GREGORIO AGIS.

 

 

L’ANIMA.

Coscienza, intelletto, ragione, affetti e volontà.

 

 

 

 

CONTENUTI:

 

Introduzione.

Premessa: ricapitolazione di ciò che abbiamo già detto sull’anima negli scritti passati.

Il primo assioma e le definizioni fondamentali (Libro I).

§1.Definizioni.

§2.Il metodo.

§3.L’assioma fondamentale e qualche commento.

§4.Altre definizioni.

L’intelletto e le idee (Libro II).

§1.Alcune considerazioni preliminari.

§2.Occorre avere l’intelletto sano, la facoltà di dare giudizi cognitivi, per poter dare giudizi di valore retti e dunque divenire giusti e buoni.

§3.Definizioni e qualche discussione.

§4.Le idee fondamentali e qualche commento.

§5.Le idee normative.

Le idee e la visibilità: l’anima come immaginazione (Libro III).

§1.Diventiamo spazio, materia e corpi.

§2.Alcune notazioni terminologiche.

§3.I corpi sono simboli.

Idee, desideri e giudizi: l’anima come volontà (Libro IV).

§1.L’amore. Dal desiderio alla volontà.

§2.Definizioni e terminologia. Descrizione della volontà retta.

§3.I mezzi per arrivare al fine: il dovere.

§4.La sottomissione alla volontà divina.

§5.La giustizia è amore. Libertà e autonomia dell’anima.

Il rapporto tra idee e affetti (Libro V).

§1.Il rapporto tra l’idea di essere e l’amor di sé.

§2.Il rapporto tra l’idea di essere e l’amore per il prossimo. La stima degli altri.

§3.Il rapporto tra l’idea di giustizia e i sentimenti.

§4.Per riassumere e completare.

Conclusione: i risultati di questa ricerca e prospettive.

§1.Ci siamo procurati gli strumenti.

§2.Uno strumento indispensabile: il linguaggio.

§3.Prospettive per i prossimi studi: dal paradiso all’inferno.


INTRODUZIONE.

 

§0.1.Circa venticinque secoli fa, è venuto Socrate a spiegarci che il vero uomo è l’uomo di pensiero e non quello di carne; ma bisogna tener conto del fatto che qui, nel mondo terreno, il vero uomo non c’è e al suo posto troviamo una “creatura”, cioè un aggregato di cose diverse, un animale incomprensibile, che non è sé stesso ma il risultato di interferenze terribili prodotte da forze che lo condizionano e lo determinano a essere ciò che da sé non sarebbe mai.

§0.2.Abbiamo già parlato dell’anima negli studi passati, già presenti su questo sito: ne Il fondamento della ricerca abbiamo dato la definizione di anima e nello studio successivo, La cura dell’anima, abbiamo iniziato a definire e ad esaminare la sua malattia; ne Il fondamento dell’etica abbiamo poi iniziato a cercare il suo bene, la via che conduce alla felicità e, in seguito, nello scritto intitolato L’Essere, l’Anima, i Mondi, mi sono impegnato a condurre il Lettore, o la Lettrice, in un altro mondo, nella vera realtà dove l’anima è libera e risplende, o comunque non è più accompagnata dal suo “doppio”... Chi mi abbia seguito sin qui deve ormai aver focalizzato l’attenzione sul problema fondamentale che ci pone la vita terrena: chi siamo veramente? e anche: chi e che cosa vogliamo essere?

§0.3.Qui, nel mondo terreno, come sa chi è stato capace di seguirmi, il nostro vero essere è coperto da una maschera; e dopo le esperienze che ho raccontato nel complemento a L’Essere, l’Anima, i Mondi, che s’intitola Ritrovare Giacinto, spero che la Lettrice, o il Lettore, si stia ponendo appunto questa domanda: io chi sono veramente? e le altre persone? Come possiamo liberarci dalla maschera e conoscere finalmente noi stessi? Compito impellente dell’anima smarrita nel mondo degli inganni è ritrovare la conoscenza di sé e di riappropriarsi di sé stessa così da recuperare la propria autonomia e la capacità di essere e di volere prima perduta, e perciò, dopo aver trascinato il Lettore, o la Lettrice, nelle mie avventure ultra-terrene di mistico razionale, sperando che intanto abbia iniziato anche a viverne da sé, o almeno di averLo o averLa un poco divertito e incuriosito, vorrei tornare alla parte teoretica della mia attività e proporre di rivolgere il nostro sguardo all’anima, a noi stessi cioè, come saremmo se fossimo liberi dalle interferenze prodotte in noi da quelle forze della Natura i cui scopi e le cui operazioni ho iniziato a mostrare nello scritto appositamente dedicato a loro, intitolato appunto La Natura, e nei suoi due complementi, tutti scritti contenuti nel presente sito.

§0.4.Quando l’anima prende coscienza di sé stessa e torna a conoscere ciò che realmente è, iniziando a guardare il mondo terreno come a una simulazione e a capire che esso non è vera realtà ma un inganno, e quando dunque recupera la facoltà di vedere le rette rappresentazioni dell’essere, le idee, e cioè quando recupera il suo intelletto ripristinando così la salute nelle sue tendenze desiderative e rettifica la sua volontà, noi questo lo chiamiamo “risveglio”. Ebbene: vorrei contribuire con questo presente lavoro al risveglio di qualche anima che sia giunta al punto di desiderare di uscire dal suo sonno e che dunque cerchi i mezzi opportuni per farlo.

Gregorio Agis.

26/11/2008.


PREMESSA:

RICAPITOLAZIONE DI CIO’ CHE ABBIAMO GIA’ DETTO SULL’ANIMA NEGLI SCRITTI PASSATI.

 

Non sarà inutile, credo, riordinare la materia già trattata e rammemorarla. Il Lettore, o la Lettrice, mi segua per favore nei seguenti punti:

 

1.La definizione di anima.

Nel II libro de Il fondamento della ricerca abbiamo definito l’anima come la coscienza dell’essere. Ivi dicemmo che quando l’essere, che è infinito ed è potenza di pensare, compie effettivamente l’atto di pensarsi, questo atto è infinitamente molteplice, poiché l’infinito non può esaurirsi in un’unica coscienza individuale, che è un essere finito, e dunque di anime ve ne sono infinite per numero, e ogni anima è, appunto, un atto di coscienza dell’essere. Ella è dunque un atto di pensiero. Ivi dicemmo anche che ognuna di noi coscienze è l’essere stesso, ognuna di noi anime è la rappresentazione che l’essere dà a sé stesso di sé. La coscienza dell’essere è dunque molteplice, mentre l’essere è uno, poiché esso è il principio infinito e non una cosa né una persona, ma pensiero; e tale coscienza, in senso collettivo, possiamo anche chiamarla Anima, oppure Dio, ma ricordiamoci che Dio, ovverosia l’Anima, che io amo anche chiamare “i Mondi”, è la somma di tutte noi anime, di tutte noi coscienze dell’essere, se riflettiamo l’essere correttamente in noi. Tu e io, caro Lettore, o cara Lettrice, siamo lo stesso essere, il pensiero infinito, ma che sta rappresentando sé stesso in due diverse coscienze, come una luce che si rifletta in due diversi specchi. Tu e io, cara Lettrice o Lettore, insieme a tutte le altre coscienze dell’essere, siamo Dio.

 

2.Eternità dell’anima.

Poiché l’essere è necessariamente esistente, dato che il pensiero dell’esistenza del non essere è contraddittorio, l’essere non può mai non essere; e poiché l’essere è coscienza e conoscenza di sé, noi anime, che siamo appunto la coscienza dell’essere, siamo necessariamente esistenti e dunque siamo eterne: non nasciamo, non moriamo e non siamo create da nessuno, ma siamo l’essere e, anzi, siamo noi che facciamo essere effettivamente l’essere dandogli una coscienza e una conoscenza di sé con l’atto di rappresentarlo rettamente in noi stesse, perché l’essere senza coscienza e conoscenza di sé non è essere, non sarebbe nulla.

 

3.L’anima è da sé.

L’anima non è soggetta ad alcun determinismo, non è creata e non è il prodotto di un processo biologico, non è cioè il sottoprodotto di una materia esistente prima di lei e fuori di lei (abbiamo confutato la possibilità dell’esistenza di questo genere di materia nel libro I de Il fondamento della ricerca, come si ricorderà): ella è un atto di pensiero, è pensiero che genera sé stesso pensandosi e non ha bisogno di nulla che di sé per esistere. L’anima è quello che sa di essere, e quando è libera da inganni e condizionamenti, l’anima è quello che decide liberamente di essere, è ciò che vuole essere (cfr. ivi, §2.5). L’anima libera da errori concettuali sa di essere autonoma, di potersi dare, cioè, l’essere e la forma da sé, poiché l’essere è un atto del suo pensiero e la sua forma dipende da come questo pensiero sceglie di pensarsi. Sarà questo un argomento importante da svilupparsi nel corso del presente studio.

 

4.L’anima è autonoma nel suo essere e nel suo apparire.

Ella non ha bisogno di ricevere un corpo da chissà chi: ella stessa è fonte della sua materia e, quando è sapiente e cioè capace di vedere le rette idee (=rappresentazioni dell’essere), può ricavare i suoi corpi da essa imprimendovi le forme, imprimendo cioè l’immagine di un’idea nella sua materia. Infatti, come si ricorderà definimmo la materia, quella vera e non quella terrena che è una simulazione, come immagine riflessa nello spazio dell’idea di essere, che l’anima ha in sé stessa (ivi, §§2.6-2.7): quando l’anima ha idea di essere, tale idea diventa un’immagine nella sua immaginazione (che è uno spazio) e cioè un corpo visibile che è matrice di tutti gli altri corpi, dato che essa è l’elemento liquido e infinito che può ricevere tutte le altre forme. Ho anche condotto il Lettore, o la Lettrice, a guardare i corpi così prodotti là dove si trovano, nei veri mondi dove questi corpi cristallini splendono, nel testo intitolato L’Essere, l’Anima, i Mondi, dove, come il Lettore ricorderà, abbiamo chiamato l’immaginazione, che è la facoltà di produrre immagini e cioè corpi, anche “forza del sogno”, proibendo alla nostra logica di distinguere il sogno e la realtà: il sogno è realtà e la realtà è sogno, ivi dicemmo, nel libro I di quello scritto. Tratteremo ancora tale facoltà dell’anima nel corso del presente studio.

 

5.L’anima è autonoma nel suo pensare, sentire, desiderare, volere.

Ella è in grado di produrre tutti i suoi contenuti e di tenerli sotto controllo, cioè giudicarli e correggerli; se non è ingannata tutto le è chiaro di sé stessa e tutto può dominare di sé con la sua volontà, se la sa usare correttamente. Abbiamo già iniziato a parlare di desideri e tendenze desiderative, sentimenti e tendenze affettive, dando anche la definizione di “forma spirituale” nei due studi La cura dell’anima e Il fondamento dell’etica, ma torneremo sull’argomento nel presente studio per ordinarlo e completarlo quanto possibile. In più qui esamineremo anche la volontà, che è un tipo di desiderio, e bisognerà anche studiare meglio le copie contraffatte delle facoltà dell’anima che interferiscono con la sua attività qui nel mondo terreno, e cioè osservare come la contraffazione di vita offuschi, fino a spegnere, a volte, la vera vita dell’anima. Ma della malattia dell’anima, che si chiama “umanità” o “forma umana” parleremo altrove, in uno studio apposito.

 

6.L’anima è bene e anche bellezza.

Visto che bene è l’essere, e l’essere non è se non ha coscienza e conoscenza di sé, l’anima che sia la retta rappresentazione dell’essere, cioè appunto conoscenza che l’essere ha di sé, è il bene; e l’anima che sa farsi visibile generando corpi nella sua immaginazione, che è come dire le immagini di sé, e cioè dell’essere, nel suo spazio, in quanto manifestazione visibile e sensibile del bene, si chiama anche “bello”, “bellezza”. Si parlerà più avanti, nel presente studio, dei sentimenti e desideri che genera l’anima in sé sentendo il bene e la bellezza, e sarà opportuno, anzi, indispensabile imparare a distinguere questi veri sentimenti e desideri retti dalle loro contraffatte copie terrene, e questo si farà soprattutto nello studio già promesso sopra sull’umanità come malattia dell’anima.


LIBRO I.

 

IL PRIMO ASSIOMA E LE DEFINIZIONI FONDAMENTALI.

 

 

 

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI:

 

Definizioni di “sensazione” o “contenuto della coscienza”, di “pensiero cognitivo” e “pensiero affettivo” (§§I,1.1-2), di “amore” (§I,1.5).

 

La legge fondamentale (§§I,1.3-4; §I,1.7; enunciazione definitiva: §I,3.1).

 

La derivazione del desiderio o del sentimento dall’idea di bene è assiomatica, ma è stata trascurata dalla psicologia in voga oggi (§§I,2.1-2). Polemica con gli psicoanalisti (§I,2.3). Polemica con il Cristianesimo storico (§I,2.4). Gli errori di questi due rami della nostra cultura sono frutto delle operazioni della Natura, gli dèi ingannevoli (§I,2.5).

 

In luogo dei retti giudizi chiari e logici, l’anima ammalata compie atti cognitivi carenti e oscuri (§I,3.2 e §I,3.4; §§I,3.9-11).

 

Giudizi e giudizi di valore (§I,3.3). Digressione su: albero di generi e specie della realtà (§I,3.5-6) e su: giudizio o sussunzione sotto a un concetto, e terminologia (§I,3.7), per arrivare a parlare dei giudizi di valore. Polemica con i filosofi oscuri e irrazionali (§I,3.8).

 

Definizione di “forma spirituale” e “tendenza” (§§I,4.1-2). Non tutti i “vincoli” sono attaccamenti (§I,4.3). Definizione di “desiderio razionale”  e “sentimento razionale”, e di “tendenza razionale”; definizione di “desiderio irrazionale” e “sentimento irrazionale”, e di “tendenza irrazionale” (§§I,4.4-5). Il termine “passione” (§I,4.6). Inconsistenza del termine “pulsione” (§I,4.7).

 

Definizione di “forma spirituale eletta” (§I,4.8); definizione di “forma spirituale ammalata o malvagia” (§I,4.11). La bontà coincide con la razionalità, la malvagità con l’irrazionalità (§I,4.11).

 

Descrizione degli affetti di un’anima sana (§I,4.9). Il solo modo per ripristinare l’amore nell’anima è restituirle la retta idea di essere (§§I,4.10-11).

 

 

 


Abbiamo già parlato di affetti, e cioè desideri e sentimenti, e di disposizioni, e cioè della tendenza dell’anima a provare un certo desiderio o un certo sentimento, in due occasioni, prima nel nostro studio La cura dell’anima e poi nello scritto Il fondamento dell’etica; abbiamo anche già dato la definizione di “forma spirituale” come la somma di tutte le tendenze affettive, tendenze cioè a provare determinati sentimenti o determinati desideri, che nell’anima nascono e che derivano dalle idee in essa contenute. La cosa più importante fu, infatti, notare questo rapporto causale tra gli affetti, sentimenti o desideri che siano, e le idee che sono in lei presenti: assioma della nostra scienza dell’anima è che i suoi desideri e i suoi sentimenti dipendono dalle idee che sono i lei presenti. In particolare, abbiamo trovato cruciali per le disposizioni dell’anima le idee di essere, di bene, di giustizia. Sarà ora il caso di sistemare ordinatamente la materia cercando di completarla il più possibile. Parleremo dunque nel presente libro I di forma spirituale e di rapporto tra tendenze desiderative e idee, poi nel II esamineremo l’intelletto e le idee; continueremo sul rapporto tra idee e facoltà dell’anima nel III e nel IV libro e, infine, vedremo come dalle idee sorgono i sentimenti.

 

§1. Definizioni.

§I,1.1.Definiamo contenuto della coscienza (o sensazione) tutto ciò di cui ella si accorge; alcuni contenuti sono prodotti dalla coscienza, altri sono da lei ricevuti passivamente. Parleremo della ricezione passiva in altra sede; ora parliamo dei contenuti della coscienza che ella produce da sé.

§I,1.2.Il genere dei prodotti della coscienza si può specificare in pensieri cognitivi e affetti: sono pensieri cognitivi le rappresentazioni dell’essere, o idee, le deduzioni tratte da queste e le sussunzioni o giudizi: sono insomma pensieri cognitivi tutti quelli rivolti a comprendere che cos’è qualcosa; sono pensieri affettivi (così mi piace anche chiamare gli affetti, estendendo il genere del pensiero a tutti i prodotti della coscienza) le sensazioni che l’anima prova impiegando l’idea di bene, e cioè desideri e sentimenti. Infatti un DESIDERIO o un SENTIMENTO è la percezione del valore di una cosa: dar valore a una cosa significa considerarla un bene. Ogni desiderio e ogni sentimento, perciò, sottendono un atto cognitivo, e cioè il giudizio sul valore di una cosa, la sua sussunzione o meno sotto il concetto di bene.

§I,1.3.Da ciò possiamo trarre la legge fondamentale della nostra psicologia, che è la seguente: quando un’anima sente qualcosa come bene, lo desidera. I desideri dipendono dall’idea di bene.

§I,1.4.E anche i sentimenti dipendono dall’idea di bene, perché provo gioia di fronte a un bene già realizzato; sicché possiamo ripetere la legge fondamentale della nostra psicologia ampliandola nel seguente modo: quando un’anima sente come bene una cosa, che deve ancora procurarsi, la desidera; quando sente come bene qualcosa che è già presente ne gioisce. Ricordiamo dunque che a tutti gli affetti è sotteso un atto cognitivo.

§I,1.5.Chiamiamo AMORE sia il desiderio di bene che il sentimento di gioia per la fruizione del bene.

§I,1.6.Ma ci sono anche i sentimenti negativi, e i timori. Infatti il valore di una cosa può anche essere negativo. Ricordiamo che diamo valore positivo ai beni, che infatti chiamiamo anche “valori”, mentre diamo valore negativo (o meglio: neghiamo il valore) ai mali, che a volte si sentono anche chiamare “disvalori”.

§I,1.7.Possiamo completare la nostra legge fondamentale aggiungendo al primo enunciato (§I,1.4) quanto segue: quando un’anima sente una cosa come male, se è assente la teme, se è presente la detesta e ne soffre, prova cioè verso di essa sentimenti negativi.

§I,1.8.Anche il timore del male e il sentimento di disapprovazione verso il male sono AMORE: infatti chi fugge il male desidera il bene.

 

§2.Il metodo.

§I,2.1.Il Lettore (o la Lettrice) avrà notato che con la legge fondamentale testé enunciata stiamo dicendo una banalità. E’ così che deve essere: infatti, tale legge è l’ASSIOMA di tutta la nostra psicologia, e gli assiomi, per essere tali, devono essere verità immediatamente evidenti a chiunque le ascolti, e cioè delle banalità. E ricordiamo che se una scienza non si fonda su assiomi e non procede per deduzione da essi, non è una vera scienza, ma un guazzabuglio irrazionale.

§I,2.2.Può sorprendere il fatto che questo semplicissimo assioma sia rimasto inascoltato tanto a lungo, ma dobbiamo pensare che l’anima con la sua attività qui, nel mondo terreno, è eclissata dietro al corpo fisico, che è una pesante maschera, e che non ne nasconde solo il vero aspetto, e cioè il corpo simbolico che esprimerebbe visibilmente i suoi contenuti e che è visibile solo nei mondi veri, ma nasconde anche e soprattutto le sue vere facoltà e i prodotti di esse, perché dal corpo terreno nascono numerose interferenze che ci confondono sui contenuti della nostra anima e li rendono difficilmente visibili: dal corpo fisico, infatti, o meglio da quelle intelligenze che l’hanno aggregato e lo governano, l’anima riceve passivamente (per via medianica ovvero per ispirazione, secondo il linguaggio da noi stabilito nel corso dello studio La Natura) dei contenuti, sicché ella manifesta pensieri, e in particolare desideri e sentimenti, che sono istintivi e che sembrano derivare non dall’idea di bene che ha in sé ma dalla sua appartenenza biologica o da qualche misterioso psico-meccanicismo. Osservando, dunque, a posteriori i comportamenti umani si ha l’impressione che le spinte che muovono le persone verso determinati comportamenti, e cioè i loro desideri e sentimenti, non dipendano dal loro intelletto (=facoltà di vedere le idee), ma che provengano da chissà dove, dalla “parte irrazionale di sé”, come si usa dire perché non si fa distinzione tra affetti passivamente (o medianicamente, che dir si voglia) ricevuti, dei quali non si conosce né la provenienza né la ragione, e che dunque sembrano qualcosa di “irrazionale”, e veri affetti, desideri o sentimenti che siano, realmente prodotti dalla coscienza individuale. Sicché nella nostra cultura comune è accreditata l’idea che facoltà razionale e sentimenti siano in antitesi, che la ragione renda freddi spegnendo gli affetti, il che è un’assurdità perché è vero esattamente il contrario: è l’idea di bene contenuta nel mio intelletto che mi rende capace di amare.

§I,2.3.Inoltre, se nella nostra cultura europea si è eclissata totalmente la visione di questa facilissima verità, l’assioma testé enunciato nei due §§ I,1.4 e I,1.7, è per via del fatto che coloro che si sono imposti come medici dell’anima, vale a dire gli psicoanalisti, non stanno realmente cercando un modo per conoscere l’anima, il suo bene e il suo male, ma quello che realmente vogliono è un sapere esclusivo e prestigioso che li renda importanti, che consenta loro di esibire in pubblico una presunta superiorità scientifica; essi non sono veri dottori, ma anime a loro volta ammalate per quella smania d’ingigantire il proprio ego della quale parlammo, come la Lettrice o il Lettore ricorderà, ne La cura dell’anima e che da un altro punto di vista si chiama semplicemente “superbia”. Perciò una verità banale, evidentissima e dunque facilmente condivisibile non serve al loro scopo ed essi la trascurano, preferendo seguire teorie oscure e complicate, anche se completamente assurde, perché è facile spacciare l’oscurità per profondità e l’astrusità per superiore scienza, onde riceverne ammirazione e ricavarne successo. Inoltre, la psicoanalisi com’è oggi è un’arma che consente al sedicente dottore di negare al paziente la sua capacità di intendere e di volere, e cioè intrappolarlo nella propria fantasmagoria di comodo dove gli altri sono tutti esseri irrazionali in balia delle pulsioni e dell’inconscio, privi di autonomia e di controllo su di sé, di fronte a lui grande scienziato, unico essere razionale e dotato di intelletto. Sicché un’anima ammalata di superbia, o gigantismo dell’ego, che dir si voglia, e cioè che sia in preda a quella smania di negare la propria normalità umana, che sente come screditante, e di esaltasi al di sopra degli altri e abbassare il prossimo, fino anzi a negarne l’essere, trova proprio nella psicoanalisi ciò che serve ai suoi scopi e dunque tale pseudo-scienza attira a sé le persone siffatte, le quali preferiscono professare l’assurda dottrina dell’inconscio e delle pulsioni, o qualche succedanea anche più assurda, piuttosto che questa semplice verità, che gli uomini pensano e sono coscienti, e che sono capaci di sentire il bene. Questa verità, infatti, li costringerebbe ad ammettere ciò che più essi invece cercano di negare, la loro uguaglianza con tutti gli altri, e ad aver rapporti con i propri pazienti su basi di parità, rispettando il loro essere e riconoscendo il loro valore: dovrebbero cioè ammettere che ogni persona è una coscienza potenzialmente capace di intelletto e potenzialmente buona e giusta. Ma rispettare l’essere del prossimo e dargli il valore che gli spetta, e sentirsi affratellato con lui, è cosa impossibile per chi è affetto da gigantismo dell’ego, ossia da superbia, perché il suo timore fondamentale è appunto doversi dire uguale agli altri; e poiché tutti questi sedicenti dottori dell’anima hanno imboccato la via della psicoanalisi per pura superbia, proprio perché in essa hanno trovato il mezzo adatto al loro scopo di ingigantire la propria importanza e disprezzare il prossimo, non possono certo vedere ciò che l’occhio modesto e umile del vero medico, cioè di quella persona che, guidata dall’amore del prossimo, desidera realmente guarirlo, invece coglie immediatamente: che le anime sono tutte il medesimo essere infinito, e che tutte sono potenzialmente capaci di riflettere il bene, che tutte le persone hanno coscienza e sono autonome, e che tutto ciò che occorre perché esse diventino sane è mostrare loro come si può impiegare rettamente tale autonomia per procurarsi il bene e liberarsi dal male.

§I,2.4.Prima ancora che la psicoanalisi e, in generale, la scienza materialista, è stato il Cristianesimo storico, cioè quello sbagliato, a occultare l’anima a sé stessa e a interdirle la via della guarigione, poiché esso è diventato precocemente un mezzo di dominio sulle coscienze: i suoi sedicenti sacerdoti e dottori, ben lungi dal voler guarire realmente l’anima umana dal suo male riconoscendone l’autonomia e riportandola all’intelligenza, hanno invece preferito negarne di prepotenza, e dunque distruggerne, l’autonomia e la capacità di trovare l’essere e il bene con la ragione, convincendola fraudolentemente della sua incapacità e indegnità, manovra diretta a spodestare l’anima e a dominarla, e a colpevolizzarla, dopo averla resa inetta, proprio per la sua inettitudine, così da spingerla a cercare un rimedio a un tale stato di perdizione nei sacramenti e nei riti di cui ha esclusivo monopolio l’istituzione ecclesiastica, piuttosto che nei veri mezzi di guarigione, quelli che avrebbero redento veramente l’anima e che sono la vera dottrina di Cristo, quel logos che coincide con la scienza logico-razionale. Sicché in luogo del nostro facile ed evidentissimo assioma, che vuole l’anima desiderare e amare il bene, purché sia in grado di riconoscerlo come tale, e cioè purché abbia intelligenza e sappia usare l’intelletto, si preferiva dipingere l’anima in preda a forze sataniche e salva solo per il misterioso potere del sacrificio di Cristo, ignorando che l’unica vera forza satanica è l’inganno che trascina l’anima verso gli errori concettuali sull’essere e sul bene, che cioè è l’irrazionalità a rendere l’anima priva di amore e malvagia, ed è dunque l’irrazionalità a essere l’unica forza satanica o diabolica che guasta l’uomo; e che l’opera di Cristo doveva dunque consistere non in un sacrificio espiatorio su modello pagano, ma nell’istruire l’anima sull’essere e sul bene, perché ne ritrovasse intelligenza e tornasse a impiegare rettamente il suo intelletto, sicché sentendo il vero bene come bene lo desiderasse e diventasse buona e ritornasse ad amare, cessando anche di sentire come beni quelli falsi e di errare dietro a quelli, tornando così alla salute.

§I,2.5.In effetti, queste due categorie di persone, gli psicoanalisti e i Cattolici, non hanno fatto altro che cadere nei principali tranelli della Natura, visto che è proprio questa l’operazione fondamentale di quelle intelligenze che hanno creato e che governano il mondo terreno, e che nello scritto dedicato a loro, La Natura, appunto, abbiamo dimostrato essere angeli o dèi, che dir si voglia, ma intenti nello svolgere un ruolo satanico e dunque coincidenti con il Satana della tradizione. L’operazione fondamentale di Satana è quella di togliere all’uomo la retta idea di essere, e costringerlo a vedere l’essere altrove che nel pensiero, ossia in sé stesso, e dopo aver costretto l’uomo ad alienare l’essere da sé, e cioè a vederlo fuori di sé, in una materia “extra-mentale” e in un mondo “oggettivo”, osservare come egli perda così anche la retta idea di bene, perché se bene è essere, chi non sa che cos’è l’essere ignora anche che cos’è il bene, e come, di conseguenza, perda anche la capacità di sentire il vero bene come tale e cioè di desiderarlo e di gioirne e di amare. La Natura, Satana, vuol capire e farci capire che cosa accade a un’anima quando, sentendo come beni quelli che non sono tali, disperde il proprio desiderio in mille rivoli errati, andando in cerca di ciò che crede bene e invece è male. E per far ciò, dopo averci sottratto la retta idea di essere, deve anche impedirci di ritrovarla: perciò nasconde l’anima a sé stessa, confondendola sui suoi contenuti con delle interferenze, facendole credere che ella non è la fonte del suo essere e del suo sentire e desiderare, ma simulando o una realtà dove la coscienza è il sottoprodotto di un determinismo naturale ed è soggetta a meccanicismi oppure una vicenda dove l’anima è mossa e dominata da forze soprannaturali esterne a lei. Una delle operazioni più subdole e tenaci di codeste intelligenze ingannatrici è, dunque, negare la dipendenza dei desideri e dei sentimenti, e di conseguenza anche della volontà, dalle idee dell’intelletto onde impedirci di ritrovare la capacità di desiderare il bene e di avere una volontà retta.

 

§3.L’assioma fondamentale e qualche commento.

§I,3.1.E così, dopo aver difeso la legge fondamentale della nostra psicologia, che è anche il nostro primo assioma, dai pregiudizi del mondo, ripetiamola e memorizziamola:

 

Quando un’anima sente come bene una cosa, che deve ancora procurarsi, la desidera; quando sente come bene qualcosa che è già presente ne gioisce. Quando un’anima sente una cosa come male, se è assente la teme, se è presente la detesta e ne soffre, prova verso di essa sentimenti negativi.

 

§I,3.2.Devo ora spiegare perché nella nostra legge fondamentale è detto: quando l’anima sente, e non quando l’anima giudica, e cioè perché ho usato il termine più generico di “sensazione” in luogo di quello più specifico di “giudizio”. Questo è perché il nostro assioma vale sia per l’anima sana, e cioè per quella che abbia l’intelletto in ordine, ossia la retta capacità di vedere le idee, sia per l’anima ammalata, quella che di tale capacità ormai difetta per la sua identificazione col corpo terreno e il conseguente smarrimento della retta idea di essere; e, come si vedrà nel corso dei prossimi libri più in dettaglio, l’anima sana è in grado di giudicare, poiché un giudizio è la sussunzione di una realtà individuale sotto l’idea di bene, un confronto tra la definizione del bene e quella determinata realtà, mentre l’anima che difetti di tale idea ha perso questa capacità e dunque o non giudica o crede di giudicare ma lo fa in maniera errata.

§I,3.3.Giudicare significa anche collocare rettamente una cosa individuale nel suo genere e nella sua specie: quando dico, per esempio, che la figura ABC è un triangolo, tale proposizione è un giudizio. Ma la parola “giudizio” ha anche il significato più ristretto, quando è sottinteso che giudicare significa asserire o negare l’appartenenza di una certa realtà al genere dei beni, e questo giudizio si chiama “giudizio di valore”, perché, come già detto, noi diamo valore ai beni e quindi se collochiamo una cosa nell’insieme dei beni, le diamo valore (supra, §I,1.2, quando abbiamo detto che gli affetti sono la percezione del valore di una cosa). Sicché ora sono solo questi i giudizi che ci interessano, le sussunzioni sotto il concetto di bene, perché questi sono gli unici giudizi capaci di generare desideri e sentimenti, ed è di questo legame tra idee e affetti che presentemente ci stiamo occupando.

§I,3.4.Ma è proprio questo che l’anima non può fare se non ha in sé, se non vede chiaramente l’idea di bene ma si serve di concezioni fumose, imprecise o addirittura completamente sbagliate. Dunque non sempre il desiderio o il sentimento segue a un vero e proprio atto di giudizio consapevole, ma a volte, anzi troppo spesso nel mondo terreno, al posto di questo semplice e chiaro atto di giudizio si trovano pensieri oscuri e fumosi, imprecisi, quando non del tutto sbagliati. E questi non sono giudizi, ma pensieri vaghi e generici, appunto sensazioni.

