi non cacciamo le anime ammalate all’inferno, noi ci prepariamo a curarle. Dunque non abbiamo nessun interesse per l’immagine illusoria di una salvezza rapida e facile, che comprenda tutti, anche gli incapaci: noi ci rivolgiamo solo a chi sappia capire e non vogliamo attirare i deboli, gli incerti, coloro che hanno altre faccende di cui occuparsi essendo ancora legati ai punti di alienazione del valore(4) o ai desideri terreni, o a gente svogliata che si dedica solo a letture sporadiche tanto per riempire i momenti liberi, senza impegno, senza metodo e in maniera non sistematica, ma collaterale e disorganica: noi cerchiamo persone capaci di sradicare da sé tutti i propri attaccamenti e desideri irrazionali, che è come dire uccidere l’uomo vecchio, quello terreno per far nascere l’uomo nuovo, la forma eletta, che significa rivoluzionare tutto il proprio essere e la propria vita, per dedicarla a una cosa sola, la ricerca dei mezzi per realizzare il bene, posto che in quest’epoca disgraziata di persone così ce ne siano(5). E se rimarrò da solo, pazienza. Vorrà dire che chiederò conto a chi ne è responsabile per il dolore di questa solitudine e delle mie speranze perdute. Già, le mie speranze… avevo promesso un’utopia (cfr. supra, §7.1), di tratteggiare una vita etica realizzabile nel futuro. Eccola: forse un giorno, tra chissà quanti secoli, si sarà capito che lo scopo della vita umana è altrove, e non è propagare una vita biologica priva di senso, che è soltanto una serie di circoli viziosi, privi di meta e che però costano fatica e sofferenza, e dunque non si riterrà più fondare uno stato ed una società “sul lavoro”, come recita oggi la Costituzione italiana; si fonderà lo stato sul valore del progresso spirituale, dove l’organizzazione terrena sia finalizzata a togliere tutti i singoli individui, tutti i cittadini, dal bisogno di provvedere al sostentamento del corpo terreno, cioè a fare in modo che questo bisogno non assorba tutta la loro vita, sicché tutti, dopo aver condiviso le risorse presenti sul territorio e con esse il lavoro, condividano anche l’agio di dedicarsi agli studi, alla riflessione, alla ricerca, a sviluppare linguaggi, condividendo dunque il bene, la sapienza e la bellezza, che è l’espressione sensibile del bene. Un’economia semplice, una vita semplice, dove la tecnologia sia finalizzata solo a semplificare il lavoro, non al profitto delle grandi industrie; una vita povera? Ma no, ricchissima, perché è povero chi ha molti bisogni, chi è appagato è ricco. E chi ha per sé la vita, la sapienza, l’amore è appagato e non ha bisogno di nulla. Fuori dalla nostra società, altrove, ci sono quelli che spendono la vita per procurarsi un ruolo lavorativo importante, perché la loro finalità quando lavorano non è procurarsi il sostentamento ma ingigantire il proprio ego, e dunque sono schiavi della propria superbia, che è come un interiore tiranno che li costringe a fare il proprio male, a consumare malamente il tempo e le energie della loro vita dietro a carriera e lussi, e a tutto ciò che può soddisfare tale smania di ingigantirsi. Si credono ricchi e importanti e sono poveri e inconcludenti, perché l’unica vera ricchezza è la sapienza e l’unico valore l’essere, che è pensiero; e l’unico vero successo è realizzare il bene. E allora, nella nostra città, un eletto non sarebbe un uomo di scarto, deriso dai superbi e disprezzato dai mediocri, ma avrebbe il suo ruolo e la sua collocazione, come maestro di filosofia, come guida nella cura dell’anima, perché le sue funzioni non sarebbero usurpate da chi promette all’anima salvezza con mezzi inefficaci e irrazionali, perdendola o da chi promette di curarla riducendola invece alla bestialità; nella nostra città uno come Agis non dovrebbe vivere come un emarginato, sentendosi un profugo, disagiato, in mezzo a tanta solitudine e a tante spine, ma otterrebbe sorrisi. Un’utopia suscita la derisione degli sciocchi, il ludibrio degli stolti dalla vista corta: ti dicono che non hai i piedi per terra e che acchiappi nuvole. Essi non sanno che un’utopia è un progetto e che per realizzare qualunque cosa, prima, bisogna progettarla e poi procurarsi i mezzi opportuni. O daresti dell’acchiappanuvole a un architetto che progetta una casa perché il suo disegno non è fatto di calce e mattoni? La nostra calce e i nostri mattoni sono le anime e il loro amore; e sono i mezzi con cui realizzeremo, a tempo debito, il nostro progetto, quando cioè i “mattoni” del nostro stato siano approntati, ovverosia le anime si siano dotate della forma giusta, e quando l’amore le legherà come calce e come cemento. Ma questa non è più materia di etica, bensì di filosofia politica e dunque ne rimandiamo la trattazione completa in altra sede. Qui basti aver accennato al fatto che la vita etica, che oggi sembra una meta da monaci eremiti, in futuro potrebbe invece realizzarsi facilmente in seno a una società dove i cittadini abbiano allineato tutte le loro forze verso il bene vero.