§I,3.5.Per comodità del Lettore, o della Lettrice, ricordo qui la classificazione accennata all’inizio (supra, §I,1.1): abbiamo proposto di chiamare “sensazioni” tutti i prodotti della coscienza, ovvero i suoi contenuti, e qui notiamo che possiamo anche chiamarli PENSIERI. Infatti per noi il genere del pensiero coincide con quello della realtà, e la realtà è sensazione. Ricordiamo anche che se una sensazione non è stata prodotta da una coscienza, e cioè è un suo contenuto ma ricevuto passivamente, dev’essere necesariamente il prodotto di un’altra coscienza, perché nulla può esistere fuori dall’essere, e cioè fuori dalla coscienza. La nostra classificazione sarà dunque la seguente:

§I,3.6.Nel genere più esteso di tutti, quello della REALTA’, ovverosia del PENSIERO, si trovano tutte le possibili sensazioni, le quali si chiamano anche pensieri; definiamo i pensieri ovverosia le realtà ovverosia le sensazioni come ciò che è contenuto nella (o prodotto della) coscienza. Distinguiamo poi in questo genere due specie, quella dei pensieri cognitivi e quella dei pensieri affettivi; lasciamo da parte il ramo dei pensieri cognitivi, del quale ci occuperemo altrove, e seguiamo la divisione dei pensieri affettivi: questa specie è a sua volta genere rispetto alle due specie più ristrette che la suddividono: desideri e sentimenti; e i desideri si possono dividere in desideri positivi e desideri negativi, così come i sentimenti in sentimenti positivi e sentimenti negativi. Vedremo oltre (§I,4.5) che i desideri positivi e i desideri negativi (cioè i timori) si dividono in razionali e irrazionali e, del pari, i sentimenti positivi (gioia, approvazione) e i sentimenti negativi (disapprovazione, sofferenza) si possono dividere in razionali e irrazionali.  Non fatemi fare il grafico ad albero che rappresenterebbe in un colpo d’occhio tutto questo, perché col computer non sono capace di fare i grafici. Fatelo Voi con la matita, per esercizio.

§I,3.7.Per quel che riguarda il ramo del pensiero cognitivo, ricordo anche che ogni definizione indica un’idea, e che la definizione più l’idea può chiamarsi concetto; ogni concetto individua un insieme di cose che rispondono alla sua definizione, sicché per essere collocato all’interno di quell’insieme di cose, e cioè nel genere o nella specie, un individuo deve rispondere a quella definizione, esserne una realizzazione individuale. Questo, quando cioè si riconosce che un certo individuo risponde a una definizione, si dice anche “sussumere il tal individuo sotto il tal concetto”; ciò significherà che quell’individuo sta dentro nell’insieme di cose generato da quel concetto e può riceverne il nome come predicato: per esempio, se ABC risponde alla definizione “figura piana con tre lati e tre angoli” posso sussumere ABC sotto il concetto di triangolo e dire che sta nel genere dei triangoli, ossia nell’insieme di tutti i possibili triangoli, l’insieme di cose generato dall’idea di triangolo, sicché posso anche dire: ABC è un triangolo. Ciò che è generato dall’idea si chiama anche genere, mentre la specie è un sotto-genere, cioè un genere più ristretto perché individuato da un’idea più specifica; va da sé che genere e specie sono termini relativi, perché cio che è specie per un genere sovraordinato (per esempio “animale mammifero” rispetto ad “animale”) può essere genere per delle specie più ristrette (“mammifero” rispetto a “cane”, “gatto”, “scimmia”, “uomo” etc.). La sussunzione di un individuo sotto al suo concetto si chiama GIUDIZIO e fa parte del genere del pensiero cognitivo, quel ramo della nostra divisione del genere delle sensazioni (o pensieri o realtà) che abbiamo tralasciato di completare nel precedente paragrafo; qui ci interessano solo, per il momento, i giudizi di valore, che sono una specie del genere dei giudizi, perché sono quelli che generano nell’anima desideri e sentimenti. Si ricorderà (cfr. supra, §§ I,3.2-I,3.3) che il giudizio di valore è la sussunzione di una cosa individuale sotto l’idea di bene. Proseguendo nella presente trattazione potremo chiamare, per semplcità, “giudizi” i giudizi di valore e “enunciati” i giudizi semplicemente cognitivi, che non implichino cioè l’idea di bene.

§I,3.8.Chiedo scusa per questa divagazione, per questa lezioncina sulla airesis, e cioè sul metodo della divisione, detto anche metodo dialettico e che viene attribuito dalla storia della filosofia ad Aristotele (risale però al suo maestro Platone), ma il fatto è che oggi non si usa più questo semplice metodo e si tende a produrre una filosofia oscura per “lampeggiamenti”, ossia per colpi di genio e intuizioni, cioè, a mio avviso, per corbellerie, a cui è sotteso il metodo: dico quello che mi pare e che mi fa comodo per sentirmi superiore e negare la mia normalità umana, confidando sull’ingenuità del lettore, al quale posso rifilare oscurità spacciandola per profondità e frastornarlo con cose incomprensibili che gli sembreranno verità sublimi e inarrivabili, convincendolo così che io sono un genio e che lui è scemo, cosa che è il mio scopo fondamentale. Chi, come noi, rispetta il Lettore e la verità, ed è modesto, torna al semplice metodo della divisione, che è efficace per produrre una scienza facilmente condivisibile con chi abbia voglia di impiegare la propria intelligenza e dunque di rammentare ciò che per i difetti spirituali dei sedicenti filosofi a noi contemporanei è andato perso.

§I,3.9.Sicché, riprendendo il filo del nostro ragionamento, non ho potuto usare il termine “giudicare”, “giudizio”, perché quando l’anima non ha in se che concezioni confuse o errate non giudica affatto, cioè non è capace di sussumere sotto il retto concetto di bene, che le difetta, una cosa qualsiasi; ella compie al posto di questo atto cognitivo operazioni confuse, a volte sussumendo la cosa in questione sotto un concetto sbagliato, e cioè dando di una cosa una definizione errata e poi confrontando il concetto sbagliato così ottenuto con un concetto di bene irrazionale. Per esempio, il cattolico definisce il matrimonio un sacramento, quando esso è un atto animalesco, e poi sussume tale realtà sotto il concetto di bene che ricava scambiando per il bene l’utile della specie, perché crede che l’utile della specie sia volontà divina, sicché nel guazzabuglio che egli ha in mente sul bene come volontà divina ci inserisce anche matrimonio e fedeltà coniugale, ignorando che non è Dio che considera la purezza del sangue e della stirpe un valore, ma la specie terrena per i suoi scopi e il maschio narcisista che serve involontariamente la specie indotto dal suo egoismo e dalla sua smania di ingigantirsi col vincere la gara per chi afferma la sua stirpe sul territorio. Per lo stesso motivo, per questa confusione tra il bene e una presunta volontà divina, che invece è solo l’interesse della specie, si giudica la procreazione come un bene e dunque l’omosessualità come un male, definendola come un “disordine oggettivo”, dando per scontato che sia ordine la legge naturale e che l’omosessualità sia contro natura, asserzioni queste entrambe completamente sbagliate.

§I,3.10.Questi atti di sussunzione possono ancora dirsi “giudizi”, ma specificando che sono giudizi sbagliati, perché prodotti da atti cognitivi irrazionali. Se si ragionasse con completezza e per esteso, si darebbe la definizione di bene come “ciò che porta l’anima verso l’essere”,  e si capirebbe che la purezza del sangue non interessa affatto a chi vede rettamente il bene, e cioè a Dio, poiché bene è l’essere e il vero essere è pensiero e retta conoscenza di sé, e ciò che garantisce l’essere all’anima è dunque la verità, non il corpo fisico; mentre chi scambia il corpo fisico per l’essere crede sia bene la sua sopravvivenza e la riproduzione della specie, e da questo errore trae anche il valore falso della purezza del sangue e della stirpe, crederà di essersi dato l’essere per via della discendenza. Sicché costui giudicherà un bene la fedeltà coniugale, legittimerà la gelosia, e proverà sentimenti negativi di sdegno per ogni singolo atto di adulterio, poiché sussumerà queste azioni sotto il concetto di male, anzi di peccato, come assurdamente dicono i cattolici creando un concetto vuoto, quello di “disobbedienza verso Dio”. Non esiste nessun Dio che chiede obbedienza, e dunque non esiste il peccato, esiste il bene e l’anima che può riconoscerlo e amarlo e così diventare dio oppure può ignorarlo e perdersi nelle forme spirituali ammalate: quella che spacciano per volontà divina, nell’esempio qui riportato, è solo la smania del maschio che vuole assicurarsi una discedenza e che quindi asseconda gli interessi della specie. E tutto il loro concetto di bene è storpio nella stessa maniera, perché dopo aver identificato il bene con la volontà divina, attribuiscono a Dio una volontà che o ricalca la legge di natura, che invece ne è la provocatoria negazione (come sa chi ha letto il nostro studio sull’operato dei demoni della Terra, La Natura, con i suoi due complementi), oppure serve a legittimare le pretese illegittime e gli abusi di chi è al potere. Dio accieca chi vuol perdere, dice il proverbio.

§I,3.11.In moti affettivi di questo tipo, dunque, come per esempio i sentimenti positivi verso la fedeltà coniugale e i sentimenti negativi e colpevolizzanti verso le trasgressioni a questo falso valore, c’è ancora una parvenza di giudizio, un atto cognitivo sotteso, anche se molto confuso perché fondato su concezioni assunte acriticamente e in parte inespresse. Dovremo studiare in dettaglio, ma in altro luogo, il modo che ha la mente disonesta per autoingannarsi. Qui proseguiamo con l’argomento principale, e diciamo che a volte, invece, non si pensa affatto quando si è mossi da affetti: a volte si desiderano quelle cose che vengono comunemente considerate beni, copiando semplicemente quello che fanno gli altri e seguendo gli esempi imposti dalla cultura dominante, come fanno oggi troppi giovani che senza riflettere cercano solo ciò che impongono come bene i loro genitori e cioè, in genere, trovare un posto fisso e mettere su famiglia, salvo che poi essi vengono deprivati di questi presunti beni dalla gelosia e dalla smania di profitto degli adulti, che li sottopongono a sfruttamento e a umiliazioni, pretendendo da loro “flessibilità” (in pratica questo termine significa: o ti lasci deprivare di tutti i tuoi diritti o rimani disoccupato), sicché la nostra epoca ha il sapore straziante del giovane spasmodicamente teso verso i risultati sbagliati, che oltre tutto gli vengono crudelmente sottratti. Imparare a cercare il vero bene potrebbe farli uscire da questa penosissima situazione. Ma non divaghiamo: è importante notare come a volte la sensazione che una cosa sia un bene venga all’anima da un atto conoscitivo vago e debolissimo, quale è convincersi che quello che gli altri fanno o che si è sempre fatto sia per ciò stesso un bene.

 

§4.Altre definizioni.

§I,4.1.Inseriamo qui, per completezza espositiva, quelle definizioni che il Lettore, o la Lettrice, già conosce, perché già da noi impiegate sia ne La cura dell’anima sia ne Il fondamento dell’etica e cioè quelle di “forma spirituale” e “forma spirituale eletta”; come il Lettore, o la Lettrice, avrà già capito da sé, la seconda individua una sotto-specie della prima.

§I,4.2.Definiamo la FORMA SPIRITUALE come l’insieme delle tendenze affettive, cioè dell’inclinazione a provare desideri e sentimenti di un certo tipo, esistenti in un’anima. La TENDENZA, che si può chiamare anche “disposizione” o “inclinazione”, è un’abitudine mentale che si forma nell’anima, come già più volte detto, a causa della presenza in essa delle idee, in particolare dell’idea di essere e di bene. Dopo che avremo esaminato, nel prossimo libro del presente scritto, le idee fondamentali, daremo in un libro apposito le varie specificazioni dei desideri e dei sentimenti, e delle tendenze corrispondenti. Insomma, l’anima è abituata a provare desideri o sentimenti positivi per ciò che crede bene, viceversa a temere e a detestare ciò che le sembrano mali; e quest’abitudine non cambia finché non sono cambiate le sue concezioni sul bene, che dipendono da che cosa ella pensa sia l’essere, perché noi chiamiamo bene ciò che ci fa essere, ossia finché non ha modificato i suoi contenuti cognitivi. Il desiderio singolo, o il singolo sentimento, è dunque un atto puntuale che si verifica di volta in volta nelle varie occasioni, mentre la disposizione o tendenza è latente sempre nell’anima. Si può anche dire che la tendenza è un desiderio o sentimento in potenza, che quando si presenta l’occasione diventa desiderio o sentimento in atto.

§I,4.3.Questo semplice concetto ha ricevuto nelle varie filosofie nomi diversi: per esempio, Giordano Bruno parla di “vincoli”, perché quando un’anima sente una cosa come bene è legata dal desiderio di averla a un certo comportamento. In certe tradizioni si parla di “attaccamenti”, con lo stesso significato, e a volte senza far distinzione tra legami legittimi e legami irrazionali, connotando tutti gli affetti come debolezze; mentre noi, come il Lettore o la Lettrice ricorderanno (o se no si riveda La cura dell’anima, §4.2), avevamo proposto di chiamare “attaccamenti” i legami particolarmente tenaci che l’anima produce in sé desiderando quei falsi beni che senta come mezzi opportuni per ingigantire il proprio ego. Essi vanno distinti, ovviamente, dai legami sacri e santi con il vero bene, e cioè le tendenze affettive razionali.

§I,4.4.Infatti, come si ricorderà, avevamo distinto i desideri e i sentimenti in razionali e irrazionali (cfr. Il fondamento dell’etica, §2.1) e di conseguenza è razionale, o sana, o santa, o eletta, o anche divina, che dir si voglia, la tendenza a provare affetti razionali; viceversa è maligna, o anche, volendo usare un termine un po’ logoro dal pessimo uso che ne hanno fatto i cattolici, “demoniaca” la tendenza a provare sentimenti o desideri irrazionali. Ripetiamo le definizioni per comodità del Lettore, o della Lettrice, e per completezza sistematica, qui di seguito.

§I,4.5.Definiamo DESIDERIO RAZIONALE quel desiderio prodotto nell’anima dalla retta idea di bene (o di male), e cioè da un giudizio razionale, e SENTIMENTO RAZIONALE quel sentimento prodotto nell’anima dalla retta idea di bene (o di male), e cioè da un giudizio razionale. Se io giudico razionalmente una cosa come bene, sentirò dunque come bene e desidererò quello che è un vero bene oppure proverò gioia per un bene vero, sicché posso dire che questi affetti, fondati su un giudizio razionale, sono affetti razionali. Definiamo TENDENZA RAZIONALE l’abitudine a provare un desiderio o un sentimento razionale. Definiamo DESIDERIO IRRAZIONALE il desiderio prodotto nell’anima da concezioni errate sul bene, prodotto cioè da giudizi confusi o carenti, che le fanno sentire come bene quello che non è realmente tale, e SENTIMENTO IRRAZIONALE il sentimento prodotto nell’anima, parimenti, da concezioni errate sul bene, cioè da giudizi confusi e carenti, che le fanno sentire come bene quello che non è realmente tale. Definiamo TENDENZA IRRAZIONALE l’abitudine di un’anima a provare un sentimento o un desiderio irrazionale. Ricordiamo che convenimmo di chiamare “giudizio”  la sussunzione di una cosa sotto il concetto di bene.

§I,4.6.Platone chiamava anche “passioni” (in greco pathe) i desideri e i sentimenti irrazionali, ma forse nei suoi Dialoghi, che erano un’opera destinata al grande pubblico, la materia non è esaurita a sufficienza, dovremo completare le sue dottrine in sede di studi storici; per ora sia chiaro che non tutti gli affetti sono passioni nel senso platonico del termine, ma solo quelli irrazionali. Inoltre, nella nostra cultura comune si chiama “passione” quella amorosa, cioè quella situazione in cui l’istinto animalesco di riproduzione della specie viene deviato e diventa un tenacissimo attaccamento, rivolto a usare l’interesse sessuale del partner allo scopo di ingigantire il proprio valore. Oppure questo termine trova luogo in ambito religioso, per designare la tendenza di Cristo a sacrificarsi e a subire sofferenze terribili per il bene degli uomini. Poiché dunque questo termine è troppo equivoco, cercheremo di evitare di usarlo e non seguiremo Platone nell’impiego del nome, ma solo nel suo significato.

§I,4.7.Bisogna poi discutere sul termine usato dagli psicoanalisti: “pulsione”. Questa pseudo-scienza ha introdotto con tale termine un concetto meccanicistico di desiderio, e cioè un concetto completamente irrazionale, perché chi dice “pulsione” intende non un desiderio consapevole e sotto il controllo della coscienza, ma qualcosa che si deve intendere esterno alla coscienza, qualcosa come una spinta verso determinati atti, ma che si trovi all’esterno della coscienza (in un misterioso luogo chiamato “inconscio”, che sei ancora tu, è la tua coscienza ma inconscia, assurdamente) e sottoposto a leggi naturali di tipo meccanicistico. Il pensiero materialista pseudo-scientifico e completamente irrazionale tratta contraddittoriamente i contenuti della coscienza come se fossero oggeti extra-mentali e, su modello dei corpi fisici, li immagina soggetti a determinismi, a una causalità meccanicistica simile a quella che sembra governare i corpi fisici. Ma chi mi abbia seguito fin qui sa bene come sia contraddittorio e dunque inconsistente il concetto di una sensazione che stia all’esterno di un soggetto che sente, di un desiderio che non sia nella coscienza ma altrove, perché desiderio e coscienza (o sensazione) di desiderio sono la stessa cosa. Non puoi provare un desiderio senza provarlo, e se non lo provi non l’hai. Se si torna alla nostra classificazione contenuta nel precedente §I,3.6, ci si accorgerà che i desideri fanno parte del genere degli affetti, e il genere degli affetti è una specie del genere del pensiero, ossia di ciò che è prodotto dalla coscienza, sicché abbiamo anche chiamato questo genere come quello dei contenuti o prodotti della coscienza e cioè delle sensazioni. Sicché ogni desiderio è anche una sensazione, perché fa parte di una specie (quella dei pensieri affettivi) che fa parte a sua volta del genere delle sensazioni (o pensieri, o contenuti della coscienza, che dir si voglia); e dunque dire desiderio o sensazione (cioè coscienza) di desiderio è la stessa cosa, con la seconda espressione ho nominato anche il genere vicino alla specie, come farei dicendo “cane” e “mammifero cane”, ma le espressioni sono equivalenti. Questo concetto di “pulsione” come un desiderio che stia fuori dalla tua coscienza, ma che comunque ti spinge a comportarti in un certo modo come se lo provassi, e agisce meccanicisticamente, come se tu fossi un marchingegno a molla (infatti gli psicoanalisti parlano di “meccanismi” invece che di tendenze desiderative) e che insomma ti trasforma in una cosa senza coscienza e senza volontà assoggettata a un determinismo biologico, a una causalità meccanicistica, è palesemente un’idiozia, altro che scienza.

§I,4.8.La causalità che governa l’anima è quella finalistica, non quella meccanicistica: quando l’anima decide un’azione lo fa per un fine. Ma questo lo vedremo per esteso nel libro dedicato alla volontà. Ora seguiamo l’ordine espositivo che ci eravamo proposti e riportiamo la definizione di “forma eletta”, concetto già da noi impiegato più volte nel corso dei nostri studi precedenti, e col quale dunque il Lettore, o la Lettrice, deve ormai avere familiarità. Definiamo FORMA SPIRITUALE ELETTA quella dell’anima che avendo in sé la retta idea di essere, ha di conseguenza in sé anche la retta idea di bene e dunque giudicando beni quelli che lo sono realmente, prova solo desideri razionali e sentimenti razionali e ha dunque in sé solo tendenze razionali. L’anima che abbia forma spirituale eletta si dice anche anima razionale, anima sana, o anche semplicemente “buona” (ma è un’espressione in disuso perché “anima buona” è diventato quasi un insulto nel linguaggio comune, e “buon’anima” vuol dire un’altra cosa); e, secondo la nostra tradizione, si chiama anche anima divina ovverosia dio. L’anima sana è un dio. L’uomo (di qualunque sesso sia, ovviamente) che abbia un’anima sana è un eletto.

§I,4.9.Ma vediamo più in dettaglio che genere di sentimenti e desideri ha un’anima di questo tipo:

 

a.ella sa che essere è pensiero, e poiché sa anche che il bene è l’essere, per la nostra legge fondamentale, ama il pensiero, che essendo l’essere è il bene. L’anima eletta ama il pensiero.

 

b.sa che il pensiero, per essere tale, deve essere coscienza, e sa che la coscienza è pensiero che ha idea di sé, che si pensa come essere. Ma poiché per essere bisogna essere un essere, ella sa anche che la coscienza è un essere individuale, sicché ella sente come bene l’individualità. La coscienza eletta dà valore infinito all’individuo, ama perciò sé stessa in quanto individuo (si ricordi che, per quanto detto sopra, dare valore a una cosa=giudicarla un bene=amarla). L’anima eletta ama sé stessa.

 

c.sa che, se l’essere è pensiero potenzialmente infinito, una sola coscienza, che è un individuo e dunque un essere finito, non è espressione completa dell’essere, non può esaurire la conoscenza che l’essere, per essere in atto, deve avere di sé; dunque sa che la coscienza dell’essere è un’infinità di coscienze individuali (o anime, che dir si voglia) e non un essere solo; e poiché sa che l’essere è il bene e che l’essere è coscienza, e che la coscienza dell’essere è infinitamente molteplice, sentirà come bene la molteplicità infinita. L’anima eletta ama l’esistenza di tutte le altre coscienze oltre a sé o, in altre parole, dà valore non solo a sé stessa, ma a tutti gli individui che rappresentando l’essere sono il bene e perciò ama tutti gli individui. L’anima eletta ama tutti gli altri esseri, oltre a sé stessa.

 

d.sa che la coscienza, per essere tale a pieno titolo, deve essere una retta rappresentazione dell’essere, perché non è realmente essere quello che ignora sé stesso, ma il vero essere è coscienza e conoscenza di sé. Ma dunque l’anima, che sappia questo, amerà la retta rappresentazione dell’essere e cioè la verità, senza la quale l’essere non sarebbe realmente. Infatti, se l’essere è il bene e l’essere è retta conoscenza di sé e cioè verità, la verità è il bene. Sicché l’anima che sa questo sente come bene la verità, ovverosia la ama e sentirà la falsificazione, la menzogna come male, perché distrugge l’essere e dunque la odierà. L’anima eletta ama la verità e odia la menzogna.

 

e.per quanto già detto sopra al punto c., l’anima eletta sa che, perché l’essere sia, occorre che la sua coscienza, che è infinitamente molteplice, sia una retta rappresentazione del pensiero, di sé; questo significa che per essere retta rappresentazione di sé, e cioè per essere pienamente, occorre che l’infinito pensiero si veda rappresentato rettamente in ognuna delle sue infinite coscienze. Sicché, poichè è bene che l’essere sia, è bene che ogni anima abbia in sé la verità, la retta rappresentazione dell’essere. L’anima che sa questo desidera dunque che tutte le coscienze abbiano in sé la verità, che siano tutte rette rappresentazioni dell’essere, perché sente questo come bene. L’anima eletta desidera condividere il bene, la verità, con tutte le altre anime e soffre per la deprivazione della verità di cui è vittima un’altra anima perché sente questo come un male (infatti la rappresentazione oscura e irrazionale, che è mancanza di essere, è un male, perché il male è la perdita dell’essere), e gioisce quando un’anima possiede o ritrova la verità. L’anima eletta ama il progresso verso la verità di tutte le altre anime, ama che tutte le anime abbiano il bene, che è la conoscenza dell’essere e detesta dunque misologismo, oscurantismo, falsa scienza e tutto ciò che può tener lontane tutte le altre anime sue sorelle dalla verità.

 

Insomma, l’anima che abbia ripristinato in sé questa consapevolezza, che l’essere è coscienza e conoscenza di sé, che la coscienza dell’essere è infinitamente molteplice e che l’essere è realmente solo quando è retta conoscenza di sé e cioè solo quando le sue infinite coscienze lo rappresentano rettamente, avrà anche ripristinato l’amore, il retto amore che fa di una coscienza un’anima eletta.

§I,4.10.E non c’è altro modo per ripristinare l’amore. Infatti, poiché per il nostro assioma fondamentale desiderare una cosa o provare sentimenti positivi per essa e sentirla come bene sono la stessa cosa, la nostra legge fondamentale va completata leggendo la parola “quando” in essa contenuta come fosse un “se e soltanto se”: se e soltanto se l’anima sente una cosa come bene, la desidera o l’approva; se e soltanto se l’anima sente una cosa come male, la teme o la detesta, tenendo conto che l’espressione “se e sotanto se x” significa: “ogni volta che x si verifica, mai in assenza di x”. Dunque il solo mezzo per ripristinare la capacità di amare (=desiderare il bene, provare gioia, approvazione per il bene) è ripristinare la capacità di sentire il bene come tale, e cioè la capacità di giudicare, di sussumere ogni cosa sotto il retto concetto di bene. Per amare occorre dunque avere la retta idea di bene, che è assente in noi se ignoriamo che cos’è realmente l’essere, perché è bene ciò che ci fa essere. E’ la retta scienza dell’essere, dunque, quella che noi chiamiamo ontologia, che può guarirci dalla malattia dell’anima, restituirci la forma sana o salute (o forma eletta, che dir si voglia, la quale, come si è appena detto qui sopra ai §§I,4.5 e I,4.8 è la forma spirituale di chi ha tendenze affettive rivolte solo verso il vero bene e cioè tende solo ad AMARE), ossia redimerci. Non ci sono altri mezzi per redimere l’anima, se per redimere intendiamo ridarle la salute, la forma eletta, la bontà o, in una parola, l’amore.

§I,4.11.Infatti, come si ricorderà, avevamo chiamato “malattia” lo stato dell’anima che difettando della retta idea di essere e dunque ignorando che cos’è il bene, produce in sé tendenze irrazionali. Ne abbiamo già parlato diffusamente ne La cura dell’anima e torneremo sull’argomento per approfondirlo in un prossimo scritto che riguarderà l’umanità come malattia dell’anima, perciò non mi dilungo qui. Occorre solo, in questa sede, completare la serie delle nostre definizioni con quella di FORMA SPIRITUALE AMMALATA, che si può anche chiamare “maligna”: è la forma spirituale di chi abbia in sé tendenze affettive irrazionali. E se l’elezione, cioè l’aver in sé solo tendenze razionali, ossia inclinazioni verso il vero bene o, in una parola, soltanto amore, si chiama anche salute dell’anima o bontà, questo stato di malattia si chiama anche “malvagità”. Notiamo bene questo risultato: la bontà coincide con la razionalità e la malvagità coincide con l’irrazionalità. Infatti, per quanto abbiamo appena detto sopra al §I,4.10, se e solo se l’anima ha in sé un concetto irrazionale di essere e da questo ha ricavato concezioni irrazionali sul bene, desidererà e apprezzerà quelli che irrazionalmente crede dei beni e che invece non sono tali, e poiché noi chiamiamo malvagità, appunto, la somma delle tendenze di un’anima che l’attirano verso beni falsi, è ovvio che se e solo se l’anima è irrazionale, ella è malvagia. Ma di questo potremo renderci conto ancora più chiaramente nel prossimo libro, in cui studieremo l’intelletto e le idee e in quelli successivi dedicati agli affetti e alla volontà.


LIBRO II.

 

L’INTELLETTO E LE IDEE.

 

 

 

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI:

 

Concetti astratti e idee, falso intelletto e intelletto vero; il primo è tenebra, è il male, il secondo luce, è il bene (§II,1.1). Alienazione dell’essere e smarrimento dell’anima (§II,1.2). Occorre sgomberare l’anima dai concetti errati confutandoli, ritrovare il primo assioma e procedere per deduzione (§§II,1.2-3).

 

Chi si è procurato il primo assioma è già sapiente (§II,1.3). Breve cenno sullo smarrimento dell’anima umana (§II,1.4).

 

Il legame causale che vige tra intelletto e facoltà affettiva; ancora su giudizi genericamente cognitivi e giudizi di valore: per sussumere una cosa sotto il concetto di bene, occorre anche un giudizio semplicemente cognitivo insieme al giudizio di valore che può fondare i nostri desideri e sentimenti retti (§§II,2.1-2; §II,2.4; §II,2.9, in fondo). Degli esempi di incapacità a svolgere tale funzione (§§II,2.5-8).

 

Un significato della parola “natura” e terminologia connessa: forma, genere e specie, natura, concetto, idea. L’idea è la regola di costruzione dell’individuo (§§II,2.2-3).

 

L’anima che vede le idee si chiama “intelletto” (§II,3.1). Significato del termine “vedere” (§II,3.1; §II,3.4; sue contraffazioni: §II,3.5). Terminologia: intelletto, intelligenza, intellegibile; il logos è l’insieme delle idee rette che rappresentano l’essere, e cioè la verità (§II,3.2; §II,3.6). L’intelligenza è intelletto più ragione (§II,3.3). Le idee (§II,3.6); l’idea è universale ed eterna (§II,3.6).

 

L’idea è invisibile, ma dà luogo alla visibilità: forma immanente e forma trascendente (§II,3.7). La partecipazione (§II,3.8). Terminologia antica e moderna: genere, specie, forma, natura, definizione, concetto, sussunzione, estensione ed intensione, nome, terminologia e problemi annessi (§§2,3.8-10). Abbiamo così designato gli strumenti che servono all’anima per vedere le idee e i loro effetti, e divenire intelletto (§II,3.11).

 

Un altro nome dell’anima che vede le idee: “mente” (§II,3.12), e polemica con chi vuole svalutarla (§II,3.12; §II,3.14). Definizione del termine “ragione” (§§II,3.13-14). L’immaginazione è un tipo di ragione (§II,3.15). Polemica contro Aristotele (§II,3.15).

 

Elenco delle idee fondamentali delle quali l’anima sana si serve per pensare rettamente: idea di essere, di anima, di unità, e commenti relativi (§§II,4.1-5); idea di pluralità e diversità (§II,4.7). Definizione di “possibile”, “contingente” (§II,4.8-9). Idea di realtà e sue specificazioni: verità o pensiero assoluto e realtà contingente (§II,4.10). Carenza nel linguaggio comune e difficoltà che ne derivano (§§II,4.10-12).

 

Invito al Lettore, o alla Lettrice, di essere prudente, prima di dichiararmi matto (§II,4.13). Definizione di “segno” e “linguaggio” (§II,4.14).

 

Ancora qualche nota sul rapporto tra infinito e realtà, e idea di Dio (§II,4.14).

 

Le idee che producono giudizi di valore: premessa per difendere l’assioma della nostra etica che identifica il bene con la verità (§§II,5.1-5). Definizione di “bene” e di “valore” (§§II,5.6-7). Definizione di “giustizia” (§II,5.8). Amiamo la giustizia perché è un bene (§II,5.9). La retta idea di essere ci rende ad un tempo capaci di amare e giusti: non c’è amore senza giustizia, né giustizia senza amore (§II,5.9). Una seconda accezione del termine “giustizia” (§II,5.10). “Azione dannosa” o “colpa” e “azione giovevole” o “merito” (§II,5.10). Inconsistenza  del concetto di “peccato” (§II,5.10). Idea di felicità (§II,5.11).

 

Considerazioni finali; non c’è bisogno di cercare saperi astrusi ed esclusivi, sovrumani, per tornare a essere verità: essa è semplice e la si trova nella parte migliore del pensiero umano (§§II,5.12-14).


§1.Alcune considerazioni preliminari.

§II,1.1.Nel mondo terreno il bene non c’è, perché qui non c’è il vero essere, ma tutto ciò che si vede è una simulazione, una maschera. Il vero essere è pensiero che rappresenta sé stesso, qui si vedono solo corpi falsi che non rappresentano affatto l’essere, il pensiero con i suoi prodotti, ma anzi sono la negazione della vera realtà e di ogni verità. A partire dai dati dell’esperienza terrena l’uomo ricava dei concetti astratti, costruiti cioè a posteriori (si dice anche “indotti”), che sono tutti sbagliati perché tratti da un’esperienza ingannevole, e che si sostituiscono alle idee rette, le rette rappresentazioni dell’essere, quelle tratte per deduzione dal primo assioma (=l’essere è pensiero e coscienza, siamo noi l’essere). Si forma dunque nell’anima umana una sfera di false concezioni che è un falso intelletto, una copia contraffatta della vera facoltà di vedere l’essere mediante le idee, un intelletto spurio che produce nella coscienza solo tenebra, e cioè giudizi oscuri e tendenze irrazionali, mentre le idee rette sono la luce che illumina l’essere a sé stesso.

§II,1.2.Per ritrovare il vero essere l’uomo dovrebbe ritornare pensiero, confutando la propria identificazione col corpo aggregato, e uscire da quello stato che propongo di chiamare “alienazione dell’essere”, e cioè lo stato di quell’anima che ignora di essere lei stessa l’essere e che invece chiama “essere” qualcosa che concepisce come altro da sé. L’anima che crede di aver ricevuto l’essere dalla materia, intesa come qualcosa di extra-mentale, è un’anima che ha alienato l’essere da sé, è un essere alienato, sia che concepisca la materia esistente da sé e governata da leggi meccanicistiche, sia che la intenda come il prodotto di un creatore, di un Essere Sommo che sarebbe essere a maggior titolo di lei. Per uscire da questa condizione patologica di smarrimento si sé, di cui parleremo più diffusamente nel prosieguo dei nostri studi (ma iniziammo il discorso ne La cura dell’anima, scritto già presente in questo sito), l’anima deve in primo luogo confutare tutti i concetti errati che ha in sé stessa, disseppellendo così il primo assioma dai depositi di errori imposti dalla cultura dominante che lo eclissavano, poi a partire da esso applicare il metodo deduttivo e procurarsi le altre idee, come già Socrate con la sua arte maieutica e Platone con la sua dialettica ci avevano proposto di fare venticinque secoli fa.

§II,1.3.Spero che chi mi ha seguito fin qui abbia già trovato il modo di sgomberarsi l’anima dai pregiudizi materialisti sull’essere, e cioè che abbia almeno percorso la strada che indicammo col I libro de Il fondamento della ricerca riflettendovi sopra con onestà concettuale e attenzione. Do dunque per scontato il primo assioma della nostra ontologia: l’essere è pensiero; in caso contrario non so che farci; se uno, dopo tutto quanto detto sopra negli studi contenuti in questo sito non ha ancora accettato questa semplicissima verità, significa che non vuole capirla, non è concettualmente onesto. E a chi non vuole la verità noi non la diamo certo per forza, che faccia la sua strada altrove. Chi, invece, abbia accettato il nostro primo assioma (l’essere è pensiero), ha già in mano la prima idea, quella da cui discendono tutte le altre; è già sapiente, dunque, almeno potenzialmente, e non ha altro da fare che procedere per deduzione ed esplicare tutto il resto per dirsi sapiente anche in atto.

§II,1.4.Per eliminare l’intelletto spurio e procurarsi il vero intelletto, dunque, l’insieme di idee che rappresentano rettamente l’essere, dobbiamo partire dalla confutazione della nostra identità col corpo aggregato; mi sia consentito dilungarmi ancora un poco su questo. Vorrei far notare l’assurdità dell’atteggiamento mentale consueto fra esseri umani, i quali sono convinti che il proprio vero essere sia il corpo fisico, tranne che poi collocano tale corpo fuori dal loro essere, in un mondo extra-mentale, il che è come dire che la coscienza umana si crede, assurdamente, un oggetto del mondo esterno, e non riesce a cogliere la contraddizione di questo con il suo essere, invece, un soggetto. Se ci fermassimo a esaminare con più attenzione e rigore logico il nostro rapporto col corpo fisico, ci accorgeremmo dell’imbroglio, ci accorgeremmo che siamo intrappolati in una falsa realtà, che, come la concepiscono gli esseri umani di consueto, non può nemmeno essere. La serie di concezioni ricavate a posteriori da quest’esperienza ingannevole, ossia l’intelletto spurio, va eliminata dal nostro essere perché eclissa la vera luce delle idee, che può illuminare l’essere a noi, e cioè l’anima a sé stessa.

 

§2.Occorre avere l’intelletto sano, la facoltà di dare giudizi cognitivi, per poter dare giudizi di valore retti e dunque divenire giusti e buoni.

§II,2.1.Prima di passare alle definizioni di questo libro, vorrei aggiungere qualcosa per completare quanto dicemmo nel libro precedente sui giudizi di valore. Ivi, come spero si ricorderà, dicemmo che ogni affetto dell’anima, desiderio o sentimento che sia, e dunque ogni tendenza affettiva latente dentro l’anima, dipende da un giudizio di valore, e che per avere retti sentimenti e desideri e rette tendenze, e cioè la salute dell’anima ovverosia la forma eletta, occorre dunque saper sussumere ogni cosa sotto il concetto di bene. Ivi notammo che per poter compiere questa cruciale operazione occorre avere il retto concetto di bene, e cioè l’idea accompagnata dalla sua esatta definizione. Ma, ebbene, non è sufficiente per questo avere un concetto di bene abbastanza corretto da poter esprimere giudizi di valore retti o razionali, che dir si voglia, occorre anche  saper dire che cos’è, di volta in volta, quella cosa che stiamo sussumendo sotto l’idea di bene, cioè bisogna essere in grado di dare la retta definizione di ogni cosa, di vederne il concetto esatto, ovverosia l’idea.

§II,2.2.Dunque, per esprimere giudizi di valore retti e alimentare nella nostra anima solo tendenze razionali, quelle verso desideri e sentimenti retti, e cioè solo abitudini affettive sane, occorre anche saper formulare giudizi cognitivi. Ricorderà la Lettrice, o il Lettore, che distinguemmo (supra, §I,3.3) il giudizio cognitivo (o conoscitivo, che dir si voglia, o anche, come si vedrà in seguito: intellettivo; lo chiamammo, nel §I,3.7, anche “enunciato”) dal giudizio di valore perché quest’ultimo è un giudizio cognitivo che impiega l’idea di bene, ed è dunque una specie del genere dei giudizi cognitivi, ovverosia un sottoinsieme dell’insieme di quei giudizi nei quali più genericamente si esprime una sussunzione a una qualsivoglia idea. Sussumere un individuo sotto un concetto significa chiedersi “che cos’è?”; significa cioè chiedersi di quale idea quella cosa è la realizzazione individuale, o anche di che natura essa sia. Troviamo qui un significato diverso della parola “natura” da quello che impiegammo negli scritti passati: là intendevamo per “Natura” (si noti la maiuscola) l’insieme dei demoni che si occupano della Terra e delle operazioni svolte in tale spazio; e al massimo potemmo parlare di “natura” come sinonimo di specie biologica, chiarendo che a produrre la forma specifica biologica negli organismi è un demone, o meglio una banda di demoni coordinati. Qui ritroviamo invece lo stesso termine ma col significato che esso aveva nella tradizione neoplatonica latina, come equivalente di “forma” o “specie”. Poiché la specie è l’insieme degli individui che posseggono la stessa forma, intesa quest’ultima come rappresentazione di un’idea (il che è come dire che la specie è l’insieme di quegli individui che rappresentano una stessa idea), chiedersi di che natura è una cosa equivale a indagare sull’idea che quell’individuo rappresenta in sé stesso: il quesito: “di che natura è?” equivale a quest’altro: “a che idea corrisponde?” oppure quest’altro: “sotto a che concetto devo sussumere questo individuo?” o anche: “che definizione ha?” Ricordiamo infatti che l’idea, insieme alla definizione che ce la indica, è il concetto (cfr. supra, §I,3.7).

§II,2.3.Per esempio: se chiedo di che natura è ABC, e immaginate che in questo momento stia indicando una figura geometrica disegnata su una lavagna (non fatemi fare le figure nel computer, che non sono capace, immaginatela), sto chiedendo a quale definizione risponde tale figura, sotto quale concetto posso sussumerla, ovverosia di quale idea essa è una realizzazione individuale, un esemplare, un caso singolo, o anche quale idea l’abbia generata; rispondendo a tale domanda scoprirò dunque a quale genere essa appartenga, poichè il genere è quell’insieme di cose che viene generato dall’idea, come insieme di tutte le cose che soddisfano (o rispondono, che dir si voglia) alla sua definizione. Notando che la figura piana ABC che state guardando nella lavagna della vostra immaginazione ha tre lati e tre angoli, la sussumerete sotto il concetto “figura piana con tre lati e tre angoli”, direte che essa ha forma o natura triangolare, fa parte del genere dei triangoli e che, insomma, è un triangolo. “Triangolo” è il nome che designa tale definizione, tale concetto, tale idea, tale forma o natura. Questa è la terminologia di scuola, che Vi prego di imparare perché spesso nella filosofia contempranea se ne abusa e la si usa in modo oscuro, oppure la si ignora del tutto. Si noterà che l’idea di triangolo, “figura piana con tre lati e tre angoli”, altro non è che la regola di costruzione mediante cui posso ottenere dei triangoli. Questo è un’idea: la ricetta mediante cui far essere le cose individuali, è come la ricetta rispetto a una torta, o come quell’insieme di spiegazioni su come si cofeziona un maglione, l’istruzione che segue la magliaia, rispetto al singolo maglione che ella realizza usando quel modello; è, insomma, ciò che l’anima usa per poter creare le realtà individuali. Non è semplice e chiaro tutto ciò? E perché dopo tanti secoli da Platone, l’anima ancora non sa riconoscersi come creatrice, come magliaia rispetto ai maglioni o cuoca rispetto alle torte? Ci vuole ancora un Dio onnipotente per fare un mondo? Ma il Lettore, o la Lettrice, non ha appena creato un triangolo con la sua immaginazione, quando io gliel’ho chiesto, all’inizio del presente paragrafo? Questo è ciò che noi chiamiamo creare spazio e corpi.

§II,2.4.Ma non divaghiamo: completeremo l’argomento a suo luogo, e ora invece proseguiamo con quanto stavamo dicendo, e cioè che per giudicare rettamente del valore di una cosa non occorre solo il concetto di bene sotto cui sussumere quella cosa per sapere se essa è un bene o no, se ha natura di bene, se risponde all’idea di bene e ne è una realizzazione individuale etc.; occorre anche sapere la retta definizione di quella cosa, sapere che cos’è, di che natura è. Infatti, se io so che sono beni le azioni giuste, devo anche sapere, per giudicare una singola azione, se essa è classificabile nell’insieme delle azioni giuste oppure no, se è sussumibile sotto il concetto di giustizia e cioè se risponde alla definizione di giustizia, e quindi devo conoscerne la natura. Oppure se so che è bene ciò che mi reca vantaggio, devo ben saper sussumere ogni cosa sotto il concetto di vantaggio (far carriera è un vantaggio? arricchire è un vantaggio? quanta gente vede come vantaggi cose che non sono tali e che anzi sono svantaggi!), e sapere dunque se una certa cosa è davvero vantaggiosa per me, e questo è impossibile se non comprendo qual è la vera natura di quella cosa. Devo insomma dare la definizione retta di ogni cosa per poterla poi confrontare col concetto di bene o con i concetti da esso derivati, come, nei due esempi di qui sopra, quello di “giusto” e quello di “vantaggioso”. E che questo sia molto importante, lo capiremo adducendo alcuni esempi.

§II,2.5.Prendiamo per primo l’esempio di certi esoteristi, quelle persone che tendono a sfuggire alla cultura dominante: essi, in genere, mostrano di aver capito che la realtà empirica del mondo terreno non è la vera realtà o, per lo meno, che di realtà ce ne possono essere altre, e che dunque la scienza ufficiale è in errore, e hanno quindi un desidierio continuo di trovare la realtà vera, una tendenza ad ampliare la propria visione dell’essere e, a volte, possono anche avere un’intuizione abbastanza chiara del fatto che il vero essere è spirito. Solo che non hanno chiarito che cosa realmente è lo spirito, e soprattutto non distinguono tra vera ragione, quella che coglie rettamente lo spirito nel pensiero e nei suoi contenuti, e l’impiego scorretto, pieno di carenze e di abusi, della ragione, la pseudo-ragione dei razionalisti. In genere questo tipo di esoterista chiama “razionalità” il razionalismo e “ragione” l’errato modello di ragione del razionalista, la pretesa di spiegare tutto materialisticamente e meccanicisticamente, ed è dunque convinto che la ragione non sia in grado di cogliere l’essere e di conseguenza, senza distinguere tra pensiero realmente logico-razionale e scienza empirica pseudo-razionale, rifiuta insieme colla scienza ufficiale e il suo modello di ragione a posteriori, empirico-sperimentale, anche il metodo assiomatico-deduttivo e il retto impiego del principio di ragion sufficiente. Questa è una iattura, perché la persona di questo tipo, pur tendendo al bene, e cioè pur cercando la verità sull’essere, non ha i mezzi per arrivare a procurarsela, non ha intelligenza. Infatti, ogni volta che si trova di fronte a un enunciato che gli sembra razionale, lo scarta immediatamente perché lo sussume, appunto, sotto il concetto di “razionalità” ed è convinto che la razionalità sia qualche cosa che lo allontana dal vero essere, e che sia dunque un male. Ha, insomma, abbastanza chiaro il concetto di bene, ma non sa definire il concetto di “ciò che è razionale”, non sa capire che è razionale la retta rappresentazione dell’essere, e che dunque la ragione è ciò che ci avvicina alla verità e cioè un bene. Le persone di questo genere sono attirate da tutto ciò che pare in antitesi con il razionalismo dominante, ma che è in antitesi anche con la ragione retta, sicché costoro esaltano “l’irrazionale” e si entusiasmano per tutte le bislaccherie in voga, mentre si sentono respinti da qualunque studio serio.

§II,2.6.Un altro esempio pertinente è quello di certi razionalisti: essi sanno che la conoscenza è un bene, e che dunque è un bene la ragione mediante cui ci si procura la conoscenza; ma danno una definizione sbagliata di ragione e credono razionali quegli enunciati che invece razionali non sono affatto; quindi sussumono rettamente sotto il concetto di bene le proposizioni razionali, ma poi fanno entrare nel genere degli enunciati razionali quelle che sono, invece, delle vistose trasgressioni al principio di ragion sufficiente o al principio di non contraddizione (come sa chi abbia riflettuto a sufficienza almeno sul I libro deIl fondamento della ricerca), e magari ritengono più razionali le farneticanti teorie della psicoanalisi, nonostante la palese mancanza di un metodo valido in questa pseudo-scienza, perché esse servono a negare il sopra-sensibile spiegandone i fenomeni con principi materialisti e meccanicisti, piuttosto che la psicologia socratico-platonica la quale è, invece, una scienza ottenuta da assiomi per deduzione. E’ questo un altro caso di chi tende alla verità, cioè al bene e dunque ha una certa bontà (ricordiamo che la bontà è la tendenza a desiderare bene, che è la verità, perché la verità fa essere l’essere, e essere è bene), ma incapace di soddisfarsi. Ovviamente parlo di coloro che non hanno fatto della scienza un punto di alienazione del valore, cioè un mezzo per ingigantirsi; lo stesso dicasi per l’esempio precedente, per cui inclina al bene anche se è fuori strada l’esoterista che non abbia fatto delle sue presunte conoscenze superiori alla scienza ufficiale e della sua irrazionalità, spacciandola per facoltà sovrumana, un punto di alienazione del valore.

§II,2.7.Anche tra i credenti ci deve essere qualcuno che sa vagamente che il bene è la verità e dunque desiderando la verità tende al bene, ha in sé questa vaga e debolissima bontà che però è incompleta, perché quando vai a chiedere loro che cos’è la verità, non ti sanno rispondere altro che: “la verità è Cristo” e con la parola “Cristo” intendono in parte una persona che ha vissuto sulla Terra, l’uomo con la sua storia terrena, in parte una singolare entità soprannaturale che chiamano “seconda persona della Trinità” o “il Figlio del Padre” (faccio notare che in ebraico questa espressione si dice “Bar-raban”: quest’immagine falsa di Cristo che hanno i Cattolici è cioè quel Barabba della profezia che è stato scelto dal popolo perché sopravvivesse al posto del vero Cristo che invece è stato ucciso, cioè dimenticato), fattosi uomo eccezionalmente per togliere miracolosamente i peccati del mondo e così via, cioè quel guazzabuglio di sciocchezze irrazionali che però i Cattolici spacciano per verità. Essi, ignorando che se Cristo è la verità è perché egli è logos, anima in cui è scritta la verità logico-razionale sull’essere e sul bene e che dunque è in possesso della forma eletta nel senso che diamo noi a questo termine (cfr. supra,§I,4.8), non possono sapere che cosa realmente è la verità di Cristo e che cosa no. E’ vero che Cristo è verità, ma se essi non sanno riconoscere la verità, come fanno a riconoscere il vero Cristo? Si fidano dell’imprimatur dell’istituzione ecclesiastica? Chiedono lumi al Prefetto per l’Ortodossia della Fede e cioè al Sant’Uffizio? E’ un vero disastro, perché quando una persona di questo tipo incontra gli enunciati della nostra scienza li scarta immediatamente scandalizzato, in quanto non sa riconoscerli come logos, è cioè incapace di sussumerli sotto il retto concetto di “verità di Cristo”, ignorando che la verità di Cristo deve essere l’insieme di enunciati prodotti dall’applicazione del metodo assiomatico-deduttivo, a partire dal primo assioma e dalle idee  tratte da esso mediante l’intelletto, che, appunto, è la facoltà di vedere le rette rappresentazioni dell’essere le quali sono il logos, la visione logica dell’essere. Se Cristo è verità, lo è perché la sua anima contiene il logos, le idee dedotte logicamente dal primo assioma, e dunque per avere la verità di Cristo devi trovare il logos procedendo per deduzione: questo è cercare Cristo. Quelli che dicono di cercare la verità che è Cristo, avendo la mente ingombra di una falsa e irrazionale verità, quando incontrano il vero Cristo, la vera verità, quella dimostrata col metodo logico-razionale, non lo riconoscono, lo rifiutano e lo disprezzano, sicché Cristo da costoro viene incatenato, e cioè reso impotente, insultato, occultato sotto a un velo, e deve sentirsi addosso anche i loro sputi, che sono le false dottrine che escono dalle loro bocche, i dogmi del Cristianesimo romano, esattamente come è scritto nella profezia contenuta nei Vangeli (cfr. Mc.14,65=Mt.26,67=Lc.22,64). Chi abbia letto attentamente il mio studio La Natura e soprattutto i suoi due complementi sa che cosa intendo dire.

§II,2.8.Insomma gli sprovveduti di questi tre generi, pur sapendo in qualche modo che bene è la verità, poi quando si trovano davanti a qualche verità non sanno sussumerla sotto il concetto di verità, perché non lo conoscono, non hanno l’idea retta di verità e non ne hanno dato una definizione precisa, sicché procedono nella vita scartando la verità e scegliendo l’errore. Fanno come un cercatore d’oro che sappia quanto valore abbia l’oro, ma non ha la competenza di distinguere l’oro dal metallo vile, e così quando si trova in mano una pepita d’oro la getta via, mentre s’infila nello zaino una gran quantità di pietracce inutili e magari tossiche. Non è un bello spettacolo da vedersi, sembra il carnevale dei matti, l’eletto ne soffre molto, è uno strazio. Spero con ciò di aver convinto il Lettore, o la Lettrice, di come sia importante esercitare correttamente, applicando il retto metodo, la facoltà di giudizio e cioè di come sia importante essere in grado di compiere correttamente l’atto conoscitivo; e, poiché è impossibile compiere alcun atto conoscitivo senza avere la visione retta delle idee, spero ci si sia convinti di come sia importante vedere rettamente le idee, e cioè avere un intelletto sano.

 

§3.Definizioni e qualche discussione.

§II,3.1.Chiamiamo intelletto la facoltà di vedere le idee; o meglio: l’anima si chiama intelletto quando si rivolge verso le idee e le vede rettamente. L’idea è una retta rappresentazione dell’essere o dei suoi contenuti, ottenuta per deduzione; vedere le idee significa applicare il metodo assiomatico-deduttivo, che ci consente di partire dall’assioma fondamentale, l’idea di essere, e ricavare da essa le altre idee. Dunque noi chiamiamo “vedere” e “visione” anche l’atto intellettivo, quello che compie l’anima interiormente e invisibilmente quando guardando in sé stessa, nella propria coscienza, trova ivi l’essere e le altre idee, senza aver bisogno di altro che di sé.

§II,3.2.A voler essere più rigorosi, però, bisognerebbe chiamare “intelletto” ciò che è visto dall’anima col suo sguardo interno, perché la parola latina intellectum significa appunto “colto interiormente” e dunque ciò che è intelletto (nel senso di visto, colto interiormente) in atto nell’anima dovrebbe essere l’idea, la quale si dovrebbe anche chiamare “intellegibile”, quando non è pensato in atto ma solo in potenza. Nel platonismo latino si usa molto quest’ultima parola per significare l’idea. Invece la facoltà attiva dell’anima di vedere le idee, che ella si procura applicando il giusto metodo, si dovrebbe chiamare “intelligenza”, sicché l’intelligenza dovrebbe corrispondere al nous e l’intelletto al logos della lingua greca, dove il primo è la facoltà, appunto, di dedurre idee (mentre la facoltà di sussumere l’individuo sotto al retto concetto o di trovare il genere di una specie e viceversa si chiama anche dianoia, da non confondersi con le abominevoli storpiature che ne fa quella setta americana che vuol chiamarsi Dianetics e non sa nemmeno dove sta di casa la vera dianoia: quante contraffazioni ci sono a questo mondo, quanta idiozia, quanta presunzione!), mentre il secondo è l’insieme delle idee che dal nous vengono dedotte. Il logos è, insomma, il contenuto del pensiero logico e si chiama anche verità. Però qui propongo di seguire un uso terminologico più vicino al linguaggio comune, chiamando “intelletto” la facoltà logica e non l’idea, perché allontanandomi troppo dagli usi consueti diventerei difficilmente comprensibile o addirittura astruso, cosa che vorrei proprio evitare, lasciando intatto però il significato del termine “intellegibile” e soprattutto, cosa importantissima, quello del termine logos o “verità”.

§II,3.3.Sicché chiamiamo intelligenza la capacità che ha l’anima di procurarsi i mezzi per arrivare alla verità e per conoscere la realtà (che è come dire di soddisfare il suo desiderio di bene, la sua bontà) e di procurarsi un linguaggio che ne esprima i contenuti, mentre chiamiamo “intelletto” solo la facoltà di vedere le idee; risulta subito evidente che l’intelletto è una delle facoltà che fa parte dell’intelligenza, la quale comprende anche la ragione e la facoltà discorsiva, delle quali daremo oltre la precisa definizione. Qui interrompiamo la serie delle definizione per intavolare una spero non inutile discussione.

§II,3.4.Bisogna infatti prestare attenzione a questo termine “vedere”, poiché per noi è un termine tecnico del linguaggio platonico: quando l’anima, dopo essersi liberata dalle catene degli errori concettuali ingenerati in lei dall’esperienza dei sensi terreni a partire dal concetto errato di essere, rivolge il suo sguardo interiore, che è l’intelletto, non più al fondo oscuro della caverna, e cioè al mondo terreno, ma verso la luce del sole, che è l’insieme delle idee mediante cui l’essere illumina sé a sé stesso, finalmente vede l’essere, vede che l’essere è il pensiero che rappresenta sé stesso e scopre dunque di essere lei stessa l’essere e di non doverlo cercare in un mondo esterno impiegando i sensi. Questo periagein (cambiare direzione dello sguardo) è l’unica vera conversione, quella che trasformerà (è la metanoia o trasformazione dell’anima di cui parlavano i primi cristiani, salvo poi dimenticarsene subito) l’anima in qualcosa di divino, conducendola dal male al bene, dall’errore alla verità, dalla malattia alla salute, e di cui la conversione dei Cattolici è una ridicola parodia satanica. Bisogna però prestare attenzione al fatto che questo “vedere” o “rivolgere lo sguardo” di cui stiamo parlando consiste nell’applicazione del retto metodo, è la formulazione di un enunciato razionale ovverosia di un pensiero logico, e non è una sensazione che l’anima riceva passivamente dall’esterno. Un atto intellettivo può esprimersi anche nel linguaggio simbolico, e cioè servirsi di immagini, di corpi, per rappresentare i suoi contenuti (il Lettore, o la Lettrice, si ricorderà il simbolo del mare e del sole che impiegano i mondi per significare i due principi dell’essere, idee dell’intelletto e coscienza capace di rifletterle in sé visibilmente), ma ricordiamoci che la visione delle immagini o l’ispirazione di qualunque altro tipo non sostituisce l’atto intellettivo, che è “visione” delle idee e non delle immagini, è l’atto di comprendere il concetto invisibile che l’anima compie invisibilmente e silenziosamente dentro a sé stessa, nel suo pensiero, quando agisce da sé senza altro apporto, al di fuori di qualunque ricezione sensoriale, o terrena o spirituale che sia. Ricordiamo che le immagini, sia quelle del mondo fisico che quelle dei mondi simbolici, diventano ingannevoli per una persona che non le penetri mediante il corretto uso dell’intelletto. Non confondiamo dunque la visione delle immagini, quella che qui nel mondo terreno chiamiamo “visione mistica” o “estasi”, e che nei mondi veri è la visione consueta delle cose, con la visione delle idee, che è atto cognitivo volontario e consapevole dell’anima, e si compie nell’invisibile, e non è ricezione passiva di immagini visibili.

§II,3.5.Di questa vera visione dell’essere che è atto intellettivo si trovano nel mondo terreno numerose contraffazioni o parodie irrazionali (cioè sataniche, posta l’equivalenza tra satanico, ovverosia malvagio, e irrazionale), a partire dal finto logos dei Cattolici; ma attenzione anche agli esoterismi in voga. Per esempio, si parla di vista spirituale fra gli steineriani e in conventicole simili, dove al posto dell’applicazione del retto metodo logico troviamo “l’apertura del terzo occhio” e al posto della visione delle idee troviamo la “chiaroveggenza”, cioè la capacità di vedere le “aure”, sorta di aloni colorati che circondano il corpo fisico, e “il mondo astrale”, un “piano diverso di vibrazione” ovvero una realtà fatta di “materia più sottile”. Spero che chi mi abbia seguito sin qui sappia ormai tenersi lontano da tali esoterismi scadentissimi, gli adepti dei quali sogliono svalutare intelletto e ragione per i motivi già descritti sopra al §II,2.5. Qualche anno fa, invece, andava di moda la serie di libri di Carlos Castaneda, un etnologo cooptato nel suo mondo magico da uno stregone yaqui del Messico, dove pure si parlava di un vedere (sempre scritto in corsivo nei libri) come facoltà peculiare degli stregoni e che veniva spacciato per sapienza. Queste tradizioni sono interessantissime e massimamente rispettabili, e possono insegnarci molto, ma vanno comprese nel sistema di idee che stiamo andando a sviluppare, perché senza una solida conoscenza ontologica e (me lo si lasci dire) demonologica, cioè del reale funzionamento del mondo terreno, delle operazioni che lo producono svolte dai demoni e dei loro scopi, diverrebbero nella mente dell’uomo di cultura occidentale, improvvida e facilmente ingannabile, solo delle bizzarrie irrazionali: i demoni sanno come frastornarti se tenti di entrare nel loro mondo senza l’adeguata preparazione e privo di purezza di intenti. E questi sono solo due esempi di depistaggio satanico nei confronti di chi ha una debolissima bontà (=desiderio di trovare il bene, la verità), ma non si impegna a procurarsi la vera intelligenza: chissà quanti altri ce ne sono. Difendiamo dunque il nostro concetto razionale di “vedere” dalle sue copie scadenti e contraffatte, buone solo per gli accidiosi, e lasciamo questi indaffarati a cercare la vibrazione giusta per aprire gli chakra e quegli altri persi nei labirinti del mescal: faranno la loro strada altrove; noi accingiamoci invece a diventare intelletto guardando le idee e proseguiamo con le nostre definizioni.

§II,3.6.Chiamiamo, dunque, verità l’insieme delle idee rette che rappresentano l’essere, e ricordiamo che è questo il vero logos. Ogni idea, come già l’abbiamo definita sopra, al §II,3.1,  è o una verità necessaria, una rappresentazione eternamente vera dell’essere, perché la sua negazione reca contraddizione ed è dunque sempre falsa, oppure la rappresentazione di un possibile, di una delle infinite possibilità insite nell’essere; l’idea è dunque immutabile, ed è universale. Abbiamo infatti detto (supra, §II,2.3, in fondo) che l’idea sta all’individuo come la sua regola di costruzione: abbiamo portato il semplice esempio della ricetta rispetto alle singole torte ricavate da essa da chi le cucini, o delle istruzioni per eseguire un maglione ai ferri rispetto a tutti i singoli maglioni così prodotti da una brava magliaia (chissà perché le magliaie devono sempre essere donne, ma questo è un altro discorso): di torte fatte secondo una medesima ricetta ce ne possono essere un gran numero, ma la ricetta è una sola, così come ci possono essere un gran numero di maglioni fatti secondo quelle stesse istruzioni che fungono da modello, ma il modello, appunto, è uno solo; si potrebbe anche addurre l’esempio del rapporto tra il progetto di una casa e la casa effettivamente costruita: se realizzo molti edifici seguendo lo stesso progetto, avrò molti individui che realizzano un’unica idea, un unico modello. Così la giustizia è la regola di costruzione delle azioni giuste, e il bene la regola per riconoscere le cose buone, la divinità è la regola per realizzare la forma divina nella propria anima, e diventare un dio o per riconoscere la divinità negli altri, la bellezza mi insegna come produrre immagini o sensazioni belle, e così via... Nel nostro gergo, quindi, il modello ovverosia l’idea si chiama anche universale, perché nel latino dei logici si usava il termine universalis intendendolo come unum in diversis, e cioè un’unica idea che viene rappresentata in molte cose diverse.Tale termine corrispondeva al greco tò katholou, che ha appunto il significato di “ciò che è universale” e si può impiegare come sinonimo di “genere”: infatti il genere, per esempio, dei triangoli è l’insieme di tutti i triangoli possibili, è l’universo dei triangoli.  Sicché tutte le idee sono universali, nel senso che rappresentano e generano una molteplicità di cose, che però è un tutto, un “universo”.  Inoltre, tutte le idee sono eterne: l’idea di essere (essere è pensiero di sé) è un esempio di idea necessariamente vera che dunque è per ciò stesso eterna; l’idea di triangolo è un esempio di possibilità tratta da premesse: infatti essa discende dal concetto di estensione o spazialità insito nell’essere, e la sua definizione si serve di elementi colti precedentemente dal pensiero: il punto, la linea, la figura, l’angolo, il numero tre. Ebbene, anche l’idea di triangolo è eterna, perché anche le idee derivate da verità necessarie sono eterne: nel nostro esempio, eternamente il pensiero trova in sé stesso la possibilità dell’estensione, della linea, del punto di intersezione tra linee, del numero tre e dunque del triangolo. “Universale ed eterna” è la differenza specifica (per questa espressione cfr. ultra, §II,3.8) che nel genere delle rappresentazioni individua la specie delle idee, distinguendola da quella delle immagini o corpi (che dir si voglia) che è la specie delle rappresentazioni visibili dell’essere, le quali sono sempre individuali (o particolari, che dir si voglia) e contingenti. Sicché la definizione del termine idea potrebbe anche essere: rappresentazione universale ed eterna dell’essere o dei suoi contenuti. Abbiamo appena guardato e visto l’idea di idea. Questa definizione non è diversa da quella data sopra al §II,3.1, perché ciò che è ottenuto per deduzione è sempre una verità eterna ed universale, mentre è impossibile dedurre il contingente particolare, dal momento che la sua negazione non reca alcuna contraddizione: esso può esserci come può non esserci, non è necessariamente, ma ha bisogno di una causa per esistere e c’è, dunque, solo se una causa lo mette in atto e per sapere se in questo momento un tal contingente è in atto non posso far altro che percepirlo, mentre per “vedere” l’universale, cioè per dedurlo, impiego il principio di non contraddizione.