 

Agis.

 

 30/6/2007.


NOTE ALLA CONCLUSIONE.

 

Nota 1: è chiaro che l’eletto (o l’aspirante tale) non si nega divertimenti e piaceri per autopunirsi, perché li ritiene peccaminosi o perché vuol credersi più santo degli altri, ma perché costosi e dispersivi, per non consumare tempo ed energie che è bene invece dedicare a riflessioni e studi. O, a volte, perché quelli che sembrano agli altri divertimenti, per noi sono invece situazioni sgradevoli e imbarazzanti: non riuscirei mai a sopportare il chiasso di una discoteca, per esempio, o le chiacchiere di gente mezzo ubriaca e satolla a quelle cene che sembrano invece irrinunciabili alla maggior parte dei miei coetanei, e così dicasi per altre cose, tipo vacanze al mare, viaggi esotici e così via, che entusiasmano molti e che a uno come me sembrano invece di una noia infernale. Quello che proprio non riesco a capire è come così tante persone possano eleggere questo tipo di divertimento a unico scopo della loro vita, senza accorgersi che è impellente capire quale sia la nostra vera natura e quale il nostro destino e se davvero la nostra esistenza sia così effimera e priva di senso; ma a volte ho l’impressione che si cerchi nel divertimento proprio un modo di tener lontane queste domande e i pensieri sulla morte e sul male, e forse non è frivolezza ma paura e financo disperazione. Mi viene in mente una delle scene più significative del film di W.Herzog, Nosferatu, Phantom der Nacht, Rft/Francia 1979, un assoluto capolavoro per chi ne sappia penetrare il simbolismo, quella dove nella piazza del paese ormai in preda alla peste, un gruppo di persone sedute a una lunga tavola coperta di topi, mangia  beve e gozzoviglia, e a Lucy che chiede aiuto contro il vampiro, una commensale risponde: “siamo tutti ammalati di peste”; è per questo, spiega, che non vogliono occuparsi d’altro che di divertirsi, bere e mangiare, perché tra poco moriranno. Io mi sento come Lucy.