§II,3.7.Riguardo alle idee notiamo altresì che esse sono invisibili, cioè non cadono sotto i sensi; sicché è un vezzo di noi platonici dire che noi vediamo l’invisibile, intendendo il verbo “vedere” nell’altro senso, quello cioè di compiere un atto intellettivo. Lasciateci qualche civetteria. Le idee, però, stanno alle cose visibili in un rapporto molto stretto: sono la causa della loro esistenza. Infatti ogni corpo è l’immagine visibile di un’idea, prodotta da un’immaginazione, e cioè da un’anima che si serve di un linguaggio particolare, quello ricavato dall’estensione, per esprimere quell’idea. L’immagine visibile di un’idea si chiama anche forma immanente, mentre l’idea può chiamarsi, per contrapposizione, anche forma trascendente. Quando un’immaginazione produce un’immagine, essa appare come lo spazio che contiene tale immagine, cioè è spazio che contiene un corpo; posso anche dire, per brevità, che lo spazio riflette una forma, ma ricordiamoci che non si tratta di un fenomeno ottico meccanico bensì di un atto di pensiero (pensare l’idea) e di immaginazione (produrre l’immagine). Questo fanno gli spazi, che sono angeli ovverosia anime divine. Chi abbia letto con attenzione L’Essere, l’Anima, i Mondi col suo complemento Ritrovare Giacinto ormai deve capire facilmente che cosa significano espressioni di questo genere: “la forma macroscopica del mio corpo aggregato fu riflessa da un altro spazio, diverso da quello terreno” se ricorda che abbiamo chiamato “forma macroscopica” la forma trascendente descritta dalle sequenze di atomi presenti nei composti chimici del corpo aggregato, che è un’idea anch’essa, anche se la mia forma macroscopica, il mio aspetto, è un’idea che non mi riguarda perché esprime un’altra realtà e non me; è chiaro che il riflesso di tale forma nello spazio è una forma immanente e cioè un’immagine e cioè un corpo: uno degli infiniti corpi che una forma può generare negli infiniti specchi del pensiero, nelle immaginazioni degli angeli che sono i veri mondi del vero universo e della vera realtà. Ma della generazione dei corpi da parte dell’immaginazione per mezzo dell’idea parleremo oltre più diffusamente; e della materia e dei corpi fisici abbiamo già parlato spesso nelle opere precedenti, e ritorneremo sull’argomento più sistematicamente in una prossima opera che dovrebbe intitolarsi, press’a poco: La realtà fisica vista con l’occhio spirituale, sicché non mi dilungo qui.

§II,3.8.Qui registriamo solo il significato del termine partecipare, partecipazione: quando una cosa è generata da un’idea, si dice che partecipa di quell’idea. L’idea è una, dicemmo, ma le cose che vi partecipano possono essere infinite di numero: c’è una sola umanità, ma, per partecipazione all’idea di uomo, esistono molti uomini; c’è una sola divinità, un’unica idea di Dio, ma per partecipazione nulla impedisce che esistano molti dèi, con buona pace dei cattolici. Ripetiamo e memorizziamo, per intento sistematico, i termini che già anticipammo nel §II,2.3 e cioé: genere e specie, che si possono definire entrambi come l’insieme di tutti gli individui che partecipano a una certa idea, ma il genere è più esteso e la specie più ristretta, cioè la specie è un sottoinsieme del genere; va da sé che i due termini sono relativi e quello che è genere può divenire specie rispetto a un genere più esteso, mentre la specie può divenire genere rispetto alle sue sotto-specie. L’idea si chiama, come già detto sopra, al §II,2.2, anche forma o natura. Se partecipo all’idea di uomo, ho forma o natura umana, per esempio. La definizione di un’idea è il discorso che ce la indica, e deve consistere nell’enunciazione di genere prossimo e differenza specifica (esempio: “figura piana” è il genere prossimo, “con tre lati e tre angoli” la differenza specifica), tranne che per i generi sommi, dove non compare la differenza specifica  (esempio: essere è pensiero di sé); l’idea si chiama anche concetto, in quanto è qualcosa concepito all’interno del pensiero. In termini più moderni la partecipazione si chiama sussunzione: “partecipare a una certa idea” si dice “essere sussunto sotto al tale concetto” ovvero “soddisfarne la definizione”. Esempio: “sussumo ABC sotto il concetto di triangolo” ovverosia “ABC soddisfa la definizione di triangolo”. L’insieme di cose che soddisfa una definizione o che vengono sussunte sotto al concetto corrispondente viene chiamato dai logici moderni estensione  di quel tale concetto (per esempio, l’insieme di tutti i triangoli è l’estensione del concetto di triangolo), mentre la definizione del concetto si chiama, in questo gergo dei logici moderni, intensione; però bisogna tener presente che i logici moderni ricavano i concetti diversamente da noi, sicché la loro estensione non corrisponde alla nostra specie, né l’intensione al nostro concetto. Questo gergo moderno non mi piace molto, perché è farraginoso e complicato e genera solo buio nella mente di chi lo usa, per via del fatto che la logica moderna non ha il retto concetto di verità e trae i suoi concetti a posteriori cercando di renderli conformi agli stati di cose che si trovano in un presunto mondo esterno, non come noi a priori dal primo assioma che è l’idea di essere, sicché tendo a non impiegarlo e ad adeguarmi invece agli usi antichi, che sono più funzionali ed eleganti, ma il Lettore, o la Lettrice, lo troverà impiegato in altri testi, sicché non è inutile averlo menzionato qui.

§II,3.9.Il nome è quella parola che designa l’idea, oppure l’individuo che partecipa di quell’idea: per esempio chiamo “uomo” sia l’idea di uomo che un singolo individuo umano, chiamo “triangolo” sia l’idea di triangolo che la singola figura triangolare, chiamo “essere” sia l’idea di essere che ogni singolo essere e chiamo “dio” sia la divinità, l’idea di dio, che ogni singolo essere divino, se sono corretto e intelligente, altrimenti personificherò l’idea di Dio scambiandola per un individuo e diventerò un superstizioso e irrazionale monotesita. A volte l’individuo e l’universale hanno due nomi diversi, e cioè si può ricavare il nome dell’idea applicando un suffisso al nome individuale, come quando chiamo “triangolarità” l’idea di triangolo, “umanità” l’idea di uomo, o “divinità” l’idea di dio; oppure ricavando il nome dell’idea dall’aggettivo corrispondente, come “bellezza” da bello... Ma non sempre questo funziona: non posso dire anche “quadratità”, da quadrato, come dico “triangolarità”, né posso dire “elettità” come dico “divinità”, “umanità”, “animalità”, “bestialità”; posso dire, forse, “equinità” e “felinità”, ma non “cavallinità” e “gattità”. Posso dire “realtà”, “corporeità”, ma non “materialità”, “immaginità”, e dal termine “essere” si sono ricavati dei termini come “essenza”, “entità” che sono divenuti alquanto equivoci per motivi storici che vedremo altrove, e anche il termine “esistenza” non è molto chiaro nel linguaggio comune. Per non parlare di quel vizio, che si è introdotto nel nostro linguaggio comune, di usare dei termini universali come se invece fossero nomi di individui: il caso più grave e più vistoso è quello della parola “divinità”, che dovrebbe designare l’idea di dio, e invece viene impiegata per dire “la divinità”, intendendo una persona, un essere individuale divino. E’ come se io dicessi “un’umanità” per dire: “un uomo”; queste sono nebbie introdotte nella nostra anima dalla dominante cultura cattolica.

§II,3.10.Insomma, il linguaggio comune non ci aiuta, la lingua ci mette degli ostacoli; chi mi ha seguito sin qui per le precedenti opere sa già che la ridefinizione di molti termini è urgentissima, perché i concetti corrispondenti a molte parole sono confusi e oscuri nella mente degli uomini improntati dalla cultura comune. Occorre dunque una terminologia (=insieme di segni impiegati in un certo linguaggio) più precisa e chiara; infatti per evocare un’idea abbiamo bisogno del nome (o termine, che dir si voglia) corrispondente e, se le idee che vogliamo guardare devono essere le rette idee che rappresentano l’essere, devono essere idee chiare, cioè ben definite e designate in maniera non equivoca. E’ un’esigenza fondamentale della nostra filosofia che dovremo soddisfare pienamente nel corso dei nostri futuri studi, anche se già abbiamo in parte iniziato a svolgere questo compito nel corso dei precedenti lavori ridefinendo e chiarificando alcuni termini del linguaggio comune, come per esempio “essere”, “realtà”, “materia”, “corpo”, “sogno” e così via, e altri eliminandoli del tutto perché facenti riferimento a concetti del tutto inconsistenti, cioè contraddittori, come “oggettività”, “inconscio”, “allucinazione”, “suggestione”. Comunque, possiamo segnalare qui l’uso platonico di usare il medesimo termine per l’idea e per l’individuo, solo scrivendo il nome dell’idea con la lettera maiuscola e quello dell’individuo con la minuscola: per esempio, il Triangolo è l’idea di triangolo, il o un triangolo è il singolo individuo triangolare; Dio è l’idea di dio, la forma divina, il o un dio è un’anima in possesso della forma divina e così via.

§II.3.11.Tutti questi termini che abbiamo testé definito designano gli strumenti indispensabili perché la nostra anima diventi intelletto e ragione e sia anima razionale: il nome è il segno che ci indica l’idea, l’idea è una retta rappresentazione dell’essere ottenuta per deduzione e insieme alla sua definizione è il concetto, il concetto è la visione vera e propria dell’idea, mentre la definizione è quell’insieme di segni verbali che ce la indica e ce la rammemora. Tutti questi sono gli strumenti che impiega l’anima per vedere, rammemorare o indicare l’idea; ricordiamo che vedere un’idea significa dedurla, è questo il vedere inteso come atto intellettivo, non come ricezione passiva di una sensazione, sicché vedere Dio, per esempio, significa concepire rettamente l’idea di dio compiendo un atto intellettivo, e cioè una deduzione, e non avere visioni mistiche o rivelazioni da chissà chi.

§II,3.12.Abbiamo detto che l’anima, quando pensa rettamente alle idee, si chiama intelletto; ma può chiamarsi anche mente, se vogliamo, perché noi non aderiamo a quell’uso in voga da un po’ presso a chi si ispira alle culture orientali e, con insipido gioco di parole tra “mente” e “mentire”, sostiene che si chiama “mente” la facoltà di autoingannarsi, intendendo che questo succede sempre alla coscienza quando ragiona; costoro accollano la taccia di falsificazione e menzogna a ogni pensiero razionale, anzi addirittura a ogni moto della coscienza individuale, a ogni sua facoltà, indicando come via verso la verità lo spegnimento del pensiero individuale o, come dicono loro, “il superamento dell’ego”. Costoro sbagliano di grosso, perché non è la mente in quanto tale che si autoinganna, ma se le menti umane vengono sovente ingannate è a causa delle massicce interferenze che ricevono, per via dell’identificazione col corpo aggregato, da parte del sistema nervoso che le tempesta di contenuti spuri e fuorvianti, come vedemmo nello scritto La Natura e come dovremo vedere più in dettaglio nel prossimo studio destinato all’umanità come malattia dell’anima. No, non è la nostra mente che crea la falsa realtà in cui ci troviamo imprigionati, ma è il sistema nervoso: costoro non sanno distinguere tra quest’ultimo e l’anima individuale e incolpano la nostra mente di ciò che invece combina il nostro perfido doppio, la mente duale. Cancelliamo dunque dalla nostra mente il discredito che da tante parti le proviene e appreziamola come ciò che, invece, ci può far diventare divini: infatti noi chiamiamo “mente” l’anima quando svolge attività cognitiva e sappiamo che essa dice la verità quando svolge tale attività correttamente, applicando il giusto metodo logico-razionale, ed allora è divina, mentre si inganna e dice il falso, o mente, quando cade in errore per carenza di logica e per disattenzione nell’applicare il principio di ragion sufficiente, fuorviata dalla falsa realtà terrena, e allora è irrazionale e smarrita; ma comunque in entrambi questi casi la mente, o meglio l’anima intera, ha valore infinito.

§II,3.13.Chiamiamo “mente”, dunque, l’anima che pensa cognitivamente ed appreziamola, usando questa parola come sinonimo di intelletto o intelligenza. C’è ancora un termine importante da definire in questa serie di paragafi: ragione. In senso più stretto la ragione è la capacità che ha l’anima di applicare il principio di ragion sufficiente, il quale, come già si saprà, dice: nulla è senza ragione. Tutto ciò che esiste o esiste da sé o è causato da altro. L’anima, quando applica correttamente questo principio, può chiamarsi “ragione” e può dirsi “razionale”, altrimenti no. E’ dunque razionale e vera ragione quell’anima che sappia che nulla può esserci all’infuori del pensiero, che è ciò che si causa da sé, e di ciò che è prodotto dal pensiero; i prodotti del pensiero, sia quelli invisibili, come gli affetti e i pensieri cognitivi, che quelli visibili, e cioè i corpi (che sono immagini), non si causano da sé ma hanno bisogno di un’altra causa per esistere, e questa causa è, appunto, il pensiero. In questo primo senso la ragione può dunque definirsi come la capacità di collegare rettamente ogni effetto alla sua causa, ma non come fanno i materialisti che con la loro causalità meccanicistica hanno in mente la copia contraffatta e irrazionale della vera causalità, ma come facciamo noi che vediamo sempre la causa nell’invisibile, nel pensiero, mentre sappiamo che ciò che è visibile e sensibile è prodotto del pensiero, è un suo effetto.

§II,3.14.Ma il termine ragione può avere anche un significato più ampio: essa è anche la facoltà discorsiva, cioè la capacità che ha l’anima di esprimere in segni visibili i suoi pensieri invisibili. Razionalità è qui, dunque, la capacità di linguaggio. Si noterà che l’anima, per poter essere intelletto, ha bisogno della ragione, perché per vedere l’idea abbiamo bisogno della sua definizione e per rammemorarla o comunicarla abbiamo bisogno di impiegare il suo nome. Nessuno riuscirebbe a pensare senza servirsi di segni, credo. Anche i mondi, gli dèi cioè, hanno bisogno di esprimersi in immagini sensibili o per lo meno desiderano farlo, se lo fanno. Perciò hanno torto coloro che svalutano il linguaggio e pensano che per trovare la verità ci sia bisogno solo di fare silenzio interiore e far tacere il pensiero. Quelle meditazioni possono servire a riposare lo spirito quando è stanco (anzi, forse a volte è il sistema nervoso che chiede un po’ di riposo e non la nostra anima) o per cogliere l’atto di coscienza in sé stesso, alla sua origine, al di là dei suoi contenuti contingenti e senza identificarlo con sensazioni che provengano dal corpo fisico, ma poi per trovare l’essere, che è pensiero, occorre esprimere il pensiero e i suoi contenuti mediante un sistema di segni, ovverosia un linguaggio. Che c’è di male nell’espressione, nella sensazione, nella visibilità? Se l’essere è coscienza e conoscenza di sé, e cioè rappresentazione, esprimersi in un linguaggio, e cioè rappresentarsi in segni sensibili, significa essere, e essere è bene, dunque il linguaggio è un bene e non un male di cui dobbiamo liberarci. E’ chiaro che questi che disprezzano il pensiero, la ragione, la mente, la manifestazione, il linguaggio etc. gettano via il bambino con l’acqua sporca, perché pensano che per superare gli errori del razionalismo e del materialismo e uscire dagli inganni del mondo fisico sia necessario gettare via in toto la ragione e la visibilità, il concetto stesso di mondo e di corpo, e insieme a questo anche l’individualità, che loro chiamano, intendendo questo termine in senso spregiativo, l’”ego”, come se essere anime individuali fosse un’anomalia. Invece, per trovare il vero essere e dunque il bene, e i veri mondi, è solo necessario controllare che ragione e linguaggio funzionino bene, che la ragione non devii per carenze nell’applicazione del metodo e il linguaggio non sia impiegato in modo abusivo, equivoco ed improprio, ovverosia che non si impieghino termini malamente definiti e non si colleghino male le proposizioni o i termini delle proposizioni tra di loro. Certo che il linguaggio può mentire, se lo uso male, e la ragione ingannarsi se devia dal retto metodo, ma non per questo dobbiamo liberarcene e farne a meno: se non ragionassimo e non pensassimo non saremmo nemmeno, perché l’essere è pensiero e dunque chi disprezza ragione e linguaggio cade in un paradosso, perché pretendendo di non mentire sull’essere sta solo tentando di farlo non essere. Sicché liberiamoci di queste pessime esagerazioni pseudo-mistiche: l’abuso del linguaggio è un male, il retto uso è un bene importantissimo. Senza un linguaggio non avremmo nemmeno un mondo.

§II,3.15.Infatti anche le immagini contenute in uno spazio (e lo spazio stesso, che è anch’esso immagine), e cioè i corpi, sono prodotti dalla ragione quando si serve di un linguaggio particolare, quello che impiega segni ricavati dall’estensione. In questo caso la ragione, poiché si serve di immagini per esprimersi, si chiama anche immaginazione (e, come già sa chi ci ha seguito per i precedenti studi, l’immaginazione, quando immagina sé stessa, appare come spazio). Insomma, l’immaginazione è una delle facoltà che fanno parte della ragione intesa come capacità discorsiva dell’anima, capacità cioè di pensare servendosi di un linguaggio fatto di segni sensibili. Ricordiamo, dunque, che l’immaginazione non è una facoltà irrazionale; può diventarlo, come tutti gli altri tipi di ragione, se è usata male. Abbiamo già parlato negli studi passati e, in particolare, in quello intitolato L’Essere, l’Anima, i Mondi di come l’immaginazione sia la facoltà creatrice di spazio, materia, corpi e mondi, e dunque non mi dilungo qui. In questa sede occorre affrontare solo il seguente argomento: l’immaginazione è quella facoltà mediante la quale i contenuti dell’intelletto, le idee, diventano visibili, cioè diventano corpi. Questa è la facoltà creatrice dell’anima, di noi anime che siamo potenzialmente mondo e città, spazio con i suoi contenuti visibili. L’immaginazione è quella forza che crea l’immagine visibile dell’idea invisibile, la realtà sensibile contingente e individuale dall’universale eterno. Perciò ha torto Aristotele, che ha affossato la teoria delle idee del suo maestro Platone e ha asserito l’esistenza delle forme soltanto se sono nella materia visibile, sostenendo che sono reali solo le forme immanenti e non quelle trascendenti. E’ una vistosissima trasgressione al principio di ragion sufficiente: se la forma immanente è immagine, non può essere da sé, ma ragion sufficiente perché un’immagine ci sia è un’immaginazione che la produca guardando a un modello, cioè all’idea universale. Per spiegare la presenza di una forma immanente sia nella materia corpuscolare del mondo fisico che in quella semplice del mondo spirituale occorre l’azione di un’intelligenza che sappia pensare la forma trascendente e rispecchiarla (cioè tradurla in un’immagine precisa) nella propria immaginazione. Parleremo della forma immanente nella materia corpuscolare nello studio già promesso sopra, quello sulla realtà fisica vista con occhi spirituali, ma il Lettore, o la Lettrice, ricorderà che ne abbiamo già abbondantemente trattato in passato; parleremo delle forme trascendenti riflesse nella materia spirituale qui oltre, nel libro III della presente opera, per esaminare il potere dell’anima di produrre materia e mondi; nel prossimo paragrafo del presente libro II, invece, cominceremo un elenco di idee, che poi completeremo, per quanto possibile, nel paragrafo seguente e anche oltre, se occorrerà, cercando di classificare sistematicamente tutte le idee fondamentali già da noi impiegate negli studi passati che ho voluto mettere a disposizione del Lettore, o della Lettrice, nel mio sito. Spero così di fornire un prontuario di facile consultazione. Parleremo poi ancora delle idee nel prosieguo di questo studio, perché dovremo esaminare il rapporto fra le varie idee e i contenuti affettivi più in dettaglio, anche per arrivare a parlare della volontà.

 

§4.Le idee fondamentali e qualche commento.

§II,4.1.Dopo aver dato le definizioni, e cioè indicato le idee, che servono alla presente trattazione sull’anima, quella riguardante la sua capacità di farsi intelletto (l’anima si fa intelletto quando pensa le rette idee) e ragione (l’anima si fa ragione quando impiega gli strumenti adatti per riflettere le idee in un sistema di segni e quando applica correttamente il principio di ragion sufficiente conoscendo la vera causalità) e, insomma, di diventare intelligenza, propongo di fermarci a recuperare e a esporre sistematicamente tutte le altre idee fondamentali che avevamo incontrato nel corso dei passati studi contenuti nel presente sito. Non è una digressione, perché stiamo trattando dell’anima e delle sue facoltà, ed è proprio quando guarda alle idee che l’anima si procura le sue facoltà, sicché per conoscere l’anima bisogna esaminare le sue idee. Queste che veniamo a esporre sono le idee rette che ha in sé l’anima sana, mentre altrove dovremo elencare la serie di contraffazioni, dei concetti errati, che nell’anima ammalata hanno eclissato le idee sane e ne hanno usurpato il luogo e la funzione. Ogni idea retta, qui nel mondo umano, ha infatti la sua (una o più) copia contraffatta e patogena.

§II,4.2.La prima e fondamentale idea che ha l’anima sana dentro di sé, e che ella trova senza bisogno di altro apporto che di sé stessa e del proprio pensiero, l’anima cioè che non sia stata confusa e sviata dall’identificazione col corpo aggregato e dai sensi terreni che la ingannano, è l’idea di essere. Essere è pensiero di sé; questa è la definizione che abbiamo ripetuto ovunque, essendo tale idea l’assioma fondamentale di ogni nostro ragionamento. E abbiamo distinto l’essere come principio, cioè il pensiero ancora allo stato potenziale e vuoto, infinito, dall’essere in atto ovverosia dal pensiero che si pensa effettivamente e si fa coscienza e conoscenza di sé. Abbiamo asserito più volte che l’essere, in senso pieno, è coscienza e conoscenza di sé e non infinito indistinto; sicché distinguiamo anche due significati della parola pensiero: essa può voler dire, appunto, il pensiero allo stato di principio potenziale, ancora uno e infinito, e indistinto, privo di contenuti in atto, ma può anche significare “atto di pensiero”, e cioè chiamiamo “pensiero” anche il contenuto prodotto dal pensiero: dunque pensiero è ciò che è prodotto dal pensiero e “pensieri” sono tutte quelle realtà che partecipano dell’idea di pensiero, di cui già abbiamo dato la classificazione per generi e specie qui sopra, al §I,3.6, anche se non in maniera completa perché manca il ramo dei contenuti cognitivi, come si ricorderà.

§II,4.3.Si noterà che, poiché essere in senso proprio è coscienza e conoscenza di sé, se ci rivolgiamo a guardare il principio infinito, il pensiero allo stato potenziale, ancora vuoto e indistinto, cioè oscuro, che pure abbiamo chiamato “essere”, troviamo che stiamo abusando del termine “essere”: il vero essere è il pensiero che ha coscienza e conoscenza di sé, perché se l’essere non si pensa e non ha coscienza, che essere è? In effetti il pensiero ancora non in atto e che non si pensa effettivamente non è effettivamente l’essere, e meglio faremmo chiamandolo “il principio” dell’essere, o “l’origine”, o anche “la fonte”, o forse, come vuole un uso iniziatico tradizionale, faremmo meglio a non dargli alcun nome e a tacere su di esso, perché ciò che non ha forma, cioè non partecipa di alcuna idea, non può avere un nome, visto che i nomi indicano i concetti, ovverosia denominano le idee; ma quando esso si pensa in atto è coscienza, e ivi, allora, nel suo atto, esso è realmente l’essere, non prima o fuori di quest’atto di pensarsi effettivamente da sé. Sicché l’essere infinito, infinita potenza di pensarsi ma ancora oscuro a sé stesso, non entra propriamente nella definizione di essere, e non ricade nemmeno sotto alcun’altra definizione, perché non è nessuna cosa determinata, non partecipa di alcuna idea, visto che esso non ancora si pensa e non è nulla in atto, e dunque non è classificabile in nessun genere e in nessuna specie, esso è ciò che è assolutamente inconoscibile; ma, attenzione: esso non è Dio, né è il sommo ente, o, meno che mai, il sommo bene, come asseriscono quelle menti confuse che personificano il principio e lo pensano come un altro essere, diverso da noi; né, viceversa, è inconoscibile e misterioso Dio, quello vero, come asseriscono costoro confondendo, appunto, il principio infinito ed inespresso, inconoscibile, con Dio, che invece è ciò che è massimamente conoscibile e chiaro. Proseguendo infatti nella nostra deduzione di idee incontreremo l’idea di Dio e la capiremo perfettamente.

§II,4.4.Quando esso, il pensiero infinito, si pensa in atto, dicemmo, è coscienza e conoscenza di sé; e questo è l’essere in senso più proprio. E questo atto di pensarsi, però, dicemmo anche, deve essere eterno, perché un essere che non è, il che sarebbe come dire un pensiero che non si pensi, è una contraddizione in termini, e ciò che è contraddittorio è sempre falso, non si avvera mai. Dunque l’essere è eternamente, e poiché per essere deve pensarsi, e cioè avere coscienza di sé, l’essere è eternamente coscienza di sé, non cessa mai di pensarsi. Sicché quell’ignoto principio ancora oscuro non esiste in realtà fuori dal nostro pensiero, fuori cioè dalla coscienza dell’essere, che siamo noi, perché da sé non può pensarsi (se si pensasse sarebbe coscienza e non prinicipio infinito e oscuro, ancora privo di pensiero in atto), o meglio, nel momento in cui si pensa, ecco, è pensiero in atto, e dunque coscienza singola, e non più infinito potenziale. Siamo noi, dunque, che quando ci rivolgiamo indietro, al principio, lo pensiamo così, potenza infinita e ancora inespressa e inconoscibile, ma è questa una visione della coscienza che scruta la propria origine e la ricostruisce cercando di vedere ciò che è prima della coscienza stessa, cioè prima dell’essere, di sé stessa, e vi trova un infinito, una potenza, il pensiero che ancora tace, ma sta per pensarsi in atto. Ma la coscienza deve stare ben attenta a non sbagliarsi e scambiare quell’infinito, quel pensiero vuoto e inespresso, oscuro perché allo stato potenziale, il quale però quando si esprime diventa lei stessa, la coscienza e cioè l’essere in atto, per un essere, un altro essere: soprattutto ella deve stare attenta a non immaginarlo fuori di sé, perché quando quel pensiero inespresso pensa sé stesso e si esprime, esso è coscienza, e non è fuori dalla coscienza, ma è in noi che si esprime, in noi che siamo coscienze.

§II,4.5.La coscienza, infatti, o anima, che dir si voglia, è pensiero, cioè essere, in atto. Ella è contemporaneamente ciò che pensa e ciò che è pensato, perché è pensiero che produce una rappresentazione di sé. Definiamo infatti l’anima (o coscienza) come pensiero che ha idea di sé, e questo avere idea di sé, cioè questo pensarsi, è l’atto che l’essere compie per essere effettivamente. Per questo abbiamo detto più volte che l’anima è un atto di coscienza dell’essere. Ella è pensiero pensato che si pensa da sé; e questo è l’essere. E quando l’essere si pensa, e dunque è coscienza (e si pensa eternamente, lo abbiamo già detto), avendo l’idea di essere si pensa come un essere, perché nessun essere è se non è un essere. Abbiamo dunque, compresa nell’idea di essere, anche l’idea di unità. Ogni atto di coscienza dell’essere è un essere, un atto, una coscienza singola, un’unità.

§II,4.6.Si noti che anche noi siamo costretti, per adeguarci al linguaggio comune, a commettere l’abuso di cui si parlava sopra, nel §II,3.9, in fondo: usare il nome dell’universale, quello derivato dall’aggettivo o dal nome mediante un suffisso, per designare invece un individuo che partecipa di tale idea e che fa parte dell’insieme di cose generato da quell’idea. Il genere si chiama “unità”, ed è generato dall’idea di uno; ma anche gli individui che ne fanno parte si chiamano “unità” e questo avviene perché noi, in italiano, usiamo “un”, “uno”, “una” come articolo indeterminativo e non possiamo dire “un uno”, “due uni”, “degli uni”, la nostra lingua non lo consente. Sicché, o usiamo per designare il singolo essere che partecipa dell’unità il termine “individuo”, che deriva dalla voce latina che significa “indivisibile” o ci adeguiamo a quell’uso solecistico che vuole la parola “unità” impiegata anche per individui singoli: una unità, due unità, tre unità, molte unità. In italiano si può dire, ed eccezionalmente lo si può accettare anche nel nostro linguaggio. Troveremo lo stesso problema per la parola “realtà”, che dovrebbe designare l’idea, l’universale e non l’individuo particolare, ma spesso si usa dire “una realtà” al posto di “una cosa reale”. Lo stesso dicasi per il termine “possibilità”; spesso diciamo “avevo due possibilità”, intendendo dire che si avevano davanti due possibili e che bisognava scegliere quale mettere in atto. Possiamo adeguarci al linguaggio comune, per non divenire troppo astrusi, ma stiamo ben attenti al significato delle parole e a non lasciarci ingannare. Comunque, sul linguaggio e sulle sue regole bisognerà impegnarci in uno scritto apposito, così come per la motodologia in generale: sono argomenti importantissimi, perché se è grazie al linguaggio che l’anima può rappresentare visibilmente l’essere e diventare mondo, quando esso sia usato rettamente, invece un linguaggio oscuro e ambiguo può offuscare  nell’anima la visione dell’essere e portarla così alla sua distruzione, perché se l’anima non ha idea di essere, non è. Ora però continuiamo sulle idee di essere e di uno, nella maniera seguente.

§II,4.7.Dicemmo anche che, nell’atto eterno di diventare coscienza, l’essere non si pensa come una coscienza, ma come una pluralità infinita di coscienze, poiché il pensiero infinito, trovando in sé infinite potenzialità, non si esaurisce in un solo essere finito. Sicché, correlata alle idee di essere e di unità, che sono coestensive (=i generi da loro individuati contengono gli stessi individui), perché ogni essere è un essere, troviamo nel pensiero che guarda sé stesso anche le idee di pluralità (o molteplicità, che dir si voglia), cioè giustapposizione di individui diversi, e, appunto, diversità: non ne abbiamo ancora parlato, ma già Platone indicava come due generi sommi quello dell’”identico” e quello del “diverso”, identità e diversità, i due generi cioè di “ciò che è identico a sé stesso” e di “ciò che è diverso da altro, da quello che non è sé stesso”. Si capisce che “essere”, “unità”, “identità”,”diversità” sono tutti generi coestensivi, perché tutto ciò che è, ad un tempo, è essere, è un essere, è identico a sé stesso e diverso da ciò che è altro da sé. Sono appunto i generi sommi, quello che includono tutto ciò che è, e non sono specie di nessun genere. Dovremo però riflettere più approfonditamente su ciò che distingue un’anima, e cioè un essere, da un’altra, in uno scritto futuro di ontologia avanzata.

§II,4.8.Per ora, possiamo fissare ciò che segue: l’essere è il pensiero, unica e infinita fonte delle idee, che quando si pensa in atto per mezzo delle idee (e lo fa eternamente) si trova molteplice, si rappresenta in individui (esseri, unità, anime, coscienze, che dir si voglia) potenzialmente infiniti di numero; ogni essere individuale non si distingue da un altro essere nel guardare le idee, e cioè nell’intelletto, perché gli atti di deduzione che compie la coscienza dall’assioma primo sono per tutti i medesimi, e se fossimo solo intelletto, che è visione delle verità necessarie, saremmo tutte la stessa coscienza, la stessa anima, lo stesso sguardo, lo stesso essere; ma le anime si distinguono per la parte contingente del loro pensiero. Ciò che è necessariamente vero, l’insieme delle verità necessarie, cioè delle idee dedotte con metodo assiomatico dall’idea di essere che è il primo assioma, non muta mai e tutte le anime sane, quelle che accedono a questo nucleo eterno del pensiero, sono tutte lo stesso intelletto, la stessa visione; la distinzione inizia quando, fuori da ciò che è necessariamente vero, l’anima inizia a guardare ai possibili. Possibile è ciò che non essendo necessariamente vero ha bisogno di una causa per esistere, e poiché anche la sua negazione è parimenti possibile, esso ora è ora non è, a seconda delle cause che si esercitano di momento in momento. Ebbene: l’essere, che è infinita potenzialità, trova entro sé stesso tutte le possibiltà e può metterle in atto nella sua infinita molteplicità di coscienze. Ogni coscienza può sperimentare solo un possibile alla volta, cioè non si può verificare all’interno di una coscienza una possibilità e il suo contrario contemporaneamente (per il principio di non contraddizione), ma l’essere infinito, che è la somma delle sue coscienze, può essere tutto contemporaneamente.

§II,4.9.Le realtà solo possibili, quando si avverano per una causa che le ha fatte essere, si chiamano anche contingenti. Dunque arricchiamo il nostro intelletto e il nostro lessico con l’idea di verità e necessità e di possibilità e contingenza: l’anima sana, infatti, deve saper distinguere ciò che è reale da ciò che è soltanto possibile, e anche il contingente dal necessario; deve saper distinguere perfettamente il suo nucleo eterno, l’intelletto, dal suo lato contingente e mobile, il Nord dal Sud (per questo simbolismo cfr. L’Essere, l’Anima, i Mondi, §5.4, la visione del polo Nord spirituale e l’inizio del viaggio verso Sud, ma dovremo occuparci dei simboli in scritti appositi), e deve anche sapere quale rapporto di causalità vige tra eterno e contingente. Un desiderio in atto o un sentimento effettivamente provato, o un pensiero particolare e così via ora ci sono e ora non ci sono nell’anima, a seconda delle singole occasioni, ma le idee che mettono l’anima in grado di produrre pensieri singoli e tendenze affettive che poi generano i singoli desideri e sentimenti sono permanenti: l’intelletto e l’insieme di tendenze affettive razionali che ne derivano, la forma eletta, che come già dicemmo è la somma delle tendenze a desiderare e ad approvare il bene e che dunque si può anche chiamare con una sola parola, AMORE, sono eterni nell’anima sana e non mutano mai; mutano solo i singoli desideri o i singoli sentimenti o i singoli pensieri che nelle varie occasioni l’anima prova, a seconda del momento contingente: sarà sdegnata, per esempio, di fronte a un atto di ingiustizia, sarà invece lieta di fronte alla realizzazione di un bene, e così via.

§II,4.10.Possiamo dunque distinguere due generi di realtà: il Lettore, o la Lettrice, ricorderà che noi consideriamo realtà il pensiero e i suoi contenuti (o prodotti, che dir si voglia) e che abbiamo chiamato i pensieri (i singoli atti del pensiero, i suoi prodotti o contenuti ovverosia le realtà) anche “sensazioni”, distinguendole poi, nello scorso §I,3.6, in sensazioni o pensieri cognitivi e in sensazioni o pensieri affettivi. Più sopra ancora, nel §I,1.1, abbiamo, inoltre, definito “contenuto della coscienza” tutto ciò di cui ella si accorge, ed ivi, come si ricorderà, avevamo distinto ciò che ella contiene in sé avendolo prodotto attivamente e ciò che invece ella riceve dall’esterno, e che è dunque, per il principio di ragion sufficiente, il contenuto prodotto da un’altra coscienza. Ora invece troviamo in questo genere della realtà, ossia dei contenuti del pensiero, un’altra importante distinzione: distinguiamo la realtà di ciò che è necessariamente vero, che si chiama anche verità, da quella realtà che è contingente, che è il possibile divenuto reale grazie a una causa che lo ha fatto essere. Dunque la verità è l’insieme delle idee necessariamente vere mediante cui l’essere rappresenta sé stesso (cfr. su questo: supra, §§II,3.1-2 e §II,3.6), e il pensiero che si pensa tramite le idee si chiama anche assoluto, è ciò che assolutamente è, nel senso che è da sé senza bisogno di altro per essere, mentre non chiamiamo “verità” la realtà soltanto contingente, ma in mancanza di un altro termine (è una carenza del linguaggio comune, che non distingue la verità dal contingente) possiamo designarla col termine generico di “realtà”, il che può essere un po’ fonte di confusione, come sempre capita in quei casi nei quali una specie assume lo stesso nome del genere. Nel neoplatonismo si usa specificare “la vera realtà”, intendendo l’idea, da “ciò che non è vero essere ma immagine”, intendendo il corpo; ma anche questo è un linguaggio un po’ carente perché manca la designazione di ciò che è contingente ma invisibile, i contenuti singoli dell’anima, pensieri o affetti che siano. Abbiamo anche accennato (cfr. supra, §II,4.6) alla difficoltà che ci pone questo termine, per via del fatto che non si distingue, nella nostra lingua, la designazione dell’universale, l’idea di realtà, dai casi individuali: si chiamano realtà anche i singoli contenuti del pensiero, quando diciamo: il tal desiderio è una realtà, la tal sensazione è una realtà... e i razionalisti chiamano “realtà”, collettivamente o singolarmente, ciò che cade sotto i sensi umani, e cioè le percezioni, che sono sempre soggettive, ma poi pretendono che si chiami “realtà”, contraddittoriamente, solo ciò che è “oggettivo” senza rendersi conto che l’oggettività non esiste, che non può esistere nessun oggetto indipendente dal pensiero e cioè fuori dall’essere. Ciò ci dimostra come nella lingua comune il concetto di realtà sia molto confuso; noi ricordiamo che, nel nostro linguaggio, sarà opportuno chiamare “verità” le idee e discostarci dai neoplatonici chiamando “vera realtà” non le idee, ma i mondi visibili dove i contenuti del pensiero, le idee e i pensieri cognitivi o affettivi che derivano da esse, si specchiano in un unico e consapevole atto di immaginazione, nello spazio, che è l’immaginazione stessa; ma che chiamiamo “realtà” anche l’insieme di contenuti invisibili del pensiero, compresa la visione delle idee che però è realtà di ciò che è necessariamente vero, come appena detto, mentre i contenuti contingenti della coscienza, invisibili o visibili che siano, sono la realtà contingente, appunto, ma non possediamo un termine unico e specifico per designarli e distinguerli in maniera inequivoca dal genere della realtà. Chiamarli “contingenza” sarebbe troppo lontano dall’uso comune e condiviso, e ci renderebbe astrusi.

§II,4.11.Ma c’è anche un’altra difficoltà da risolvere rigurdante questo termine “realtà”. Si sarà notato che dalla nostra definizione, “realtà è il pensiero e i suoi contenuti”, il genere della realtà viene a coincidere con quello dell’essere, intendendo per essere “tutto ciò che ha esistenza”. Ma a questo punto dobbiamo richiamare anche un’altra distinzione che va fatta nel genere della realtà e che spesso usammo nei nostri discorsi passati, la distinzione tra l’invisibile  inteso come “ciò che ha la realtà dell’essere” e il visibile, come “ciò che ha la realtà dell’immagine”; dicemmo più di una volta che l’immagine non è l’essere, ma appunto la sua immagine, un segno che lo rappresenta. Ma dunque il genere della realtà è più esteso di quello dell’essere, ed esiste qualcosa che è reale, ma non è essere, esiste qualcosa che è fuori dall’essere? Ma questo sarebbe contraddittorio, perché se una cosa è fuori dall’essere, è non essere e non potrebbe mai essere, sarebbe nulla. L’immagine, o corpo che dir si voglia, però non è non essere, e non è fuori dall’essere, ma è prodotta dall’immaginazione dell’essere come suo pensiero: è un pensiero che usa un linguaggio fatto di estensione e segni sensibili per esprimersi. Perché, dunque, noi chiamiamo “ciò che ha la realtà dell’essere” tutto l’invisibile, anche i sentimenti e i desideri, e i singoli pensieri cognitivi, mentre neghiamo la realtà dell’essere per le immagini? Sembra una contraddizione: anche le immagini sono pensieri, e dunque dovrebbero anch’esse avere la realtà dell’essere, come tutti i pensieri. In effetti, questo è un problema di linguaggio: quando noi diciamo che i corpi non hanno la realtà dell’essere, ma quella dell’immagine, intendiamo dire che i corpi non sono esseri indipendenti dal pensiero, “oggettivi” come credono i razionalisti; intendiamo dire che ciò che è visibile non è da sé, ma per esistere ha bisogno di essere causato dal pensiero e che una volta generato non è mai indipendente dal pensiero, non sta in un mondo esterno separato dal pensiero, come sarebbe per gli oggetti creati dal logos di un Dio creatore, che però poi stanno in uno spazio extra-mentale e in un mondo esterno, come credono i Cattolici. E quando noi consideriamo astrattamente l’immagine separata dal pensiero che l’ha prodotta dobbiamo dire che essa non è un essere, cioè che non è un altro essere diverso dal pensiero che l’ha pensata. Noi spiegammo e dimostrammo con rigore che c’è un rapporto preciso tra l’essere e l’immagine, poiché l’essere è il pensiero, che si causa da sé ed è necessariamente esistente, mentre l’immagine è realtà contingente, che ha bisogno di una causa per esistere e non può essere da sé ma ha bisogno di essere pensata. Tra essere e immagine c’è un preciso rapporto di causalità: l’essere, che è pensiero, causa l’immagine, che è un suo prodotto. Ragion sufficiente perché ci sia un’immagine è una immaginazione che la produca, ovverosia un pensiero che si serve di immagini per esprimersi, sicché è il pensiero, ciò che è invisibile, che produce l’immagine, ciò che è visibile; il che è come dire che l’invisibile è causa del visibile, che il pensiero ha la realtà della causa, l’immagine ha la realtà dell’effetto.

§II,4.12.Dunque dovremmo dire meglio: ciò che è visibile, il corpo, non ha la realtà dell’essere indipendente, “oggettivo”, ma ha la realtà dell’essere generato e sta nel pensiero, in un soggetto che lo pensi, perché è questo che significa l’espressione “ha la realtà dell’immagine”. E possiamo dividere il genere della realtà in ciò che è invisibile, trovando tra le realtà invisibili una distinzione tra ciò che è necessariamente esistente (l’anima, le idee) e ciò che è contingente (singoli atti di pensiero, affettivi o cognitivi), e ciò che è visibile, o che dir si voglia, corporeo tenendo conto che l’immagine visibile, o corpo, è un pensiero e sussiste solo nel pensiero, e che da un lato esso è ancora l’essere che in quell’immagine si esprime e si rende visibile, perché quando io mi esprimo in un corpo immaginandolo, quel corpo sono ancora io, e io sono un essere e quel corpo ha la realtà di un essere che si è reso visibile, da invisibile che era; ma, d’altra parte, è anche vero che quel corpo non sono io, ma solamente una mia immagine, un segno che mi rappresenta. L’immagine non sta fuori dall’essere, ma è ancora l’essere che si è reso visibile in quell’immagine ma che può anche cessare di produrre quell’immagine di sé e sceglierne un’altra. Dunque, il genere della realtà continua a coincidere con quello del pensiero e dei suoi prodotti; e ricordiamo che quando dico: “ha la realtà dell’immagine” intendo dire che il tal oggetto è un pensiero che si è dato visibilità, che ha prodotto di sé un’immagine e non sto dicendo che quell’immagine non è un essere, sto dicendo che non è un essere “oggettivo”, indipendente dal pensiero, un altro essere fuori dalla coscienza.

§II,4.13.Chi si sia stupito dalle mie asserzioni precedenti, e cioè si stia chiedendo se per caso io non sia matto ad asserire che l’anima produce corpi col pensiero, dimostra di non aver letto con la sufficiente attenzione i nostri precedenti scritti, in particolare Il fondamento della ricerca e i due studi sul concetto di realtà, L’Essere, l’Anima, i Mondi con il suo complemento Ritrovare Giacinto. Se non ha inteso ancora quale sia la vera realtà visibile e i veri corpi, il Lettore, o la Lettrice, è negligente e io non so che farci; però nel prossimo libro del presente scritto elencheremo le idee che producono spazio, materia e corpi e dunque torneremo ad esaminare tale argomento. Se il Lettore, o la Lettrice, è ancora frastornato dal mondo terreno e crede ancora all’esistenza di un mondo oggettivo esterno alla coscienza, deve rileggersi oltre al succitato scritto di fondamento, anche La Natura oppure può aspettare che io stenda e metta a Sua disposizione il già promesso studio sul mondo fisico visto con occhi spirituali, dove mi riprometto di rendere evidenti i macchinosi trucchi delle intelligenze che governano la Natura, che ci fanno credere a una materia esterna al pensiero e a corpi oggettivi esistenti in uno spazio extramentale, obbligandoci a dimenticare che noi anime, che siamo pensiero, siamo invece la fonte della vera materia, del vero spazio e dei veri corpi, visto che per definizione essi, essendo immagini, sono pensieri, perché un’immagine è ciò che viene prodotto dal pensiero quando esso si serve di segni visibili per esprimersi.

§II,4.14.Sicché, abbiamo trovato varie distinzioni nel genere della realtà, tra le quali anche quella importante tra ciò che è realtà invisibile e ciò che è realtà visibile, tra ciò che è essere in senso vero e proprio e ciò che è immagine dell’essere, che è ancora l’essere ma in quanto si è reso visibile. Ma questo, rendersi visibile voglio dire, il pensiero può farlo solo dopo aver scoperto quelle idee che ci aprono la porta della visibilità e della sensazione, e cioè l’idea di linguaggio e di segno. Un segno è qualcosa di visibile o sensibile che non è per sé stesso, ma che il pensiero produce allo scopo di significare altro, cioè di rendere visibile o sensibile un suo contenuto invisibile. Il linguaggio è l’insieme dei segni e delle regole che ci consentono di impiegarlo in maniera perspicua. Abbiamo detto che quando il pensiero si serve di un linguaggio fatto di estensione, e cioè immagini e figure, diventa immaginazione e crea spazio, corpi e mondi. Ma di questo parleremo oltre, nel prossimo libro III, dove elencheremo le idee che generano la visibilità, e quindi per ora mi fermo qui nell’esposizione della rete di idee che vanno dall’essere alla realtà sensibile, per passare invece a elencare quelle idee delle quali ci siamo serviti in ambito normativo, nella nostra etica e nella ricerca di ciò che cura l’anima. Aggiungo però un’ulteriore notazione: abbiamo definito l’essere e la realtà e abbiamo notato che il genere della realtà coincide con quello dell’essere, ma inteso nel secondo modo, non come pensiero vuoto e infinito, oscuro perché allo stato potenziale e cioè ancora inespresso, ma come pensiero in atto, poiché abbiamo chiamato realtà il pensiero con i suoi prodotti o contenuti, ovvero con le rappresentazioni che esso ha di sé. Insomma abbiamo definito l’essere come pensiero che pensa in atto e il pensiero che pensa in atto è la realtà, mentre non chiamiamo “reale” e non consideriamo “realtà” il pensiero in potenza, cioè privo di contenuti, che ancora quindi non si pensa effettivamente, privo ancora di una rappresentazione di sé, ma possiamo dire, semmai, che quella è la fonte oscura e nascosta della realtà; esso dunque non è un essere (insistiamo su questo perché è molto importante che l’anima riconosca sé stessa come l’essere insieme a tutte le sue anime compagne e non personifichi il principio vedendo l’essere altrove che in sé), ma è infinito, è un principio potenziale inesauribile. La potenza di pensare si fa realtà quando produce come contenuto il suo pensiero, quella rappresentazione di sé mediante l’idea di essere, di unità, di identità e diversità, di necessità e verità, e così via, che abbiamo chiamato coscienza, ricordando però che tale coscienza, la rappresentazione di sé dell’essere, è infinitamente molteplice e non è una sola coscienza: il principio non è né uno né molti, è infinito e quando si pensa mediante l’idea di uno si rappresenta come infinite unità. Dunque non è reale il principio, e non è un essere perfetto, e il principio non è Dio, perché chiamiamo Dio l’essere perfetto, e cioè quello che è completo in atto, non quello che è incompleto e in potenza. Esso è l’origine unica e infinita della realtà, ma Dio siamo noi, poiché Dio è l’essere che ha perfetta rappresentazione di sé e non è oscuro a sé stesso, e noi, le anime che guardando alle idee vedono in sé stesse la retta rappresentazione dell’essere, siamo dunque Dio tutte insieme, ognuna di noi un volto diverso di Dio, un dio. Dio è l’edificio splendente dei mondi, e non l’oscuro principio, non è mistero né tenebra, ma luminosa visione. Avevo promesso sopra, nel §II,4.3 che avremmo trovato sul nostro itinerario l’idea di Dio e che l’avremmo capita perfettamente. Infatti possiamo qui definire divinità come essere coscienza e perfetta conoscenza di sé; è dio chi è intelletto, capacità di vedere le idee, che sono le rette rappresentazioni dell’essere, mentre chi ha l’intelletto offuscato perché i retti concetti sono stati eclissati da quelli falsi e irrazionali prodotti dall’identificazione col corpo aggregato e dall’ingannevole esperienza terrena ha perso la forma divina e non è più un dio, ma si chiama uomo, dal punto di vista biologico, o “anima demoniaca” dal punto di vista spirituale, come diremo più in dettaglio sullo studio dedicato all’umanità come malattia dell’anima. Chiamiamo Dio, con la maiuscola, anche la collettività degli dèi, l’insieme di anime elette e divine; così come possiamo chiamare Anima, con la maiuscola, la collettività di anime, l’insieme delle coscienze dell’essere. Quando uso la parola “spirito” tendo parimenti a darle un valore collettivo, ma questo è un vezzo mio e non pretendo che sia condiviso... Completeremo la definizione di Dio nel libro successivo a questo, perché ci manca ancora una tappa per vedere Dio non solo nell’idea ma anche nell’immagine, o meglio in un vero mondo fenomenico: definire ciò che ci serve per vedere (nel senso di percepire sensibilmente, questa volta) il vero mondo, appunto, la vera realtà.

 

§5.Le idee normative.

§II,5.1.Finora abbiamo dato un elenco di idee fondamentali per il pensiero cognitivo, ossia abbiamo rivolto lo sguardo spirituale, l’intelletto, alle idee dell’ontologia; passiamo adesso a elencare le idee fondamentali per il pensiero normativo, e cioè quelle che producono giudizi di valore e quindi anche i nostri sentimenti, desideri e volizioni, per la nostra legge fondamentale, quella enunciata all’inizio di questo studio, al §I,3.1. Queste idee sono dunque anche guida delle nostre azioni, come vedremo oltre nel libro sulla volontà. Tutta la nostra scienza del bene, etica e cura dell’anima, si fonda su un assioma, quello che chiama bene l’essere. Sembra semplice, ma prima di comprenderlo nel suo reale significato, l’anima in via, offuscata da false idee di essere e false concezioni sul bene, ha bisogno di una rigorosa riflessione. Tale assioma diventa esplicito e perfettamente comprensibile solo quando chiariamo che l’essere è il pensiero che rappresenta sé stesso, cioè che intendiamo per “essere” la coscienza che sia la retta rappresentazione dell’essere, il pensiero che ha coscienza e conoscenza di sé; ciò che realizza l’essere è il bene, e poiché l’essere non è realizzato perfettamente se non ha un’immagine chiara e retta di sé, ovverosia se non vede la verità, il bene è la verità, male la negazione della verità. Ovviamente, per capire questo importantissimo assioma occorre anche sapere che noi intendiamo per verità le idee, le rette rappresentazioni che l’essere ha di sé stesso, quella serie di idee dell’ontologia che testé abbiamo cercato di mostrare ordinatamente al Lettore, o alla Lettrice. La conoscenza di sé che il pensiero può procurarsi per mezzo delle rette idee, la quale è ciò che realmente lo fa essere, perché un pensiero oscuro e confuso non è essere propriamente ma scade dall’essere e si trova in uno stato paradossale di pensiero che non pensa rettamente sé stesso, è dunque il bene, e noi chiamiamo tale conoscenza verità.

§II,5.2.Questo è importantissimo, la retta definizione di essere come pensiero e la retta definizione di verità come le idee mediante cui l’essere rappresenta sé stesso, perché in mancanza di tale consapevolezza, il nostro primo assioma dell’etica e della cura dell’anima risulta incomprensibile, e suscita lo scherno nei presuntuosi e atteggiamenti di sufficienza negli stolti. Infatti, quando diciamo “il bene è la verità” o anche, che è lo stesso, “il bene è la conoscenza”, nessuno può capirci, se per verità si intende, come fanno i logici razionalisti della nostra epoca, la conformità di un enunciato allo stato di cose nel mondo fisico; con questa accezione del termine “verità” non si capirebbe come mai vedendo la verità l’anima si procura il bene diventando così buona e retta. Infatti, la descrizione di uno stato di cose nel mondo fisico non è la verità, né il mondo fisico è vera realtà e perciò né descriverlo in enunciati, e nemmeno coglierne le leggi naturali meccanicistiche che sembrano governarlo, darebbe all’anima una retta rappresentazione di sé e dell’essere, mettendola così in grado di sentire l’essere (che è l’insieme di tutte le anime) come bene e dunque di amarlo; ma anzi questa verità di cui parlano i razionalisti, essendo la copia contraffatta del retto concetto di verità, contribuisce a tenere l’anima chiusa nell’ignoranza di sé e dell’essere, nell’errore e nella stoltezza, sicché questa “verità” non è capace di guarire l’anima e non la rende buona e santa mostrandole il vero essere e il vero bene, e così, impiegando questa accezione sbagliata del termine verità e questa falsa intelligenza, è impossibile cogliere l’identità tra intelligenza (che per noi non è capacità di cogliere lo stato di cose in un mondo esterno, ma è capacità di procurarsi la verità, ossia le idee, la conoscenza del vero essere, la quale è il bene) e bontà (tendenza al bene), e va perso il nesso che c’è tra un comportamento sano e giusto, fondato sulla conoscenza della retta idea di bene, e la conoscenza della verità. Infatti, costoro non solo sbagliano chiamando “verità” la corrispondenza del pensiero a uno stato di cose esterno, sicché non possono capire che la verità è ciò che ci fa essere ed è dunque il nostro bene, ma non possono nemmeno capire che l’essere è il bene, perché chiamano essere non il pensiero che rappresentandosi nelle idee rette è verità, ma qualcosa che è fuori di sé e materiale, che nulla può avere a che fare col bene. Né la materia eterogenea al pensiero cara al razionalismo, né i suoi meccanicismi apparenti, né l’effimera esistenza di organismi può chiamarsi “il bene”, nemmeno nel sistema di idee sbagliato dei razionalisti, sicché quando il razionalista conosce tale “essere” non lo sente come bene, e questa conoscenza dunque non produce amore; il materialista desidera vivere, sente la vita vagamente come un bene, ma confonde la vita col processo biologico che forma e trasforma il corpo aggregato, con qualcosa, cioè, di “oggettivo” ed esterno a sé stesso: è un bene labile e insoddisfacente e il razionalista colto non è più un’anima allo stato animalesco, e perciò non si accontanta più del bene inteso come utile della specie e sopravvivenza del corpo fisico, ma non è ancora arrivato al vero bene, è come in mezzo a un guado, sicché in preda alla scontentezza si rivolge ai piaceri terreni o a sparsi e asistematici piaceri intellettuali o artistici, o è in cerca di soddisfazioni individualistiche. Il razionalista ignora che la vita, il bene, è qualcosa che si acquisisce mediante la retta conoscenza dell’essere, mediante la verità: ciò che egli chiama “vita” e considera il bene tocca a chi tocca a caso, o dietro a determinismi di cui l’anima non ha il controllo e che la rendono dipendente da qualcosa a lei esterno. Noi sappiamo che la vera vita è il pensiero e che ne è fonte l’anima; il pensiero inteso nel nostro senso ampio, intendo, come produzione di affetti, desideri e sentimenti, oltre che di cognizioni, e anche come produzione di bellezza, di immagini e sensazioni poetiche, quelle che splendono e ti rendono beato nei veri mondi, come si vedrà nel prossimo libro. Pensiero e poesia, e cioè la verità e il suo splendore, questa è la vita e questo è il vero bene. E siamo noi la vita, siamo noi il bene.

§II,5.3.Ma è proprio questo che la Natura aveva in mente creando la sua simulazione di mondo, quella che gli incauti chiamano “realtà” e scambiano per l’essere, asserendo che è reale solo quello che cade sotto ai sensi senza chiedersi che validità abbiano le percezioni sensibili e fondando dunque la loro scienza su asserzioni metafisiche irrazionali: privarci della conoscenza dell’essere, e di noi stessi, sostituire la retta idea di essere con un concetto falso e privarci così anche della conoscenza del bene impedendoci di vedere l’equivalenza del bene con la verità. E’ bene ciò che fa essere l’essere, e l’essere è verità, perché è pensiero che conosce sé stesso, e che non è se non pensa di sé la verità: dunque il bene è la verità.

§II,5.4.E’ chiaro che anche gli stolti cattolici ci deridono quando diciamo che il bene è la verità, intesa però come conoscenza logico-razionale e non come rivelazione, e che è la conoscenza del bene, della verità, che ti rende buono, giusto e santo, e quando diciamo che il male è l’ignoranza. Per loro il bene è il dovere, e cioè l’obbedienza a un Dio che ti impone o gli interessi della specie, rendendoti animalesco, o i valori di chi è al potere, rendendoti schiavo; è chiaro che a questo “bene” inclinano solo coloro che sono ignoranti, o perché vivono ancora allo stato animalesco o perché si lasciano acriticamente indottrinare dall’ideologia al potere, e che più una persona è colta e più riflette e più si leva dall’ignoranza, più si allontana da un simile “bene” e lo rifiuta. Sicché, poiché i Cattolici chiamano buono chi obbedisce alla loro stolta osservanza del dovere e chi più si mostra succube di fronte alla loro autorità, è chiaro che vedono la ricerca logico-razionale della verità come un male, la conoscenza come un atto d’orgoglio che ti allontana dal “bene” e ti rende cattivo. Inoltre, poiché chiamano conoscenza la scienza ufficiale, hanno buon gioco a risponderti, quando dici loro che la conoscenza è il bene, che sei uno sciocco, perché esistono anche gli scienziati pazzi, quelli che usano per il male la loro conoscenza... Sussumono sotto il concetto di “conoscenza” anche quella sbagliata e buttano via il bambino con l’acqua sporca, attribuendo anche alla retta conoscenza la malignità di quella errata, perché non sanno distinguere tra conoscenza vera e pseudoscienza.

§II,5.5.Insomma, chi difetta della retta idea di essere e della retta idea di verità rifiuta il nostro assioma, l’asserzione che il bene è la verità, e dunque preferisce la menzogna e l’errore. Ho detto a più riprese (il Lettore, o la Lettrice, se ne ricorderà, ma non mi stancherò mai di ripeterlo) che a causa dell’identificazione col corpo aggregato l’anima ha perso la verità sull’essere, ha alienato l’essere da sé concependolo come qualcosa di esterno, di diverso dal pensiero e dunque da sé; e di conseguenza, poiché chiamiamo bene l’essere e male il non essere, in questo modo l’anima ha perso anche la retta idea di bene e di male e con essa la capacità di giudicare rettamente e essere giusta nelle proprie scelte e nelle proprie azioni, e anche di amare (amare=desiderare o approvare il bene, inteso come tale razionalmente), di avere sentimenti e desideri razionali e cioè sani, rivolti al vero bene, perché ora ella sente come beni quelli che non sono tali e come mali quelli che non sono tali, fondandosi su un errato concetto di bene e di male. Soltanto il ripristino della verità, che è la retta conoscenza dell’essere e dunque del bene, è ciò che può guarire l’anima da questa condizione di offuscamento del suo essere e sviamento delle sue tendenze affettive e della sua volontà, da quello spegnimento dell’amore che deriva dall’incapacità di sentire come bene tutti gli esseri compresa sé stessa. Ma è chiaro che la verità è salvifica solo se per verità intendiamo il logos, quello vero, cioè il pensiero che procedendo per via logica recupera le rette idee sull’essere, e recupera di conseguenza anche la conoscenza del bene e della giustizia; altrimenti, se per verità intendiamo qualcos’altro, o la conformità dei nostri enunciati a uno stato di cose del mondo esterno o una serie di dogmi irrazionali, o se chiamiamo “verità” un’entità misteriosa chiamata “figlio” o “seconda persona della Trinità” senza preoccuparci invece di ascoltare quest’anima, il vero Gesù Cristo, intendo, e di capire il suo logos, i contenuti di verità del suo spirito santo, e pretendiamo che questa “verità” ci sia comunicata in modo miracoloso con riti e sacramenti, senza che noi ci impegniamo a pensarla e a concepirla nella nostra anima attivamente per via logica, sarà impossibile che troviamo la guarigione. Se non capiamo che la verità è ciò che ci si procura mediante la conoscenza e l’intelligenza e non per magia, miracolo e rivelazione, non potremo mai capire il nesso che c’è tra la conoscenza e il bene, così come è impossibile cogliere il nesso tra conoscenza e bene, se si considera conoscenza la scienza materialista che è scienza del falso essere.

§II,5.6.Per noi il bene è ciò che fa essere l’essere, e poiché l’essere è pensiero e non è se non pensa sé stesso e non si conosce rettamente, le idee rette mediante cui l’essere pensa sé stesso conoscendosi rettamente sono il bene, e, come si ricorderà (cfr. supra, §II,3.6 e anche §II,4.10), l’insieme delle idee rette si chiama per noi verità. Dunque il bene è la verità, ma intesa come retta rappresentazione di sé per mezzo delle idee (e non come conformità di un enunciato al mondo “esterno”, come per i razionalisti che cercano un essere che non c’è in un inesistente mondo “oggettivo”); e quando l’anima si fa intelletto vedendo le idee e diventando così pensiero che pensa sé stesso e verità, allora l’anima è il bene, perché ella è così pienamente l’essere e l’essere è il bene. Ma dicemmo che il pensiero, ovverosia l’essere, quando si pensa in atto, si pensa come coscienza infinitamente molteplice, si trova ad essere un’infinità di anime: l’essere è una collettività. Se l’essere in atto è il bene, perché il bene è l’essere ed è essere solo il pensiero che si pensa in atto, e se questo atto è infinita molteplicità di anime, tutte le infinite anime insieme sono il bene; possiamo anche dire, di converso, che quando l’essere si conosce in un atto di coscienza in modo perfetto, cioè quando questo atto di coscienza, che è un’anima, è perfettamente chiaro perché si pensa mediante le idee rette, l’essere sente tale anima come bene e la ama. Se l’essere, ovverosia il pensiero che si rappresenta in me si trova soddisfatto della sua rappresentazione, che sono io, egli mi ama; il che è come dire che io, che sono il pensiero, amo me stesso. E se io, che sono l’essere in una delle sue infinite rappresentazioni, vedo Te, un’altra rappresentazione dello stesso essere, e Ti vedo come un bene perché sei una perfetta e chiara rappresentazione dell’essere, parimenti io, l’essere che è in me e che in me si pensa, Ti amerò e così via per tutti gli atti di coscienza dell’essere. Gioiremo insieme per il bene in noi presente, e cioè ci ameremo; ma se invece questo bene, la verità, è assente da un’anima, noi desidereremo la sua realizzazione, per il primo assioma della nostra psicologia: se sento una cosa come bene, quando essa sia assente, la desidero. Dunque desidereremo insieme il bene per chi ancora non lo ha raggiunto e insieme alimenteremo desideri di bene e cioè amore. Visto che funziona? guardando l’essere abbiamo acceso l’amore.