 

Nota 2: si ricordi il Lettore la nostra definizione del termine “eletto” (cfr. supra, nota 2 e nota 3 al libro VI e nota 6 al libro VII)

 

Nota 3: sì, esiste il paradiso, ed è la manifestazione del bene, cioè è lo spazio dove si riflettono e diventano visibili le forme spirituali delle anime sane, prive di male, ma più propriamente la manifestazione del bene si chiama “bellezza”: è il vero mondo, ed è bellezza. Perché la nostra trattazione di etica si completi dovremo parlarne, ma non posso farlo ora, prima di aver approfondito i concetti di corpo semplice, o corpo di pensiero e di mondo vero, o mondo dei corpi semplici. Ho bisogno, cioè, per non fare la figura del visionario o del fideista, che il Lettore si sia impadronito definitivamente del concetto di realtà come immagine, e cioè corpo di pensiero, e di percezione dell’anima libera dall’aggregato, focalizzando bene l’attenzione sul fatto che è sbagliato definire realtà quella che cade sotto i “nostri” sensi terreni, che è una complicata e astuta simulazione e non realtà. Anticipo qui solo che il paradiso è il mondo senza male e dove i pensieri appaiono nello spazio come i luminosi oggetti dell’anima, un mondo perfettamente visibile, ma dove la visibilità non è equivoca, fuorviante, incomprensibile e ingannevole come qui. E che non siano sogni o allucinazioni, lo dimostra il nostro ragionamento assiomatico deduttivo che vuole reale tutto ciò che è contenuto della coscienza (se il Lettore non ne è convinto, rilegga il contenuto del I libro de Il fondamento della ricerca e passim): le immagini, i contenuti della coscienza, sono la realtà, e non esiste una realtà reale da contrapporre a una realtà solo sognata o allucinatoria. Nessun sogno è solo un sogno, né esistono allucinazioni, tutto ciò che vede l’anima è immagine e dunque realtà, e “allucinazione” è una parola priva di significato: gli oggetti che vedi nel mondo dei sogni o nelle visioni erroneamente considerate allucinatorie sono immagini e quindi, secondo la nostra definizione, sono corpi reali ed è la forza del linguaggio simbolico, nel pensiero, che produce il corpo, come immagine visibile di una realtà invisibile. Solo gli oggetti della sensazione terrena possono, in linguaggio eletto, dirsi “sogni”, perché non sono quello che sembrano e l’anima dorme e sogna, cioè s’inganna, quando li vede e crede che la realtà sia qualcosa di extramentale. Per “entrare” in paradiso, cioè poter ricevere le immagini del suo spazio senza smarrirsi in pensieri ingannevoli, occorre dunque aver confutato i concetti sbagliati di realtà che vigono nel mondo comune e nella scienza materialista, e le convinzioni assurde della psicoanalisi: sogni e visioni non sono “prodotti dell’inconscio”, che non esiste, ma le normali percezioni dell’anima quando è nel mondo vero, quando l’essere le comunica direttamente i suoi contenuti specchiati nello spazio, nella sua immaginazione. A chi sappia far propria la nostra dimostrazione e prenda dimestichezza con il linguaggio purificato dagli errori concettuali che abbiamo cominciato ad offrirgli nella nostra ontologia, si schiuderanno le porte del paradiso, le visioni del vero essere, la sua bellezza.

 

Nota 4: su questo concetto vedasi La cura dell’anima, libro III.

 

Nota 5: si noti che i termini “uomo vecchio” e “uomo nuovo”, presenti nella letteratura paolina, che sono un’eco di ciò che doveva professare realmente Gesù, corrispondono ai nostri concetti di forma animalesca o bestiale (l’uomo vecchio, e anche l’apocalittico “marchio della bestia”: cfr. Ap. 13,16 e 20,4) e forma eletta (l’uomo nuovo, e anche “il sigillo del nostro Dio”: cfr.  Ap. 7,3). L’uomo vecchio è insomma l’anima che si identifica col corpo aggregato e ne trae tendenze irrazionali ed attaccamenti a falsi beni (gli idoli) terreni, e la sua forma spirituale è il “marchio della bestia”, l’uomo nuovo è l’anima che sappia che il suo vero essere è coscienza e pensiero, e che il bene è la verità, e la sua forma spirituale è il sigillo di Dio, la forma divina, che noi chiamiamo anche sana o eletta.