§II,5.7.Se l’essere che si rappresenta in me è soddisfatto della mia anima perché vi trova una retta rappresentazione di sé stesso, l’essere mi sente come bene e mi ama; ovvero il pensiero che dice “io” dentro di me mi ama, o, insomma, detto in maniera più consueta: io amo me stesso. Ma se sento me stesso come un bene, mi do valore. Chiamiamo infatti valore ciò che è bene, intendendo dire che se una cosa è un bene, va conservata: il valore è infatti ciò che, essendo un bene, va conservato. Ma quando io mi do il retto valore sono sano, perché come il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, avevamo scoperto nel nostro studio intitolato La cura dell’anima che la malattia più grave dell’uomo, oltre il primo stadio che è la caduta nell’animalità e cioè nell’egoismo di specie e di gruppo, è appunto l’incapacità di darsi il retto valore, la svalutazione di sé da cui è affetta l’anima che ignori di essere il vero essere e dunque il bene, e che dà origine alla malattia più devastante generando la superbia, ossia la tendenza a darsi un valore illegittimo ed ingigantito per colmare la lacuna, la perdita del proprio vero valore, e i suoi sintomi, cioè gli attaccamenti ai mezzi che servano a soddisfare tale superbia, ovverosia ai falsi beni o idoli, di cui già parlammo nell’opera appena citata, chiamandoli “punti di alienazione del valore”. Quando l’anima saprà che l’essere è pensiero e verità, sapendo di essere pensiero capace di trovare la verità, capirà anche di essere il bene e si darà valore, risollevandosi da quello stato di prostrazione indotto il lei dalla svalutazione di sé che la rende infelice e la costringe a cercare un rimedio fittizio a tale infelicità nella menzogna sul proprio valore, nell’ingigantire indebitamente la propria importanza anche negando il valore degli altri. Ne parleremo ancora nel già promesso studio sull’umanità come malattia dell’anima e dunque non sto qui a dilungarmi. Qui è importante classificare correttamente l’idea di valore, la sua derivazione dall’idea di bene, nella speranza che sapendo che cos’è realmente il bene, chi accetti la nostra filosofia sappia anche riconoscere i veri valori da quelli falsi, spacciati per tali dalla cultura dominante.

§II,5.8.Abbiamo difeso la nostra idea di bene come pensiero e verità, e ora sappiamo a che cosa dare valore; possiamo ora guardare e vedere l’idea di giustizia, che dipende immediatamente dall’idea di bene e da quella di molteplicità. Dicemmo, nello scritto di fondamento della nostra etica, che la giustizia è la realizzazione del bene e che il bene è realizzato quando ciascuno ha ciò che gli spetta; e dicemmo anche che spetta a tutte le anime l’essere e il valore. Già sappiamo che, poiché l’essere è pensiero che conosce sé stesso, per essere ogni anima deve possedere la verità, le rette idee mediante cui il pensiero in lei può rappresentarsi rettamente; e poiché, come appena detto, ha valore ciò che è bene, ed è bene l’essere che è la somma delle infinite anime, è giusto dare valore a tutte le infinite anime, a ogni anima. Dunque a ogni anima spetta la verità, che la rende una retta rappresentazione dell’essere e cioè le dà l’essere in senso pieno, e le spetta anche di veder riconosciuto il proprio valore. E’ ingiusto dunque chi tenta di sottrarre all’anima la verità tenendola nell’ignoranza, ma è ingiusto anche chi dica di un’anima il falso: negare di un’anima ciò che realmente è, tentare cioè di imporle una falsa rappresentazione di sé calunniandola, è un’azione ingiusta, è ingiusto negare le capacità di un’anima quando ci sono o anche solo omettere di prenderne atto. Sottrarre all’anima la verità o negare che ella l’abbia in sé quando ce l’ha sono entrambe azioni gravemente ingiuste, così come cercare di sottrarle bontà e giustizia è un’azione ingiusta, tanto quanto lo è il negare apertamente la bontà e la giustizia di un’anima che invece abbia saputo procurarsele, o anche solo omettere di prendere atto della presenza di tali virtù laddove ci sono. In due sensi dunque diciamo che è ingiusto negare l’essere all’anima: nel senso che non dobbiamo distruggerla privandola della verità che la fa essere, e nel senso che non dobbiamo mentire sul suo essere, rappresentandola come non è. Giustizia è dunque dare a ciascuno ciò che gli spetta, e cioè l’essere e il valore; e nell’essere comprendiamo la conoscenza della verità, che le dà la capacità di rappresentarsi rettamente e dunque di essere, ma anche il riconoscimento di tale rappresentazione, il riconoscimento del suo essere, da parte nostra, da parte di tutte le altre anime.

§II,5.9.Poiché la giustizia è la realizzazione del bene ed è dunque un bene, l’amiamo e non siamo giusti per dovere, perché qualcuno ci obbliga, ma per amore, per nostra libera elezione. Si sarà notata una cosa importante: chi sappa che bene è l’essere, e che l’essere è pensiero, ovverosia coscienza e conoscenza di sé, e che la cosienza dell’essere è molteplice, sente come bene ogni anima, ogni atto di coscienza dell’essere; sentire come bene significa amare e significa anche dare valore. Sicché la conoscenza della retta idea di essere non mi rende soltanto capace di amare, ma mi rende anche giusto: se amo ogni anima e cioè desidero l’essere, e dunque il bene, di ogni anima, desidererò che ogni anima abbia la verità, che è il bene perché è ciò che la fa essere, e se so che ogni anima è un bene, perché è un atto di cosienza dell’essere, le do valore, il che è come dire che tenderò a dare a ogni anima ciò che le spetta, l’essere e il valore; dunque è sufficiente conoscere la retta idea di essere per amare e per essere giusti, a un tempo. Con la retta ontologia abbiamo recuperato l’amore, e cioè la forma eletta, e siamo tornati a essere anche giusti. E se non  è possibile  amare senza essere giusti, nemmeno è possibile essere giusti senza amare. Se sono giusto tenderò a dare a ogni anima il bene, perché so che spettandole l’essere le spetta ciò che la fa essere, cioè la verità, che è il bene: ma dunque tale tendenza è allo stesso tempo desiderio di bene, cioè amore; e se sono giusto, do valore all’anima singola e a tutte insieme, per definizione, ma questo significa che considero ogni anima un bene, il che detto in altre parole significa che amo ogni anima. Detto così, ora sembra una banalità, e lo è, perché le verità sono banali quando le enunciamo chiaramente; ma torniamo per un momento nel mondo umano, e troveremo che ci sono numerosissime persone che pretendono di essere giuste, anche se sono completamente prive di amore e, viceversa, ci sono moltissime persone che pretendono amore senza giustizia. Il cattolico, per esempio, pretende di avere tutto in dono a prescindere dalla giustizia, pretende che si perdoni tutto a tutti e questo lo chiama amore. Ma non è amore quello di un presunto Dio che assolve un colpevole in maniera arbitraria e gratuita, solo per dimostrare la propria onnipotenza, commettendo così verso chi è stato oggetto di tale colpa una grave ingiustizia, né, tanto meno, dimostra amore chi voglia esibire col medesimo atto di perdono arbitrario una presunta superiorità morale, se non addirittura santità, perché se abbiamo ricevuto un torto, ci spetta che questo venga riconosciuto come tale: e non è compiendo e tollerando atti di ingiustizia che si ama il colpevole, perché amarlo vuol dire volere il suo bene, cioè che si redima dalle sue tendenze al male, cosa che sarebbe impossibile se egli omettesse di subire le conseguenze della sua ingiustiza e dunque di prenderne atto. E quando, viceversa, il cattolico assume un atteggiamento colpevolista, disprezzando un presunto peccatore e  condannandolo all’inferno eterno, pretende di essere giusto commettendo un atto di odio verso il prossimo: infatti egli in questo modo non considera un bene anche l’anima del colpevole e dunque omette di amarla, e cioè la odia, e, contrariamente a ciò che egli pensa, tale atto di relegare all’inferno un colpevole non è affatto un atto di giustizia: esso è invece, ad un tempo, un atto di ingiustizia, poiché egli mostra così di non ammettere che anche l’anima malvagia ha valore infinito e ha in sé potenzialmente le capacità di guarigione, negandone l’essere e il valore e, secondo le nostre definizioni, negare a qualcuno ciò che gli spetta, l’essere e il valore, è ingiustizia. Perciò mi sono dilungato sull’argomento “non c’è giustizia senza amore né amore senza giustizia”, perché questa semplice verità viene comunemente negata.

§II,5.10.Avremmo potuto anche dare un’altra definizione di giustizia, dopo quanto detto nel libro I sui giudizi di valore, e cioè vedere la giustizia come la capacità di giudicare rettamente il valore delle cose, di sussumere cioè ogni cosa individuale sotto il concetto di bene o di male. In effetti, questa potrebbe essere la seconda accezione del termine “giustizia”, perché dopo aver imparato a desiderare e volere (sulla volontà vedi oltre) l’essere di ciascuna anima e a darle valore, dobbiamo anche riuscire a capire quali cose ci aiutino a realizzare questo fine, lo stato di giustizia, quello in cui il bene è realizzato in tutte le coscienze, e quali invece ci ostacolano, il che è come dire sussumere sotto il concetto di bene e di male ogni realtà individuale, cioè giudicare rettamente il valore delle cose. Infatti, noi abbiamo definito come bene non soltanto l’essere inteso come verità, e come male la mancanza di verità ossia di essere, ma abbiamo chiamato bene e male, rispettivamente, tutto ciò che sia un mezzo per avvicinarsi alla verità e tutto ciò che dalla verità ci allontana (si vedano le definizioni di bene e di male contenute ne Il fondamento dell’etica, §§3.2-3), e dunque giudicare correttamente di ciascun essere, se sia da considerarsi un bene o un male, ovverosia la capacità di giudizio, parimenti merita il nome di giustizia. Ma parleremo più estesamente di questo nel libro sulla volontà, qui oltre, e in opere di etica più avanzate: per ora teniamo presente che giustizia è la tendenza a condividere il bene con tutte le anime e a dare loro valore come a noi stessi; ma è anche la capacità di distinguere tra le azioni quale è dannosa perché allontana  noi o qualcun altro dalla verità, che è il bene, e quale è invece giovevole perché atta ad avvicinare un’anima, noi o qualcun altro, al bene cioè alla verità. Le azioni dannose si chiamano anche colpe, mentre quelle giovevoli sono atti di giustizia, e forse dei meriti. Va da sé che le colpe sono dei mali e i meriti sono dei beni; evitiamo la parola “peccato” che, non essendoci nessun Dio sommo che si offende perché gli abbiamo disobbedito mettendo in forse la sua onnipotenza con qualche nostra azione o pensiero, non ha nessun senso e dunque è un concetto vuoto.

§II,5.11.Dalle idee di bene e di giustizia si può trarre quella di felicità; questa è un’idea importantissima, perché ci renderà felici. La felicità è lo stato dell’anima di eterna fruizione del bene. Poiché il bene è l’essere inteso nel senso di pensiero che rappresenta sé stesso in infinite coscienze, quando sarà realizzato il bene in tutte le coscienze dell’essere e cioè in tutte le anime, noi saremo felici. Il che significa che saremo felici quando vigerà la giustizia, quando ognuno avrà ciò che gli spetta, e cioè il bene che è lo stato che segue al possesso della verità. Chi depriva anche solo una delle anime nostre sorelle della verità distrugge la nostra felicità e ci rende infelici, è bene ricordarlo.

§II,5.12.Mi sembra che in questi §§4 e 5 del presente libro abbiamo richiamato tutte le idee fondamentali da noi impiegate nell’itinerario compiuto in precedenza, negli altri scritti contenuti in questo sito, per vedere l’essere invisibile. Mancherebbero le idee negative, quelle cioè che derivano dalla negazione dell’idea positiva, come falsità, irrealtà, impossibilità, male, ingiustizia etc., ma, a parte il fatto che esse sono molto facili da ricavare ed elencarle qui sarebbe un’inutile lungaggine, dovremo sicuramente impiegarle quando parleremo dell’umanità come malattia dell’anima e dunque le esporremo là per esteso. Qui, invece, nel prossimo libro di questo presente scritto sull’anima sana che è anche intelletto e volontà, completeremo l’elenco di idee a disposizione dell’anima sana che sa vederle con quelle da cui si genera la visibilità, arrivando anche a completare, come promesso, l’idea di dio e la visione di Dio e cioè dell’insieme di tutte le anime divine, i mondi. Il Lettore, o la Lettrice, che abbia seguito con attenzione il mio itinerario di L’Essere, l’Anima, i Mondi non si stupirà per il fatto che io cito l’idea di dio nell’elenco di idee riguardanti la realtà visibile, poiché egli, o ella, già sa che il pensiero, che è Dio e che si rappresenta in ogni anima, non è divino se è oscuro e incapace di manifestazione, e che l’anima sa farsi spazio, corpi e mondo, e che dunque la somma delle anime, il pensiero che è Dio, splende ben visibile e manifesto negli spazi diversi da quello terreno. Comunque, penso sia un bene, o almeno qualcosa di non inutile, ripetere qui sistematicamente tutta questa materia, perché così sarà più facile focalizzare l’attenzione su queste idee e registrarle nella memoria. Esse sono, insieme alle idee già esposte qui sopra, ciò che rende l’anima sana e libera dal male, che è incapacità di pensarsi, ossia di essere, e di manifestarsi, cioè oscurità; e queste ulteriori idee che ci aprono la porta della visibilità e ripristinano in noi la consapevolezza del rapporto causale che vige razionalmente tra pensiero e corpo (il corpo è immagine del pensiero) danno alla nostra anima anche la capacità di essere visibile e cioè corporea, di uscire dall’oscurità, generando la materia da sé come propria immagine e imprimendovi la forma, senza bisogno di ricevere né l’essere né la visibilità da nessuno. L’autonomia dell’anima è la sua salute; sicché è meglio prestare attenzione a queste idee e non trascurarle. Ma prima di terminare il presente libro sarà opportuno aggiungere ancora un’osservazione.

§II,5.13.Abbiamo qui analizzato l’anima quando si fa intelletto, quando cioè vede le idee e produce in sé una retta rappresentazione dell’essere, e abbiamo notato che per tornare a essere intelletto l’anima deve liberarsi degli errori concettuali che hanno sostituito le idee rette, formando in lei un falso intelletto, una serie di concetti errati perché oscuri e contraddittori, fondati su asserzioni irrazionali come l’esistenza di una materia eterogenea al pensiero e di un mondo oggettivo. E si sarà notato, altresì, che quando ci si vuol liberare dagli errori concettuali che si sono introdotti nell’anima a causa della falsa esperienza del mondo terreno e si applica il giusto metodo di ragionamento, quello che si trova non è un tipo di conoscenza del tutto aliena dalla cultura umana, non si va verso una conoscenza fantascientifica, misteriosofica o completamente esoterica, né si trovano poteri “paranormali”. L’unico vero potere della mente è pensare in maniera corretta e diventare intelletto e ragione; e le idee che così si ricavano sono già presenti nella nostra tradizione filosofica, solo che sono state accantonate e dimenticate, o a volte addirittura consapevolmente scartate, dalla cultura comune per motivi storici o psicologici molto precisi, e sono state trascurate per lungo tempo. Infatti hanno usurpato il ruolo della verità prima il Cristianesimo storico, quello falso, e poi la falsa scienza; e nel mondo antico il metodo socratico-platonico è stato praticamente affossato innanzi tutto da Aristotele, che ha riportato la filosofia a fondarsi su una metafisica errata, di nuovo, cioè, a fondarsi sul concetto falso di essere e di realtà e sull’asserzione di una materia eterogenea al pensiero, e poi da altre correnti più apertamente materialistiche. La mancata diffusione del Platonismo, e dunque la permanenza dell’anima umana nella debolezza e nello smarrimento, ha aperto la strada agli abusi successivi, ha consentito alle false verità di radicarsi e condizionare la storia... Ma un’analisi storica di questa vicenda andrà fatta altrove. Qui ci sia consentito ribadire che per uscire dall’oscurità e ritrovare noi stessi, l’essere e l’anima, non abbiamo dovuto procurarci altri strumenti se non quelli già presenti nella filosofia socratico-platonica e conservati negli sviluppi successivi di questa tradizione.

§II,5.14.Non c’è stato bisogno di cercare contatti con gli extra-terrestri, evocare serafini o cherubini, o dedicarci all “meditazione cristica” cercando ambigue ispirazioni, né di trovare sepolti sotto le zampone della Sfinge antichi rotoli con registrata la sapienza dei misteriosi abitanti di Atlantide, o cose del genere; non c’è stato alcun bisogno di allontanarci dalla normale cultura accademica. Tutto quello che abbiamo dovuto fare è chiarirci le idee ragionando in modo perfettamente normale, scegliendo ciò che è valido della nostra riflessione umana e scartando gli errori mediante la loro confutazione. Infatti l’uomo è anima, e l’anima è un dio quando pensa rettamente, e se rifiutiamo ciò che è pensiero umano, gettiamo via anche ciò che di divino è possibile procurarci nel nostro pensiero. Scavando sotto gli errori concettuali del senso comune si trova l’idea più semplice e immediata, anzi addirittura banale, ed è quella la verità; chi va in cerca di risultati esaltanti e scarta le idee rette perché troppo semplici e troppo normali, troppo condivisibili, troppo umane, perde la verità. Infatti non c’è niente di più comune e condivisibile che la verità. Gli errori del pensiero sono spesso grovigli oscuri difficilissimi, se non impossibili, da capire, mentre la verità è semplice e facile, immediata. Quello che è difficile, infatti, non è trovare la verità bensì saperla accettare, darle valore: perché sono le nostre tendenze verso falsi beni e i nostri attaccamenti verso ciò che serve a ingigantire la nostra importanza che ci inducono a disprezzare e trascurare la verità, che non serve a questo scopo, e a rimanere legati ai pregiudizi del mondo per essere accettati e apprezzati dalla cultura ufficiale oppure ad andare in cerca di saperi falsi e assurdi per far mostra d’aver superato la cultura ufficiale. La verità è umile, l’errore è altisonante, la verità ci accomuna a tutti gli altri che la vedono, l’errore serve a distinguerci, a separarci dal comune consesso umano e a farci credere di poter “sedere come Dio nel tempio di Dio”, la verità ci induce modestia, l’errore ci procura prestigio. Chi cerca saperi altisonanti per attirare l’attenzione, perde la verità; chi è attaccato al prestigio e al successo, al potere, ai riconoscimenti pubblici, e per pavoneggiarsi e distinguersi in ambito scientifico rifiuta la modestia, che è uguaglianza col prossimo, rifiuta la verità. Chi è libero da tali attaccamenti e vuol trovare il bene, che è la verità, cerca solo la verità, e chi cerca trova.


LIBRO III.

 

LE IDEE E LA VISIBILITA’: L’ANIMA COME IMMAGINAZIONE.

 

 

 

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI:

 

Ci sono delle idee che portano l’anima alla visibilità e alla manifestazione sensibile di sé, e sono quelle della geometria (§III,1.1; §III,1.5, in fondo); ciò che fa essere visibili i contenuti dell’anima è un linguaggio che si serve di segni ricavati dall’estensione (§III,1.1). Quando l’anima impiega un siffatto linguaggio si chiama “immaginazione”, e l’immaginazione è un tipo di ragione (§§III,1.1-2). La ragione che si fa immaginazione sta applicando correttamente il principio di ragion sufficiente, col riconoscersi quale causa dell’esistenza del segno e legando correttamento il segno al suo significato, che è un contenuto del suo pensiero (§III,1.1). E’ irrazionale chi non comprende questo legame causale (§§III,1.1-2).

 

Lo spazio e i corpi sono immagini, e dunque sono un tipo specifico dei contenuti del pensiero; bisogna fare attenzione a non rovesciare il rapporto causale confondendo l’effetto con la causa: è l’essere che produce l’immagine, non l’immagine che produce l’essere dunque è il pensiero a produrre i corpi, non viceversa (§III,1.2).

 

Definizione di “spazio”, di “estensione” e di “corpo” (§§III,1.3-4). Definizione di “oggetto” (§III,1.4; importanza delle definizioni di “corpo” e “oggetto” al fine di coglierne il valore: §III,2.4). L’atto dell’anima di costruire corpi si può chiamare anche “riflessione” (§III,1.4). I corpi non sono oggetti, perché il vero oggetto è l’idea ed essa può generare non uno ma infiniti corpi (§III,1.4). L’oggetto non è “oggettivo”, ma è prodotto dal pensiero (§III,1.4). Vedere l’oggetto e vedere l’immagine sono due atti diversi; non basta una sensazione per vedere realmente un oggetto, bisogna vederne anche l’idea. Dunque per vedere realmente, l’anima deve essere intelletto (§III,1.5). L’idea di materia (§III,1.8); materia e forma immanente (§III,1.8); l’azione del pensiero di produrre forme si chiama anche “energia “(III,1.8). La materia è inesauribile, è potenzialità infinita (§III,1.9).

 

Completiamo la nostra definizione di “divinità”: sono dèi le anime elette in grado di essere spazio e mondo, che possiedono cioè la capacità di vedere le idee della geometria e costruire corpi (§III,1.6). Dio è l’insieme dei mondi (§III,1.6). Invito al Lettore, o alla Lettrice, a guardare Dio (§III,1.7).

 

La materia come acqua viva di cui è fonte l’anima (§§III,1.8-9; dizione ossimorica di “materia spirituale”: §III,2.1). Un accenno alle immagini dell’anima nei veri mondi; ella, se è intelletto, produce di sé tre immagini: spazio, materia e corpi formati ed è autonoma nel farlo, non ha bisogno di interventi esterni (§III,1.9). La luce è immagine delle idee, della verità: ciò che illumina l’essere a sé stesso, e il sole, fonte della luce, è immagine dell’intelletto, e cioè dell’anima stessa in quanto capace di produrre le idee (§III,1.9). La verità è una ma infinite sono le anime che la vedono, infiniti i soli che risplendono, e il Lettore, o la Lettrice sarà, se mi segue, uno di quelli (§III,1.9).

 

L’anima buia, priva di intelletto, non sa nemmeno essere spazio e non ha visione di sé; ella ha perso la facoltà di produrre immagini dei propri oggetti e non può più cogliere il legame causale che vige tra pensiero e corpo; è smarrita nei sogni di un mondo che crede irrazionalmente oggettivo e invece è costruzione del suo sistema nervoso, che è un demone; lo spazio terreno le impedisce di ritrovare questa consapevolezza perché ivi i suoi pensieri non trovano immagine, mentre il nostro campo di coscienza è occupato dallo spazio del sistema nervoso, il quale riflette solo le forme macroscopiche degli aggregati di atomi contenuti nello spazio terreno (§III,1.10). Nel vero mondo l’essere comunica le immagini dei suoi spazi direttamente ad ognuna delle sue anime, e così ivi si vedono vicendevolmente i pensieri (§III,1.10).

 

Definizione della parola “spirito”: la spiritualità non è in antitesi con logica e ragione, né con la corporeità, ma, anzi, senza intelletto lo spirito diventa fumo e senza corpo non potrebbe esprimersi intersoggettivamente; non è un male la corporeità, è invece un grande bene, ma solo la falsa corporeità è un male (§§III,2.2-3). Definizione di “bellezza”, “beatitudine” e “paradiso” (§III,2.3). Valore della bellezza e sua indistruttibilità (§III,2.4).

 

Definizione di “vita” e polemica con i Cattolici che sacralizzano la vita falsa, il processo biologico, soffocando la vera vita che è il pensiero logico-razionale e la sua espressione, ignorando ciò che disse Cristo (§III,2.5).

 

Nota terminologica sull’uso del verbo “riflettere” e della parola “riflessione” (§III,2.6). Ogni spazio è un angelo; definizione di “angelo” e specificazioni del genere così individuato. L’anima umana non è più un angelo (§III,2.6). Polemica coi Cattolici, che pensano che vedere il cielo come un dio sia una superstizione (§III,2.6).

 

Dobbiamo abituarci a considerare i corpi come simboli, anche se a questo siamo disavvezzi perché lo spazio terreno ci impone immagini senza significato e oscure (§III,3.1; §§III,3.5-6). Primo accenno ad alcuni simboli fondamentali: la cristallizzazione (§III,1.8, in fondo; §III,3.2); il principio machile e il principio femminile, di cui la divisione dei sessi nel mondo terreno è parodia satanica (§§III,3.2-3). Polemica con il maschilismo dei Cattolici (§§III,3.3-4). La capacità simbolica, assieme alle conoscenze esposte sopra su materia, spazio e corpi, è indispensabile per entrare in paradiso, anzi per essere paradiso (§III,3.6).

 


Abbiamo visto nel precedente libro l’anima quando pensa le idee e si fa intelletto, tornando a essere pensiero e conoscenza di sé; abbiamo visto anche l’anima che sa essere ragione, applicando il principio di ragion sufficiente e facendosi capacità discorsiva per mezzo di un linguaggio, quando cioè si procura uno strumento per esprimere in segni sensibili i suoi pensieri invisibili. Dicemmo anche che quando la ragione, che è sempre l’anima in quanto attività pensante discorsiva, si serve di un linguaggio fatto di estensione e dunque si esprime mediante immagini, ella si chiama anche immaginazione. Con la visione di determinate idee, l’anima si fa immaginazione e le si apre la porta della visibilità; ella diventa, da invisibile e oscura che era, chiara e visibile, e sa farsi splendida.

 

§1.Diventiamo spazio, materia e corpi.

§III,1.1.Continuiamo con la nostra enumerazione delle idee ed entriamo in un campo nuovo e importante: quella serie di idee che portano alla visibilità e alla manifestazione sensibile dell’essere. L’idea fondamentale è ancora quella di essere: l’essere è rappresentazione di sé; e dall’idea di essere ricaviamo quella di linguaggio, che è lo strumento che serve all’essere per rappresentarsi. Lo abbiamo già definito sopra, al §II,4.14 come un sistema di segni governato da regole, dove per segno intendiamo una cosa visibile o sensibile che non serva per sé stessa, ma che abbia la funzione di indicare qualcos’altro. Abbiamo anche detto che quando l’anima pensa servendosi di segni ricavati dall’estensione, cioè mediante immagini, può chiamarsi immaginazione e che annoveriamo l’immaginazione tra le facoltà che appartengono alla ragione perché abbiamo definito “ragione” il pensiero che si serve di segni per esprimersi. Insomma, quando la ragione si fa causa dell’esistenza di segni sensibili, essa si fa linguaggio, e questa è un’applicazione particolare del principio di ragion sufficiente, e quindi i due significati da noi proposti del termine “ragione” qui sopra, nei §§ II,3.13-14, vengono a collegarsi: quando la ragione lega correttamente un segno al suo significato e riconosce che causa del segno è il pensiero che esprime in quel significato un proprio contenuto, sta applicando correttamente il principio di ragion sufficiente. E quando questo segno è fatto di estensione, e cioè è un corpo, la ragione che lo produce si fa immaginazione o, come l’abbiamo chiamata nel nostro scritto L’Essere, l’Anima, i Mondi, “forza del sogno” o forza creatrice. E chi comprende che la causa che fa essere il segno visibile, l’immagine ovverosia il corpo, è il pensiero che con tale segno vuol esprimere un suo contenuto è anima razionale, perché applica correttamente il principio di ragion sufficiente, chi invece non comprende questo è irrazionale e ben lungi dal possedere la vera scienza.

§III,1.2.L’immaginazione è dunque la facoltà di rendere visibili le cose invisibili e da essa nascono tutte le immagini: spazi, corpi, mondi. Ora ci stiamo procurando il retto concetto di causalità: è il legame tra l’essere e i suoi contenuti; è il pensiero, che è l’essere, l’unica vera causa di tutto ciò che cade sotto il concetto di realtà (ricordiamo che abbiamo definito la realtà come il pensiero e i suoi contenuti), perché è il pensiero che produce i suoi contenuti e poiché i corpi, che sono immagini, sono un tipo specifico di contenuti del pensiero, è il pensiero a essere causa dell’esistenza dei corpi. Il pensiero può produrre per i suoi contenuti invisibili (pensieri affettivi, cioè sentimenti e desideri, o cognitivi e cioè idee) dei segni sensibili e delle immagini ed è dunque causa di tutta la realtà. Anche i corpi del mondo fisico sono pensieri, ma ce ne occuperemo, dopo i cenni già dati nelle opere precedenti, nel già promesso scritto sul mondo fisico visto con occhi spirituali; qui diamo le rette definizioni che ci servono per indicare le rette idee e procurarci i concetti chiari che ci daranno la capacità di non lasciarci confondere dai trucchi della Natura. Ricordiamoci che il corpo è immagine e non oggetto extramentale, e che è l’essere a produrre l’immagine, non l’immagine l’essere, sicché non è la materia, che è immagine, a produrre il pensiero, che è l’essere, ma viceversa è il pensiero a produrre la materia e i corpi, e così non saremo più smarriti nel mondo alla rovescia a causa della perdita della retta idea di essere.

§III,1.3.Asserendo, ne Il fondamento della ricerca, che quando l’immaginazione immagina sé stessa si immagina come spazio, abbiamo dato la definizione di spazio. Lo spazio è estensione vuota e non delimitata, che esprime la capacità dell’anima di contenere le immagini dei suoi contenuti, che sono i corpi. Laddove l’immaginazione dell’anima da potenziale si fa attuale, cioè quando ella compie effettivamente l’atto di produrre un corpo immaginandolo, abbiamo non più estensione vuota e illimitata, ma estensione piena e limitata da superfici, linee e punti, che si chiama anche volume. Spazio, dunque, è estensione vuota e illimitata, mentre corpo è estensione piena e limitata. Notiamo quindi che il vuoto non è da confondersi con il nulla o col non essere, perché qualcosa è, è l’immagine dell’immaginazione allo stato potenziale, è là dove ella non compie alcun atto effettivo; dove ella invece immagina in atto, lì lo spazio si riempie. L’estensione è ciò che è divisibile e nella filosofia passata veniva definita come partes extra partes. Non so se i geometri saranno d’accordo, ma penso che sia praticamente impossibile definire meglio l’estensione, essa è un’intuizione originaria ed assiomatica della mente, insieme con il punto e la linea, e tali intuizioni non si definiscono a parole, bensì indicandone le immagini. Con le parole posso al massimo indicare una proprietà dell’estensione e dire, appunto, che essa è ciò che è divisibile, in opposizione all’anima, che essendo un atto di coscienza dell’essere e partecipando dell’unità, è invece ciò che è indivisibile, tanto è vero che ogni coscienza, ogni essere, è un uno (ma nel linguaggio comune si dice “un’unità”, cfr. quanto detto sopra al §II,4.6) e perciò si chiama anche “individuo”, col significato appunto di “indivisibile”.

§III,1.4.Ogni corpo è un’immagine, è la rappresentazione visibile di un’idea, è cioè la rappresentazione grafica, per dir così, di quel discorso che lo definisce. Possiamo chiamare oggetto l’insieme del discorso definitorio, che è un’idea complessa, e della totalità delle immagini che tale idea può generare nello spazio, un’immagine diversa dello stesso oggetto per ogni punto prospettico da cui la si calcoli. Quando lo spazio, o meglio un’anima, vede tale idea (vede nel nostro senso platonico, cioè è capace di pensarla e comprenderla) sa darne una rappresentazione visibile, e allora diciamo che tale spazio, l’immagine cioè dell’immaginazione di quell’anima, riflette quell’oggetto. Riflessione è dunque il consapevole atto di un’anima (o di un intelletto, perché l’anima, quando guarda alle idee, si chiama intelletto) che costruisce un’immagine a partire da un’idea. Nel linguaggio comune, però, si dice anche che l’anima riflette quando ragiona verbalmente; in effetti ogni parola, in senso translato, può anche considerarsi come il riflesso sensibile di un concetto e dunque se penso verbalmente, cioè usando le parole, in un certo senso, sto riflettendo. Notiamo, dopo queste definizioni, che i corpi non sono oggetti, se vogliamo parlare rigorosamente, ma il vero oggetto è l’idea con il discorso definitorio che la esprime; in secondo luogo è oggetto, come detto, l’insieme dell’idea complessa e delle immagini differenti che essa può generare a seconda del punto di vista da cui tali immagini vengono calcolate. Questo significa che ogni oggetto ha potenzialmente infiniti corpi, se per corpi intendiamo immagini, e non uno solo, e che ogni singola immagine, cioè ogni corpo, da sé non è affatto un oggetto, ma lo è solo insieme all’idea di cui è rappresentazione visibile. Notiamo altresì che, essendo un’idea capace di generare infinite immagini, l’oggetto non è “oggettivo”, ma è prodotto del pensiero di un soggetto: l’oggetto, in realtà, è qualcosa di soggettivo. Questo che sembra un ossimoro o un paradosso è invece la conseguenza del fatto che si è radicato nel linguaggio comune un termine sbagliato per indicare la cosa visibile: si sono creduti oggetti i corpi, quando non è così, e li si sono creduti oggetti extra-mentali, quando sono immagini, così noi ci troviamo a ereditare questo termine ingombrante di “oggetto” che tentiamo di conservare solo per non allontanarci troppo dal linguaggio comune, ma di cui dobbiamo correggere la definizione. Definendo rigorosamente il termine oggetto ci accorgiamo che gli oggetti sono una particolare specie di idee, gli oggetti sono quelle idee che servono all’anima per generare immagini e cioè corpi. Il corpo da sé non è un oggetto, ma è un’immagine dell’oggetto, e l’oggetto è un pensiero contenuto nell’anima, è un’idea e non una misteriosa “cosa in sé” che sta fuori dal pensiero. E né l’oggetto né il corpo, che è una delle sue immagini, possono mai sussistere da sé fuori dal pensiero: quando l’anima cessa di pensarli essi svaniscono, non è che l’anima li crea come farebbe il Dio creatore dei cattolici con la meteria, cioè ponendoli fuori di sé come un altro essere.

§III,1.5.Inoltre, altro è vedere un’immagine, altro è vedere l’oggetto: quando abbiamo una sensazione visiva, non vediamo l’oggetto, ma una delle sue infinite immagini; vediamo realmente un oggetto se oltre all’immagine che ne stiamo percependo in quel momento, noi vediamo anche l’idea, cioè sappiamo pensarla correttamente dandone la definizione. Dunque non basta ricevere una sensazione per vedere un oggetto, ma il vedere è fatto di due cose: il vedere come sensazione visiva, che è percezione sensibile, e il vedere come deduzione dell’idea, che è atto del pensiero invisibile. E l’anima che sappia vedere l’oggetto in questo senso, ovviamente, sa anche crearlo come suo contenuto, sa cioè produrne un’immagine nella sua immaginazione, il che è come dire che sa riflettere visibilmente quell’oggetto invisibile nel suo spazio, dandogli appunto la visibilità, trasformandolo in un corpo. Con tutto questo abbiamo scoperto una cosa: per accedere alla visibilità l’anima deve in primo luogo essere intelletto, e cioè pensiero che vede le idee, poiché per creare le immagini ella deve riflettere nella propria immaginazione le idee. Infatti per generare l’immagine di un oggetto, come abbiamo appena detto, ella deve poterne vedere l’idea, e cioè pensarne la definizione precisa, per poterla poi riflettere nel proprio spazio. Ogni oggetto è fatto di idea e immagine e cioè è prodotto dall’intelletto e dall’immaginazione, che sono due facoltà dell’anima. Va da sé che le idee capaci di generare immagini visibili sono quelle della geometria: volume, superficie, linea, punto e tutte le loro combinazione, cioè tutte le idee dei solidi geometrici e che le anime costruttrici di mondi, cioè gli dèi, sono quelle che sanno a menadito le regole della costruzione geometrica, sanno tutte le definizioni delle figure piane e solide, anche quelle più complicate, e sanno trarne tutte le immagini tridimensionali da tutti i possibili punti di vista secondo le leggi della prospettiva, e sanno anche conservare le idee nel proprio intelletto per sempre, o le immagini nella loro immaginazione finché loro occorre.

§III,1.6.Se, con un po’ di sicumera, abbiamo in precedenza collocato noi stessi nel genere del divino, asserendo che l’anima eletta, quella che abbia ripristinato in sé la retta idea di essere e la verità e dunque sia tornata a essere intelletto, e che grazie alla retta idea di bene e di giustizia alimenti in sé solo tendenze razionali, è anche in possesso della forma divina ed è dunque un dio, definendo la divinità come coscienza e perfetta conoscenza di sé, dobbiamo però dire che in senso più specifico sono dèi quelle anime che siano in grado anche di essere mondo, e cioè di creare una realtà visibile nel loro spazio. Bisognerà dunque fare un po’ di allenamento prima di diventare dèi in quest’altro senso, ovverosia spazi e cieli e mondi, dopo aver appreso diligentemente le matematiche, l’aritmetica e la geometria e la trigonometria e tutto ciò che serve per immaginare corpi che non siano scarabocchi. Avevamo promesso (supra, §II,4.14) di completare la definizione di dio e di portare il Lettore, o la Lettrice, a vedere anche nel fenomeno, sensibilmente, la divinità. Ora siamo in grado di farlo: un dio è coscienza e perfetta conoscenza di sé, e capacità di manifestarsi visibilmente e sensibilmente, cioè forza creatrice di mondi. E Dio è l’insieme di tutti i mondi, cioè di tutti gli dèi, è il mondo dei mondi, è l’eterna città dove tutte le anime capaci di riflettersi nello spazio, ovverosia nell’immaginazione, splendono e si guardano e si vedono a vicenda amorosamente e dove amorosamente si conoscono riconoscendo l’uno dell’altro l’essere e il valore, e la bellezza, e dove perciò è realizzata la giustizia. E la loro infinita poesia, espressione dell’eterno loro amore, è la vera vita.

§III,1.7.E adesso, se il Lettore, o la Lettrice, seguendomi fin qui e vedendo le idee fondamentali che riporteranno la Sua anima a essere intelletto è sulla strada per divenire divino, può guardare: intanto, anche lo spazio terreno è l’immagine di un’immaginazione divina, e guardando ivi già, in un certo senso, vede Dio, anche se questo è un collegio divino che si comporta in modo provocatorio e tenta di ingannarci nascondendo il vero essere. Ma sono sicuro che se la Lettrice, o il Lettore, vorranno guardare negli altri spazi, quelli apertamente divini, essi non glielo negheranno: da oggi in poi se receve immagini diverse da quelle consuete, saprà vedervi le manifestazioni dei mondi e non sarà angosciata o angosciato all’idea di avere allucinazioni e di essere anormale. Sono realmente anormali quelli che non vedono Dio. Guarda, anima sorella, ed entra nei mondi, ivi è il paradiso, quello che prima Ti era interdetto perché i dogmi della religione irrazionale e la pseudo-scienza Ti impedivano di vedere realmente, di accettare le loro sensazioni e di ascoltare la loro voce: tutto ciò che ora devi fare per entrarvi definitivamente è impararne il linguaggio e condividerne l’amore.

§III,1.8.Per completare la serie di idee fondamentali della visibilità ne manca una: l’idea di materia. Come il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, abbiamo chiamato materia l’immagine informe e fluida, quella che esprime visibilmente l’idea di essere nel senso più generico, e che dunque è l’immagine della semplice coscienza (ovverosia del pensiero, che dir si voglia) senza altre specificazioni o contenuti. E’ questa materia che contiene le forme più specifiche di cui parlavamo sopra, immagini degli oggetti nel nostro senso ridefinito, e cioè delle idee che siano la regola di costruzione dei corpi: quando la coscienza si fa intelletto perché capace di vedere le idee o, che dir si voglia, concepire le forme trascendenti, enunciandone correttamente la definizione, ella è capace di immaginare in sé, e cioè produrre nella propria materia, un’immagine individuale di quella forma universale. Si ricorderà l’analogia con la ricetta rispetto alle singole torte, con il modello rispetto ai singoli maglioni o con il progetto rispetto ai singoli edifici che lo realizzano (cfr. supra, §II,2.3 e anche §II,3.6). L’idea è la causa generatrice delle cose individuali, ne è il modello universale; e le idee che derivano dall’estensione generano le immagini individuali, cioè i corpi. Tale immagine individuale si può anche designare col nome di forma immanente, nel senso che essa è la forma presente all’interno della materia, la quale appunto è l’immagine della potenzialità di pensare forme e cioè della coscienza che ha idea di essere e sa di essere pensiero. Potremmo dire che la materia è immagine della capacità di essere e di essere qualcosa. Pensandosi come essere la coscienza è materia, elemento liquido informe, pensandosi come essere in possesso di una determinata forma ella è materia formata, cioè corpo solido, e produce da sé i suoi oggetti, nel suo intelletto l’idea complessa che è la regola di costruzione della immagini, e nell’immaginazione, appunto, le immagini. Quando nell’invisibile il pensiero che ha idea di essere ed è dunque coscienza pensa una forma specifica, nell’immagine appare materia formata, cioè corpo. L’anima non sta così producendo un altro oggetto, qualcosa fuori di sé, come pensano faccia il Dio creatore coloro che aderiscono all’assurdo dogma cattolico: sta invece rendando visibile sé stessa, perché l’oggetto che l’anima sta creando è il suo pensiero che si pensa e si immagina in una certa foggia e la materia di cui è fatto tale oggetto è l’anima stessa, il suo pensiero in azione, ed anche la forma specifica è pensiero in atto dell’anima: quando l’anima pensa visibilmente, e cioè immaginando, l’idea di essere produce materia, e quando pensa visibilmente in sé una forma specifica produce materia formata, cioè corpi. Il pensiero in atto si può chiamare anche energia. Dunque la potenza di pensare le forme si vede nello spazio come elemento liquido e informe, ed è una materia inesauribile perché infinitamente l’anima può pensare sé stessa come essere; e quando tale matrice, ricettacolo di tutte le forme, riceve e riflette un pensiero in atto, cioè una forma specifica, essa dà luogo a un corpo solido e si dice, da noi, che “cristallizza”, ma questo lo si vedrà con più ordine nel paragrafo sui simboli, quando impareremo a dire che l’anima è fonte eterna di acqua viva. La dizione “acqua viva” per materia, elemento liquido che è immagine della coscienza che ha idea di essere, è quella usata da Cristo, secondo la testimonianza contenuta nel Vangelo (Gv.4,10-14), anche se totalmente incompresa dai cristiani.

§III.1.9.Dunque, quando nella realtà invisibile la coscienza è pensiero che pensa una forma specifica, nella sua immaginazione si produce l’immagine di materia formata e solida; ma poiché con questo ella non ha certo esaurito la sua potenzialità di pensare forme, nel medesimo spazio deve permanere ancora l’immagine fluida e informe, cioè acqua viva che scorre inesauribile dalla fonte nascosta che è l’anima invisibile. Per questo le anime elette in genere si manifestano, nei veri mondi, come laghi splendenti e cristallini o come corsi d’acqua, o mari dalle cui rive sorgono spiagge, edifici e città: si manifesta nell’immagine l’infinita potenzialità della loro anima insieme con gli oggetti già formati dal loro pensiero in atto, che sono corpi solidi. Ricordiamo dunque che se e solo se un’anima ha in sé la facoltà di vedere le idee, e cioè se è anche intelletto, può accedere alla visibilità e diventare, immaginandosi, materia e corpi, e lo spazio che li contiene; allora ella produce tre immagini: l’immagine della propria capicità di rivestire di segni visibili i suoi pensieri, cioè della sua immaginazione, e questa immagine è lo spazio vuoto; l’immagine della coscienza, ossia del pensiero che ha idea di essere genericamente e senza altre specificazioni, e quest’altra immagine è la materia informe e liquida, matrice di tutto, capace di ricevere tutte le altre forme (ella stessa è una forma, ma è la forma più generica di tutte e dunque informe); e infine l’immagine di una forma specifica, dell’idea trascendente che è la definizione e la regola di costruzione di quel corpo che in quel momento la coscienza vuole manifestare. E’ sufficiente che l’anima sia intelletto perché ella sia in grado di produrre tutto ciò, senza il bisogno di interventi esterni o doni da chissà chi: ella è autonoma nel darsi l’essere, la forma, la visibilità; ella è realtà e mondo e non ha bisogno di essere creata da nessuno né di ricevere “la carne” da nessuno. Ella è pensiero e coscienza e facoltà creatrice di mondi, ella è l’essere che si specchia nella sua materia, ella è mondo luminoso, ella è dio. La luce appare nel suo spazio come immagine dell’intelletto, della sua facoltà cioè di vedere le idee, perché le idee sono ciò che illuminano l’essere a sé stesso, fanno cioè conoscere il pensiero a sé stesso, lo rendono chiaro a sé stesso. E il sole è l’immagine dell’anima in quanto intelletto, in quanto capace di pensare le idee, così come il sole è ciò che sa emanare la luce: il sole è l’emblema di dio nel mondo dell’anima, perché l’anima quando è intelletto è dio: il sole nello spazio è cioè l’immagine riflessa nell’immaginazione di un’anima della sua propria divinità. La verità, l’insieme delle idee mediante cui il pensiero, che è l’essere, vede sé stesso, è una sola; ma di coscienze che la riflettano in sé ve ne sono infinite: una è la divinità, l’idea di dio, che è coscienza e conoscenza perfetta di sé e cioè possesso della verità, ma gli dèi che partecipano della divinità, le anime che realizzano in sé la forma divina, sono infinitamente numerose, e se il Lettore, o la Lettrice, sa seguirmi, presto sarà una di quelle e sarà unita con Dio. Chiamiamo Dio, con l’iniziale maiuscola, l’insieme di tutti gli dèi.

§III,1.10.Lo spazio dell’anima sana è spazio illuminato, ma se manca questa luce, se cioè ella non è vero intelletto perché l’idea di essere è stata eclissata dal concetto errato di essere come realtà extramentale e oggettiva e così ella ha perso anche tutte le idee che da questa prima discendono, il suo spazio non è che paradosso e oscurità; è per questo che gli esseri umani non hanno consapevolezza di quanto sto dicendo, dell’autonomia della loro anima nell’essere spazio, materia e mondo. Anzi, il pensiero che ha perso la retta idea di essere nemmeno sa più di essere l’essere, l’anima ignora sé stessa, la sua realtà e crede reale solo ciò che è fuori di sé, scambia la falsa corporeità del mondo fisico per realtà indipendente e vede sé stessa e i propri contenuti come qualcosa di non reale o scarsamente reale, come immaginazioni o fantasie contrapposte alla realtà oggettiva. Le è così interdetto l’accesso a sé stessa, la retta visione di sé; l’anima aggregata a un corpo terreno ha una falsa immagine di sé, confusa dalle interferenze del sistema nervoso e dalle concezioni della cultura comune, oscillando tra materialismo pseudoscientifico e religione irrazionale, e ha perso, nella fattispecie, la “forza del sogno”, la consapevolezza di poter creare la realtà visibile come segno di sé stessa con un atto di pensiero, perché è andata persa in lei la consapevolezza del rapporto di causalità che vige logicamente tra l’essere, il pensiero, e la sua immagine, spazio materia e corpi. Quando un essere umano immagina, lo spazio terreno non riflette le sue immaginazioni, né i sistemi nervosi delle altre persone accettano fra i propri contenuti le immagini prodotte dalle nostre menti. Sicché, se io immagino una cosa, tu non la vedi e viceversa, poiché mentre siamo in stato di aggregazione siamo in balia del nostro sistema nervoso e non ci vengono comunicate che le immagini contenute nel suo spazio, e l’unica cosa che il sistema nervoso palesa nella propria immaginazione, la cui immagine è lo spazio che riceviamo noi, è la forma macroscopica associata agli aggregati di elementi atomici contenuti nello spazio terreno, che sono spiriti oscuri ipnotizzati dalle intelligenze che governano la Terra. Ne abbiamo parlato a più riprese negli scritti sulla realtà, L’Essere,l’Anima, i Mondi e il suo complemento Ritrovare Giacinto, e non mi ripeto qui, fiducioso che il Lettore, o la Lettrice, se ne ricordi o vada a rivedere quei passi. Il fatto dunque che i nostri pensieri non compaiano qui nello spazio terreno ci induce a pensare che essi e le immagini visibili che li accompagnano non siano affatto reali, perché non sono intersoggettivi, e che invece i corpi che qui vediamo non siano immagini prodotte da un’immaginazione, ma esseri indipendenti dal pensiero, anche perché tali forme macroscopiche che sono i pensieri del nostro demone, il sistema nervoso che governa il nostro corpo terreno, vengono da costui spacciati per oggetti extramentali, in quanto egli si tiene nascosto e sa occultare astutamente la loro natura di pensieri col fatto che i corpi qui non hanno nessun significato, non esprimono nulla di vero, non sono immagini di pensieri, ma dipendono artificialmente dai composti chimici presenti nello spazio terreno e non dai contenuti delle nostre coscienze o degli altri spiriti presenti insieme a noi sulla Terra. Ma nella vera realtà gli spazi si vedono reciprocamente, poiché il medesimo essere, il pensiero infinito che si conosce nella mia coscienza, si conosce anche in te e può comunicare contemporaneamente le immagini della sua coscienza che è me all’altra sua coscienza che è te, così i nostri spazi si riflettono uno nell’altro e si vedono e si amano. La monade non ha porte né finestre, diceva Leibniz, intendendo con “monade” l’anima; non ne ha bisogno infatti: ella è tutto l’essere e ha tutto l’essere dentro di sé e niente le deve provenire dal di fuori, la vera percezione è visione interiore. Ma il rapporto tra l’essere infinito, o meglio, tra l’infinita collettività di esseri in cui l’infinito si rappresenta e si conosce e l’anima individuale dovrà essere studiato approfonditamente in scritti di ontologia più avanzata. Per ora basti ciò che qui abbiamo anticipato.

 

§2.Alcune notazioni terminologiche.

§III,2.1.E così, abbiamo dato le esatte definizioni di MATERIA come immagine immanente dell’idea di essere, e cioè della coscienza che sa di essere; elemento fluido e informe, capace di ricevere tutte le forme più specifiche che si chiama anche “acqua viva” o, con un ossimoro significativo, “materia spirituale”, per distinguerla dalla materia fisica, anche se ogni atomo del mondo fisico è comunque uno spirito, e dunque anche il suo corpo microscopico è materia spirituale e dunque anche i corpi aggregati, che sono composti di atomi, sono fatti di materia spirituale. L’antitesi dovrebbe essere tra materia corpuscolare e materia semplice, non tra materia spirituale e materia fisica. Ma ci siamo adeguati a un uso comune, impiegando a volte quella dizione ossimorica, per essere meno criptici e meno settari. Le dizioni imprecise di “materia spirituale” o “corpo spirituale”, che a rigor di termini sono contraddittorie, perché abbiamo diviso la realtà in invisibile e visibile e abbiamo chiamato “corporeo” il visibile e “incorporeo” l’invisibile, sono comunque accettabili se con esse si intende la materia o il corpo prodotti dalla coscienza come suo pensiero, con un consapevole e semplice atto di immaginazione; ricordando che i prodotti del pensiero dei demoni della Terra, che porducono materia e corpi fisici, sono invece macchinazioni complesse e non atti semplici e, inoltre, quando noi ci identifichiamo con la forma macroscopica del corpo aggregato e con le sue sensazioni, non compiamo un atto consapevole, ma riceviamo tali impressioni passivamente e in maniera irriflessa dal sistema nervoso. Per questo il corpo fisico non può chiamarsi “spirituale”, e anche perché è la negazione dei veri contenuti del nostro spirito e non la loro manifestazione visibile.

§III,2.2.Ma focalizziamo l’attenzione sul fatto che abbiamo chiamato “spirituale” la realtà invisibile: spirito è il pensiero e ciò che è spirituale sono i contenuti invisibili del pensiero; possiamo chiamare spirito in primo luogo l’essere infinito, la potenza di pensare vista all’origine dei suoi atti singoli di pensiero, che siamo noi coscienze, e dunque ancora inespressa e indifferenziata: lo spirito è l’inesauribile potenza dell’essere. Ma chiamiamo spirito anche l’insieme di tutte le coscienze e l’insieme di tutto ciò che in esse è prodotto, quando sia invisibile, mentre i contenuti visibili di tutti i mondi, materia e corporeità, possono chiamarsi “manifestazione dello spirito”; e, anche se io non lo faccio volentieri, perché in questa accezione la parola “spirito” è stata troppo spesso degradata nell’ambito dello spiritismo ottocentesco e ridotta a significare “fantasma”, la parola spirito può essere usato anche come sinonimo di coscienza o anima individuale oppure per indicare il suo pensiero interiore in atto individualmente. In genere mi viene spontaneo chiamare “spirito” e “spirituale” ciò che è l’insieme di prodotti cognitivi e affettivi dell’anima, e cioè tutto ciò che rientra nel genere del pensiero, mentre chiamo “intellettuale”, “mentale” e così via solo il suo pensiero cognitivo. In definitiva, “spirito” è un termine intercambiabile con “pensiero invisibile” (ricordiamo che i pensieri visibili sono le immagini, cioè i corpi), accezione che, come si ricorderà, comprende sia i pensieri cognitivi che quelli affettivi, sicché è spirito l’intelletto, è spirito la ragione, è spirito la facoltà desiderativa e la volontà, è spirito l’amore. La dizione “mentale e spirituale” è un po’ pleonastica, ma significa “ciò che riguarda l’intera capacità umana, facoltà cognitiva e facoltà affettiva” e devo usarla spesso (per esempio quando dico che lo scopo della vita umana è l’evoluzione mentale e spirituale, rimanendo per lo più inascoltato, nell’ambiente dove vivo) in luogo del semplice “spirituale” che a rigor di termini basterebbe, perché nella cultura comune non si considera spirito l’intelletto, né l’impiego della ragione, ma solo le tendenze sentimentali irrazionali, mentre in primo luogo il vero spirito è intelletto, per noi, perché uno spirito senza intelletto non è vero spirito, ma diventa fumo.

§III,2.3.Non confondiamo le fumosità dei sentimentalismi irrazionali con lo spirito; non confondiamoci ritenendo in antitesi spiritualità e materialità, non pensiamo a questi due termini come a due poli, uno positivo e l’altro negativo: se la materia e la corporeità sono adeguata manifestazione dello spirito, materia e spirito non sono in contraddizione, ma l’immagine visibile aumenta la capacità del pensiero ed è indispensabile per l’intersoggettività. Se gli esseri non fossero mondi ma spiriti invisibili non potrebbero comunicare l’uno con l’altro, non ci sarebbe amore né vigerebbe giustizia, l’universo non sarebbe una magnifica città, quieta e splendente. La visibiltà è un bene, mentre noi gettiamo discredito sulla corporeità perché siamo abituati a considerare come veri corpi quelli fisici, che non sono un bene perché non esprimono nulla di vero sull’essere e, anzi, ci procurano molti fastidi e sofferenze, e ci rendono deboli costringendoci a identificarci con qualcosa che invecchia e muore; e, inoltre, ci obbligano a essere egoisti, egocentrici e a cadere nella meschinità, per i nostri bisogni quotidiani, fino a che sentendoci svalutati dall’essere bisognosi e pieni di desideri istintivi, animaleschi, e anche deboli, soggetti a imprevisti e a malattie e mortali, non ci ammaliamo gravemente di superbia a causa dello smarrimento del retto nostro valore: chi abbia letto attentamente La cura dell’anima sa di che sto parlando, del bisogno di ingigantire indebitamente il proprio valore con mezzi irrazionali e inefficaci che prende l’anima la quale si senta ormai svalutata per via dell’identificazione con la sua natura terrena. Essendo il corpo fonte di tutti questi mali, siamo inclini a disprezzarlo, ma se non distinguiamo la corporeità vera, e cioè la capacità dell’anima di produrre immagini di sé e divenire dunque corporea pensando le forme nel suo intelletto e immaginandole nella sua immaginazione, da quella falsa che ci imprigiona nello spazio terreno, cadiamo nell’errore di considerare un male la corporeità in sé, mentre solo la falsa corporeità, quella che genera corpi fasulli e menzogneri e che ci eclissano l’idea retta di essere conducendoci così verso la menzogna e la malvagità, è un male. I veri corpi, le vere percezioni sensibili, che arricchiscono l’essere di suoni, profumi, colori, sensazioni poetiche, sono un grande bene per l’essere, fruendo del quale siamo gioiosi e, anzi, beati. Come si ricorderà, chiamammo questo bene specifico, la manifestazione dell’essere, bellezza e chiamammo la sua eterna fruizione beatitudine o anche, col termine presente nella tradizione terrena paradiso.

§III,2.4.E così, è stato importante definire correttamente i termini OGGETTO, come l’insieme di una forma trascendente o regola di costruzione e delle infinite immagini che l’immaginazione da essa può ricavare applicando le leggi della prospettiva, e CORPO come, appunto, un’immagine prodotta dall’immaginazione che guardi l’idea,  perché così ci siamo resi conto che ogni oggetto è un insieme complesso di pensieri e non qualcosa di visibile ed extramentale, e che la parte visibile dell’oggetto, il corpo o immagine, sta nel pensiero come sua manifestazione e non è indipendente da esso, potendone così cogliere il valore. La bellezza è un valore, perché è manifestazione dell’essere, della verità, e cioè del bene. Lasceremo che i superbi avidi di profitto, gli egoisti che pensano solo alla propria comodità e così via distruggano la Terra, ove si trovano solo falsi oggetti, copie contraffatte e scadenti dei bei corpi veri generati nei mondi dello spirito; ma nessuno potrà distruggere l’eterno splendore dei veri mondi dove gli oggetti sono pensieri e sono formati di materia viva e luce delle forme.

§III,2.5.E non morirà mai la vera vita. Noi chiamiamo vita il pensiero, quando produce di sé immagini visibili e si manifesta sensibilmente; a volte, in senso lato chiamiamo vita anche il pensiero nei suoi moti invisibili, lo spirito. Questa è la vera vita, di cui il processo biologico che si svolge nella materia corpuscolare del mondo terreno è una copia contraffatta e scadente, e male fanno i Cattolici che danno valore a quella falsa proteggendo i grumi di cellule in embrione e dando loro dignità di persone o difendendo a tutti i costi (e che costi!) un organismo straziato dal male in agonia, che è un inferno per l’anima, quando invece omettono di salvaguardare il pensiero, non si preoccupano affatto che ogni persona abbia agio di sviluppare le proprie capacità logiche ed affettive, ovverosia quello spirito che è la vera vita, ma anzi sono loro i primi che le soffocano impedendo coi loro dogmi all’anima di divenire intelletto e imponendo una spiritualità irrazionale e fumosa. E avevano ragione i platonici, che avevano imparato dall’Orfismo leggendone correttamente i simboli, a considerare il corpo fisico e la vita biologica una prigione per l’anima, o una tomba nella quale l’anima è sepolta, perché in essi è eclissata ed impedita la vera sua vita ed ella vi si trova in preda all’ignoranza e alla stoltezza che sono la sua morte. Sicché i Cattolici sbagliano di grosso dando valore alla famiglia e cioè alla riproduzione della specie biologica e omettendo di ricercare la vera nascita, ignorando che essa è l’inizio della vera vita e che l’anima se la procura da sé quando, avendo confutato tutti gli errori concettuali sull’essere e sulla realtà, trova la retta idea di essere e inizia a pensare rettamente le idee e a divenire intelletto, rettificando così anche tutte le proprie tendenze affettive e ripristinando l’amore: eppure, essi trovano scritto a chiare lettere nel Vangelo (Gv.12,25) che chi ama questa vita, la vita di quaggiù, il processo biologico, perde la vita vera che è spirito, e che chi odia questa vita, la vita fasulla di questo mondo, il processo biologico, guadagna invece quella vera, la vita dell’anima che è la luce dell’intelletto riflessa nell’acqua viva, nella coscienza che si fa materia, e cioè capacità di manifestazione, e che crea i veri corpi e i veri mondi. Cristo lo disse chiaro, ma essi sanno solo idolatrare Cristo, e non lo ascoltano mai.

§III,2.6.Ancora una sola notazione terminologica, prima di passare al prossimo paragrafo che parlerà del simbolismo. Si sarà notato leggendo i miei precedenti scritti sul concetto di realtà che io ho il vezzo di usare spesso la parola “riflessione”, “riflettere”, “riflesso” per designare rispettivamente l’operazione di produrre un’immagine compiuta dall’immaginazione che legga nel proprio intelletto l’idea complessa che funge da regola di costruzione di un corpo, e, appunto, tale immagine. Spesso mi trovo a dire espressioni come: “l’immagine riflessa in quello spazio”, “il medesimo oggetto riflesso in un altro spazio” , “la forma macroscopica del corpo aggregato riflessa in un altro spazio” e così via, intendendo, ovviamente, per “spazio” l’immagine che di sé crea quella tale immaginazione della quale in quel momento sto parlando. Sono espressioni comode perché brevi e abbastanza perspicue, che rendono l’idea in maniera rapida e immediata: lo spazio è come un specchio magico che riflette l’invisibile e lo fa divenire visibile; ma usando questi termini si corre il rischio di pensare a un’operazione meccanica come quella che sembrano svolgere gli specchi del mondo fisico (e che invece, evidentemente, è anch’essa una simulazione di meccanicismo, un’operazione dei demoni), mentre bisogna sempre tener presente, quando si impiegano o si incontrano espressioni di questo tipo, che non si tratta di un fenomeno ottico governato da leggi meccanicistiche, ma di riflessione spirituale, cioè dell’operazione consapevole e volontaria di costruire un’immagine geometrica a partire dal discorso definitorio, che è un complesso di idee e che funge da regola di costruzione delle immagini di quell’oggetto. Bisogna sempre ricordare che ogni spazio è un angelo, un pensiero che pensa sé stesso, e che non esistono nei veri mondi altre leggi se non quelle che governano il pensiero, e cioè le leggi della logica e della significazione; niente accade meccanicamente nemmeno qui sulla Terra, figuriamoci là, nei mondi di pensiero. Di passaggio, approfittiamo qui per dare anche la definizione di angelo: come appena detto si chiama “angelo” ogni pensiero che pensa sé stesso, cioè ogni coscienza in grado di vedere l’idea di essere, ma il genere degli angeli si divide in due specie, quella degli angeli innocenti che non hanno mai perso l’idea di essere e sono dunque ingenui, perché non hanno mai fatto esperienza del male, e quegli angeli che dopo averla persa sono stati capaci di ripristinarla combattendo contro il male, cioè l’ignoranza e la stoltezza ingenerati in loro dall’identificazione col corpo aggregato, dall’esperienza umana: essi hanno saputo vincere la negazione del vero essere e del vero bene che si trova nel mondo terreno confutandola e ripristinando le rette idee. Questi ultimi sono le anime elette o divine, e si chiamano anche “angeli divini” o “dèi”, quando non sono incarnati sulla Terra (altrimenti basta la dizione “anima eletta”); la prima specie invece comprende le anime degli animali non umani e degli uomini allo stato primitivo o selvaggio, se mai ce ne sono ancora, e quando non sono più incarnate ma sono allo stato semplice sono piccoli angeli: con questo mi adeguo alla terminologia del Vangelo, dove Cristo parla di creature piccole i cui angeli, cioè le cui anime in stato disincarnato, sanno vedere il volto di Dio, il che è come dire che hanno ancora la retta idea di essere e dunque sanno vedere i mondi. Tale espressione però i Cattolici fraintendono completamente, pensando a bambini umani, ma sbagliano, perché questi non sono angeli piccoli ma anime involute e vecchie in un corpo nuovo: quando Cristo diceva  di lasciare che i bambini, i piccoli, gli si avvicinassero e faceva gesti protettivi verso di loro, intendeva dire che amava anche gli animali non umani. L’anima umana in via, che ha perso l’idea di essere e non è riuscita a ripristinarla nel retto modo, non è più un angelo, e si chiama, quando è in stato semplice, “anima demoniaca” perché in lei ci sono le tendenze impresse, appunto, dalle operazioni dei demoni che governano la Terra, come già accennato sopra, al §II,4.14, e come vedremo più approfonditamente nel già promesso scritto sull’umanità come malattia dell’anima; e quando è incarnata essa si chiama semplicemente “uomo”. Ma, insomma, a parte quest’ultima divagazione, tutto questo era per dire che uno “specchio”, e cioè uno spazio che riflette una forma creandone un’immagine, è sempre un angelo e la sua operazione di riflessione è un atto di pensiero e di immaginazione; non avevano torto dunque gli antichi che consideravano il cielo un dio, tanto è vero che la parola “dio” deriva da una radice indoeuropea che significa, appunto, cielo e cioè spazio illuminato. I Cattolici pensano che questa sia una concezione superstiziosa, quando, a causa della loro tenacissima superstizione monoteista e del loro insipiente creazionismo, essi stessi invece si sono resi incapaci di vedere Dio, e se ne sono creato uno finto e ripugnante che idolatrano, pretendendo di negare anche per tutti gli altri uomini la possibiltà di vedere Dio, mentre il vero Dio, il cielo dei cieli, l’insieme degli spazi luminosi e di tutti i mondi, è palese e spalancato non solo ai sapienti, ma anche a quelle anime ancora primitive ma innocenti che essi bollano invidiosamente come superstiziosi e idolatri, e persino a quelle anime la cui esistenza essi assurdamente negano, e cioè a quelle degli animali non umani. Dio accieca chi vuol perdere, dice il proverbio, e questi stolti cattolici in preda alla loro smania di superiorità, e tanto presuntuosi quanto incompetenti, sono il prodotto della peggior operazione satanica di accecamento mai occorsa nella storia dell’uomo: la religione cristiana.

 

§3.I corpi sono simboli.

§III,3.1.Ma noi non lasciamoci accecare dagli inganni dei demoni e dalle superstizioni del dogmatismo cattolico, apriamo gli occhi e guardiamo il bel volto lieto dello spirito, di Dio, l’universo dei mondi luminosi, dove si svolge serena e inesauribile la vera vita dell’anima. Che senso avrebbe costruire un corpo nello spazio, se non per significare una realtà? I corpi terreni non hanno nessun significato simbolico, ma sono costruiti in base alle sequenze di atomi e di molecole presenti nei vari composti chimici prodotti, nello spazio terreno, dal lavorio delle intelligenze che ivi plasmano gli spiriti oscuri ed incapaci di rappresentarsi rettamente trasformandoli in atomi e poi, secondo una tabella di convenzioni artificiali, li aggregano e li disgregano simulando una causalità meccanicistica; al posto di un’idea complessa concepita in modo da esprimere simbolicamente una realtà spirituale, nello spazio terreno troviamo una serie di istruzioni registrate nelle sequenze atomiche dei composti chimici, in base alle quali i nostri sistemi nervosi pensano ed immaginano una forma macroscopica, un oggetto con tutte le sue immagini calcolate secondo le leggi della prospettiva, quelle che poi tali demoni comunicano a noi di volta in volta, quando il nostro aggregato si trova nei pressi di quel tal composto chimico. Tali forme macroscopiche sovrapposte agli aggregati di atomi non hanno senso, non esprimono nulla di vero ma sono contraffazioni dei veri corpi, che sono invece prodotti dalla “forza del sogno”, e cioè dall’immaginazione che impiega un linguaggio simbolico. I sogni di quaggiù non hanno senso, nei veri mondi troviamo i sogni che esprimono la realtà; qui, dove c’è un’immagine di acqua non c’è vera acqua, quell’acqua viva di cui parlammo sopra, ma una sua copia corpuscolare e dove c’è il sole non c’è il vero sole, ma una sua copia fatta di materia atomica; né l’aria è qui aria davvero ma solo uno scimmiottamento gassoso corpuscolare della vera aria e così via. Tutti i corpi di quaggiù non sono che ombre, imitazioni scadenti e prive di significato dei veri corpi che sono i simboli del pensiero che parla di sé stesso e che in essi si esprime.

§III,3.2.Intavolerò qui il discorso solo sui simboli fondamentali, già ne incontrammo qualcuno: quello dell’acqua o elemento liquido, che è l’immagine simbolica della coscienza in quanto capace di recepire tutte le forme e quello del sole, corpo simbolico dell’intelletto, che è l’anima stessa quando pensa le idee che rappresentano rettamente l’essere, che è cioè il pensiero che rettamente pensa sé stesso; la luce, appunto, che promana dal sole è l’insieme delle idee generate dal pensiero, ovverosia dall’anima che pensando rettamente si fa intelletto. Nel vero mondo è questa luce che feconda la materia e la trasforma in corpi solidi, la cristallizza. La coscienza, infatti, in quanto è capace di pensare tutte le forme trascendenti si chiama anche ricettivo, e la sua immagine, la materia informe e liquida, si chiama anche riflessivo, perché riflette le forme (sa pensarle, cioè) e fa essere in sé le immagini visibili di esse; ma non uso volentieri questo termine che invece è caro a un certo tipo di esoteristi, perché si può far confusione con la capacità riflessiva che è lo spazio. Lasciamo dunque alla coscienza che si fa materia il nome di ricettacolo delle forme e guardiamo come ella ricevendo dal suo proprio intelletto le forme trascendenti le contiene in sé come forme specifiche e guardiamo anche come grazie alla sua immaginazione, che è rappresentata nello spazio, ella ne produca le immagini generando così il corpo solido, che è infatti la rappresentazione visibile dell’unione di questi due pensieri, l’idea generica di essere e l’idea specifica, ossia materia e forma. E’ così che la coscienza si fa fonte generatrice degli oggetti. Si sarà già notato come la nascita del corpo solido trova la sua contraffazione satanica nell’estenuante vicenda dei due sessi, del maschio che feconda la femmina per generare un figlio. Il vero principio maschile, che veramente può generare corpi, è l’insieme delle idee dell’intelletto e il grembo vero, che veramente può essere fecondato dal principio maschile per generare il “figlio”, l’ente visibile, è la cosienza che ha idea di essere e che sa riprodurre in sé anche le altre forme più specifiche: essa è il vero principio femminile, laddove il seme maschile che si trova nei genitali del corpo fisico di sesso maschile e l’organo femminile, quello di carne che sta nel corpo fisico di sesso femminile, sono di questi due principi lo scimmiottamento satanico. E il vero figlio è il corpo simbolico espresso dall’anima, con un atto di pensiero e di immaginazione, nella sua materia viva e semplice, non il nuovo organismo che si forma nella materia corpuscolare perché i demoni che governano i processi biologici imprimono una forma macroscopica nei suoi tessuti e organi servendosi di leggi convenzionali che fanno apparire come meccanicistiche.

§III,3.3.Sicché l’atto sessuale altro non è che la disgustosa contraffazione satanica, la copia scadente e ingannevole, del vero atto di fecondazione dell’anima, quello dell’intelletto che con le sue forme trascendenti produce la forma nel ricettivo (nome questo che, come appena detto, spetta alla coscienza in quanto, oltre a essere pensiero che ha idea di essere, ella è capace anche di arricchire tale idea di essere con le forme più specifiche), nella coscienza cioè della medesima anima che guardando le idee è anche intelletto. Gli esseri veri, nel mondo vero, non sono né maschi né femmine, ma possiedono entrambi i principi e sono dunque ermafroditi; l’anima è intelletto e ragione, cioè maschio e femmina, e fra le facoltà della ragione c’è la capacità di produrre una rappresentazione immanente individuale della forma universale trascendente, capacità che è, nell’immagine, la materia. Insomma, la coscienza, in quanto capacità di pensare le forme in maniera immanente è ricettacolo, mentre la medesima coscienza in quanto è capacità di pensare l’idea, e cioè la forma trascendente, è luce e principio maschile fecondatore: dall’unione dei due principi in una stessa anima nasce il corpo solido, l’anima stessa che si manifesta in maniera corporea nel suo spazio, nel suo mondo. Gli uomini, nel mondo terreno, si credono maschi perché hanno genitali maschili nel loro corpo aggregato; ma tutti coloro che non hanno compiuto la rettificazione delle idee e non sono tornati a essere intelletto, sono privi del principio maschile e hanno solo una coscienza capace di pensare e ragionare e di discorrere riflettendo i concetti errati di un falso intelletto. Costoro presumono di essere maschi, ma sono “femmine”, cioè esseri irrazionali; non è maschilismo dir così, ma è un simbolo: le persone che sembrano di sesso femminile perché nel corpo aggragato hanno genitali di tipo femminile, possono invece essere, in senso spirituale, maschi, quando abbiano la retta visione delle idee e dunque il principio maschile. Sicché è un’idiozia dire che le donne sono determinate dalla natura a essere viscerali, intendendo con questo irrazionali, e i maschi abbiano in dote, quasi fosse un istinto, l’intelletto; l’intelletto non viene per determinismo naturale, non è un istinto, né piove in capo medianicamente, per ispirazione dal cielo: esso è il frutto dell’applicazione volontaria e consapevole del metodo logico.

§III,3.4.Hanno torto dunque i Cattolici, che affidano il sacerdozio solo ai maschi, quelli che sono tali in senso fisico, ma che sono privi totalmente di intelletto perché inceppati in un dogmatismo irrazionale: tutti questi presuntuosi sacerdoti e vescovi e cardinali e papi sono invece, in senso spirituale, delle femmine prive di principio maschile, e mentre non vi è alcun discredito nell’essere femmine nel senso fisico, cioè persone con corpo aggregato che presenti genitali femminili, la mancanza del principio maschile nel mondo vero è una menomazione screditante, sicché quando quei maschi cattolici presuntuosi che si credono sacerdoti ma non hanno intelletto si sveglieranno dai sogni ingannevoli di quaggiù, avranno una bella sorpresa. Di contro, un eletto come me può manifestarsi in entrambi i modi: quando mi va sono una femmina, per significare nella mia anima la funzione ricettiva, o la capacità razionale discorsiva, e anche, in qualche mondo oscuro, per motivi strategici, mentre se voglio sottolineare il mio essere intelletto appaio sotto l’aspetto di un maschio; a volte può servire un aspetto ermafrodita. Ma a essere precisi, quando ci manifestiamo nei veri mondi, appariamo come una coppia, moglie e marito, o meglio ancora come un’intera famigliola: padre, madre e figlio, per dire così che il nostro essere è l’unione dei due principi e che sa apparire nel mondo visibile. La sacra famiglia tanto cara ai Cattolici non è quella del Gesù terreno, ma è un simbolo della sua anima eletta, e cioè completa dei due principi. E se sta nella grotta è per dire che quaggiù è costretta a vivere in stato di nascondimento, proprio a causa dei Cattolici che dominano il mondo con le loro falsità dogmatiche su Cristo e sulla verità; oppure è nella stalla, per dire che non ha trovato un luogo opportuno per depositarvi al sua dottrina, il suo corpo spirituale, il bimbo nato nuovo, ma solo anime allo stato animalesco o bestiale. Ma non voglio dilungarmi su questo, che dovrà essere materia per altri scritti, né è possibile qui esaurire l’esposizione della lingua simbolica, cosa che dovremo fare ordinatamente altrove.

§III,3.5.Basti qui aver enunciato il principio che, se ci si dà la pena di costruire oggetti nei mondi veri, è per creare simboli, non cose di un mondo esterno, e anche aver toccato di passaggio quest’argomento, il sesso dell’anima, chiarendo così che gli angeli divini e le anime elette sono ermafroditi, mentre gli esseri umani irrazionali o pseudorazionali, di qualunque sesso appaia il loro corpo fisico, sono tutti delle femmine, e aver dato così un’idea di come il mondo vero, quello dove i corpi sono simboli adeguati a ciò che esprimono, sia occultato dal mondo fisico, che è il mondo delle maschere, un carnevale dove tutti sono folli e si credono quello che non sono, e non sospettano neanche di essere ciò che realmente sono: il mondo fisico è il rovesciamento completo della vera realtà.

§III,3.6.Tutte queste nozioni sono fondamentali per l’anima che voglia recuperare la sua “forza del sogno”, la capacità di creare da sé il proprio mondo; ma, prima ancora, servono all’anima che voglia recuperare la propria capacità di riconoscere e capire ciò che sta vedendo quando è libera e riceve le immagini dei veri mondi: questa capacità di connettere rettamente il visibile all’invisibile  è  la chiave per accedere alla conoscenza della vera realtà, ed è anche la chiave del paradiso. Poiché non vedi realmente quando ricevi solo l’immagine, ma la percezione sensibile da sola non è vera visione: per poter dire di aver visto veramente devi anche aver visto il significato del corpo simbolico, devi aver visto l’essere invisibile. Senza la capacità simbolica questo è impossibile; ed è impossibile procurarsi la capacità simbolica se si ignora la natura spirituale dei veri corpi, e quando addirittura si nega la loro realtà e li si chiama sogni o allucinazioni. Ora le porte della vera realtà e del paradiso sono interdette agli uomini, perché quando hanno visioni in genere credono di essere malati di mente, di avere allucinazioni o di stare sognando; oppure cadono nel misticismo irrazionale perché interpretano male quello che vedono. Chi invece abbia compreso e accettato la precedente materia non si lascerà fuorviare da un falso concetto di realtà e guarderà ai contenuti della sua coscienza come alla vera realtà, imparando gradatamente a comprendere il loro significato invisibile e cominciando dunque a vivere veramente. Dicemmo, infatti, che la vera vita è il pensiero che pensa sé stesso e si trova nel vero mondo a produrre immagini di sé, con atti consapevoli della propria immaginazione, e ricevendo le immagini prodotte dal pensiero di tutte le altre anime; dicemmo che la fruizione della bellezza, che è l’immagine visibile del bene, cioè della verità che è l’essere che pensa rettamente sé stesso tramite le idee, ed è la somma dei mondi che manifestano il pensiero delle infinite anime, è beatitudine, e che il nome storico della beatitudine è “paradiso”. Perciò dico che comprendere quanto sopra dicemmo sulla vera materia e i veri corpi e sull’autonomia dell’anima che da pensiero di sé può farsi spazio, materia, corpi e mondo è la chiave per entrare in paradiso. Vuoi essere paradiso, caro Lettore o cara Lettrice? Una volta compresa tutta questa materia che stiamo svolgendo, sarai paradiso insieme a me e a tutti gli altri mondi la cui manifestazione è appunto quella bellezza che noi chiamiamo “paradiso”.


LIBRO IV.

 

IDEE, DESIDERI E GIUDIZI: L’ANIMA COME VOLONTA’.

 

 

 

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI:

 

Il recupero di un’antica parola: “amore”, che era andata persa a causa dei significati errati che nella cultura comune le sono attribuiti, motivo per cui ci eravamo trovati costretti a sostituirla con la dizione “forma eletta” (§§IV,1.1-4).

 

Le specificazioni del genere dell’amore: desiderio di bene, sentimento rivolto al bene, volontà di bene (§§IV,2.1-3).

 

Definizione di “volontà” (§IV,2.4). L’intelletto è eterno, la volontà contingente (§IV,2.5). Definizione di “movente”, “fine” o “scopo” (§IV,2.5). Definizione di “velleità” (§IV,2.17).

 

Il calcolo che fa la volontà per scegliere un fine e muoversi (§§IV,2.7-9). L’anima eletta è un’anima semplice, ma nel nostro senso del termine: il semplice non è il sempliciotto (§§IV,2.10-11); è l’anima sapiente a essere realmente semplice (§IV,2.11) ed anche pura (§IV,2.12). Descrizione sommaria della sua facoltà deliberativa (§IV,2.13). Il movente principale dell’anima eletta è capire l’uomo, il suo male, la sua malattia, ma con studi seri e non con i facili e infondati metodi della psicoanalisi: innanzi tutto ricostruendo i motivi storici e culturali delle forme mentali errate(§§IV,2.14-15).

 

Volontà del fine e volontà dei mezzi: il dovere (§IV,2.6; §§IV,3.1-3; è sbagliato assolutizzare il dovere, cioè imporlo come fine, chiamando “dovere” ciò che serve alla specie e spacciandolo per volontà divina, facendo credere che sia il mezzo per ottenere il paradiso: §IV,3.2). Il concetto di “sacrificio” (§IV,3.3) e polemica con i Cattolici per il loro concetto sbagliato di sacrificio (§IV,3.4). Il dovere è sempre verso noi stessi, mai verso gli altri perché è il mio fine che tutti abbiano il bene e il dovere è dunque quella serie di mezzi che servono per realizzare il mio fine e appagare il mio desiderio, non quello di un altro (§§IV,3.5-6). Noi rifiutiamo i modelli morali correnti fra Cattolici e materialisti (§IV,3.6).

 

Due possibili modi di essere in rapporto con la volontà divina: o si è in accordo e cioè in comunione con l’Assemblea delle anime divine, o si è in disaccordo ed estranei ad essa (§IV,4.1); polemica coi Cattolici che pretendono sia possibile essere sottomessi alla volontà divina senza conoscerla, cioè ignorando che cos’è la giustizia (§§IV,4.2-3) e monito al cattolico accidioso, che pretendendo di sottomettersi alla volontà divina con la sua osservanza irrazionale e la sua morale sbagliata cade invece nel sacco di Satana, e ben gli sta (§§IV,4.4-6). Sei in comunione con Dio e hai la sua stessa volontà quando vuoi il bene e la giustizia, ossia quando sei intelletto che vede la verità e vuoi che il medesimo bene, essere intelletto che vede la verità, spetti a tutte le anime (§IV,4.6).

 

Se la volontà di bene è amore e se la volontà di bene è amore in azione per realizzare il bene, visto che la realizzazione del bene si chiama “giustizia” e dunque la volontà di bene è giustizia, la giustizia è amore (§§IV,5.1-2). Sulla Terra questo tipo di amore è “lotta contro il drago”, cioè contro il falso sapere che ammala l’anima, quello che si fonda sui concetti errati di essere e di realtà ricavati dall’ingannevole esperienza terrena (§IV,5.1).

 

Il vero concetto di “libertà”: è l’intelletto a essere libero se è sgombero da errori concettuali, e cioè libero dal male, non la volontà: la volontà è sempre determinata da una causa, che è ciò che, tramite un giudizio, ella elegge come movente (§§IV,5.3-6). Enunciazione della seconda legge della nostra psicologia: la volontà è sempre determinata da una causa (§IV,5.8). Polemica contro il concetto di “libero arbitrio” dei Cattolici (§§IV,5.9-10).

 

Per analizzare realmente un’anima occorre risalire dalle sue azioni ai suoi moventi, per capire in base a quale concetto di bene ella tragga i suoi giudizi e scoprire dunque quali tendenze abbia in sé, e questo è l’unico modo per correggerle (§§IV,5.6-7).

 

L’intelletto che sia libero dal male, i concetti falsi, si dice anche “sano”: tale libertà che si ottiene mediante la confutazione dei concetti errati è la condizione necessaria per sradicare la tendenza alla colpa (§IV,5.4; §IV,5.7).

 

Polemica con gli psicoanalisti per l’infondatezza dei loro presupposti (§IV,5.11); essi hanno un falso concetto di salute e normalità (§IV,5.12).

 

L’autonomia dell’anima (§IV,5.10; §IV,5.13; §IV,5.17). I guasti prodotti nell’anima dall’ignorare la propria autonomia (§§IV,5.13-16). E’ importante che l’anima ritrovi la propria autonomia: se non sa di averla, non può usarla e se non impiega la propria autonomia, rimane inerte e ristagna nella forma errata (§IV,5.13). Importanza dell’autonomia, del libero pensiero per arrivare a liberare dal male, che è ignoranza e stoltezza, carenza nelle rappresentazioni concettuali, il proprio intelletto (§IV,5.17).

 

Il nostro concetto di libertà e di salute dell’anima (§§IV,5.18-19). L’anima libera dal male è anche giusta e la sua volontà è sovrana (§IV,5.20).


E così la nostra logica, mostrandoci le idee, ci ha portati in paradiso. Se i nostri mondi sono il paradiso è perché sono la manifestazione del bene, il che è come dire che là, nei nostri mondi e paradisi, il male non c’è. In essi, infatti, si trova soltanto la manifestazione dell’anima che sia sana, che abbia in sé solo tendenze razionali, che sappia cioè provare soltanto desiderio di vero bene e che provi gioia e approvazione solo per il bene; avevamo designato, come il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, l’insieme di queste tendenze razionali col nome di “forma eletta”, ma ora che abbiamo rettificato le idee e ridefinito rigorosamente i termini, possiamo recuperare un’antica parola che può  designare la forma eletta: AMORE.

 

§1.L’amore. Dal desiderio alla volontà.

§IV,1.1.Abbiamo già detto sopra (cfr. §I,1.5) che il desiderio di bene si chiama “amore” e che il sentimento di gioia e di approvazione che si prova quando il bene è già presente, parimenti, si chiama “amore”. Sicché, quando l’anima è intelletto e conosce dunque la retta idea di essere e sa, di conseguenza, che cos’è il bene, visto che è bene l’essere, per il nostro Primo Assioma (cfr.§I,3.1) giudicherà rettamente ciò che è bene e ciò che non lo è e tenderà quindi a desiderare solo ciò che è veramente bene e a provare soddisfazione e gioia solamente per ciò che è il vero bene, il che è come dire che tenderà ad avere solo sentimenti e desideri razionali. Dicemmo sopra (cfr. §I,4.8) anche che l’insieme delle tendenze razionali si chiama “forma eletta”; ma poiché i desideri di bene si chiamano “amore” e i sentimenti di gioia per il bene si chiamano anch’essi “amore”, anche le tendenze a provarli si possono chiamare AMORE. Sicché l’anima che sia intelletto, è anche amore; anzi: se e solo se l’anima è intelletto, ella è anche amore. Ricordiamo dunque che ciò, che prima chiamavamo “forma eletta”, ora possiamo tornare a designare col nome suo più appropriato, quello di “amore”.

§IV,1.2.Sono stato obbligato a usare delle espressioni diverse e meno semplici per un motivo preciso: se avessi detto senza altre spiegazioni che l’anima sana è quella che possiede intelletto e amore, non mi avrebbe capito nessuno, perché oggi si chiama “intelletto” quello che non è realmente tale e si chiama “amore” quella che ne è la copia scadente e contraffatta: se per intelletto si intende quello falso dei razionalisti e per amore una serie di sentimenti irrazionali o addirittura l’istinto sessuale, l’asserzione che l’anima sana è intelletto e amore diventa incomprensibile e perfino risibile. Forse qualcuno avrebbe capito che anche noi, come gli psicoanalisti, pensiamo che la misura della salute di un’anima sia proporzionale all’intensità dei suoi sfoghi sessuali; ma a questo punto si sarebbe chiesto che c’entra l’intelletto. E le persone religiose avrebbero pensato che far dipendere l’amore dall’intelletto è una contraddizione, perché è in voga in quegli ambienti la convinzione che più uno è intellettuale e colto, più è freddo e meno è capace di amare. Questi intendono per “amore” la disponibilità ad annullarsi e umiliarsi davanti alla volontà di Dio, quella che loro spacciano per tale, che è tutto l’incontrario di ciò che un’anima fa quando si è procurata il vero intelletto. Oppure, in ambiente cattolico si considera amore la disponibilità verso gli altri sul piano pratico: “spendersi per gli altri” è la dizione in voga oggi tra persone di chiesa. In primo luogo intendono la disponibilità a metter su famiglia e a dedicarsi alla riproduzione della specie, cosa che abbiamo dimostrato essere un grossolano errore, perché abbiamo dimostrato sopra, nel libro III, con i nostri concetti rettificati di materia e corpo e di anima come fonte della visibilità, che la vera vita non è il processo biologico e che questo non è il bene, ma una sua copia contraffatta che tiene lontana l’anima dalla vera vita e la rende morta. Nel migliore dei casi codesti cattolici intendono per “amore del prossimo” la disponibilità a prodigarsi per gli svantaggiati, recando loro aiuto e sollievo, ma neanche questo è il vero bene del prossimo, perché essi si prodigano per l’utile del corpo fisico e non danno il vero bene, che è la guarigione dell’anima, a queste persone, al massimo procurano loro un po’ di sollievo. E non sempre lo fanno per amore, ma spesso solo per “piacere a Dio”, cioè per un fine egoistico.

§IV,1.3.Oppure, fra la gente comune si scambia per amore un sentimentalismo irrazionale, un amore falso e scadentissimo, che produce solo danni: troppe persone considerano amore la disponibilità ad assecondare il prossimo in tutto e per tutto e considerano buono e capace di amare solo chi accontenti continuamente tutte le loro pretese illegittime, tutti i loro capricci, tutte le loro presunzioni. Costoro pensano che tutti i sentimenti negativi, quelli di disapprovazione e di sdegno, siano dei mali, li scambiano per segni di ostilità, e ti chiedono dunque di essere incapace di giudicare e percepire correttamente il male e di provarne sofferenza e di andare in collera per esso. Pretendono che tu accrediti loro capacità e meriti che non hanno, che tu legittimi le loro smanie di dominio e di prevaricazione, la loro invidia verso il prossimo, la loro incapacità di tollerare chi faccia loro da termine di confronto e così via; tanto è vero che da alcuni anni è in voga un termine ributtante per designare questo tipo scadentissimo di sentimento che loro chiamano erroneamente amore: “complicità”. “L’ho lasciata, perché non c’era più tra noi quella complicità che c’era prima” si sente dire, a volte. Ti vogliono complice dei loro misfatti e guai se li giudichi rettamente e fai notare i loro torti: la severità è per costoro cattiveria, e chi giudica rettamente è per costoro una persona fredda e antipatica, da evitare. Ma se io veramente ti amo, desidero il tuo bene, per definizione, e dunque non potrò avere la tendenza a farti contento in tutto, anche nelle tue pretese illegittime, che sono vizi, alimentandole coll’assecondarle, perché una tendenza che venga soddisfatta si rinforza e si radica di più. Essere viziati è un male e dunque se io desidero il tuo bene non devo avere la tendenza ad assecondarti in tutto, perché non è questo il bene, essere contento irrazionalmente anche dei mali, ma se proverò sentimenti negativi verso il tuo comportamento sbagliato, ti procurerò la spinta a correggerti, una volta che tu ne prenda atto, ed è questo il vero amore: anche la severità è amore, se è fondata razionalmente. Vedemmo nel corso dei nostri studi passati che fra le azioni buone che si possono compiere è fondamentale quella di disapprovare il male e, percependolo correttamente come male, soffrire per esso, per esso andare in collera e sdegnarsi, perché questa è la forza che può produrre redenzione anche nei più refrattari.

§IV,1.4.La forma eletta non è, dunque, quella dell’anima che possieda l’amore in questi sensi errati, ma nel nostro: per noi l’amore è desiderio di vero bene, cioè della verità e della vera vita che è manifestazione della verità. Per noi il bene è pensiero che pensa sé stesso e che dunque rappresenta in sé la verità, perché non è vero pensiero e vero essere un pensiero che di sé rappresenta il falso, sicché l’amore è desiderio di verità e che tutti gli esseri siano verità e che tutti gli esseri accedano alla vera vita, che è il pensiero quando riflette in sé e specchia nel suo spazio la verità; e noi non facciamo altro se non impegnarci con tutte le nostre forze per realizzare e difendere la verità in noi stessi, prima di tutto, e, quando questo sia possibile, negli altri. E’ l’intelletto, dunque, che mostrandoci l’idea di bene come essere, e cioè come pensiero e verità, ha prodotto in noi questo amore, quello vero, che è anche la vera forma eletta, mentre non è amore quello prodotto dalle false idee di bene, quello cioè di chi non è realmente intelletto perché ha smarrito l’assioma originario, l’idea retta di essere e ha dunque in sé solo concetti errati, fondati sulla concezione di un essere falso e desidera dunque i beni falsi alimentando un falso amore.

 

§2.Definizioni e terminologia. Descrizione della volontà retta.

§IV,2.1.Ora, per chiarire a noi stessi questa facoltà, l’amore, che è la nostra elezione, la sua forza e la nostra capacità di realizzarlo, esaminiamo con rigore la terminologia: occorrono infatti gli strumenti, concetti e termini, per soddisfare il nostro desiderio di bene, e per gioire del bene condiviso, appagare cioè il nostro amore. Ricordiamo innanzi tutto che la realizzazione del bene si chiama GIUSTIZIA, e che con “giustizia” possiamo designare sia uno stato di cose in cui il bene sia già stato realizzato (quando, per esempio, diciamo: “nei veri mondi vige giustizia”), oppure quella tendenza, il desiderio di condividere il bene, che sa farsi virtù trovando i mezzi per realizzare il bene anche nelle altre anime; è giustizia anche, già lo dicemmo (cfr. supra, §II,5.10), la capacità di enunciare giudizi di valore retti, che sono mezzi per imparare a riconoscere e scegliere il bene e il giusto e a scartare il male e l’ingiustizia.

§IV,2.2.Ora dall’amore e dalla giustizia arriviamo a guardare la volontà: in effetti, ci serviamo di retti giudizi di valore quando vogliamo passare all’azione. Si sarà notato che poche righe sopra ho chiamato l’amore “facoltà”: finora avevamo detto che è amore il desiderio o il sentimento razionale, ma adesso possiamo passare a vedere l’amore come facoltà. Quando l’amore passa all’azione è facoltà, e quando l’amore è facoltà, si chiama anche volontà.

§IV,2.3.Se l’amore è tendenza a desiderare il bene, e se ogni singolo desiderio di bene è un atto d’amore; se l’amore è anche tendenza a provare sentimenti positivi per un bene presente, e ognuno di questi sentimenti è un atto d’amore, quando l’amore si mette a produrre decisioni e azioni si chiama volontà, e ogni suo singolo atto si chiama volizione; ogni volizione, se non ci sono ostacoli in mezzo, produce un’azione. Dunque ricordiamo che è amore anche la volontà di bene, e ogni azione voluta, che sia rivolta al vero bene, è un atto d’amore.

§IV,2.4.Dunque la nostra definizione di volontà è la seguente: volontà è la facoltà che ha l’anima di mettere in atto nell’immediato quel desiderio che sente come più impellente e realizzabile. Essa è dunque la facoltà di scelta fra vari possibili, che l’anima esercita sui propri desideri nell’atto di realizzarli. Insomma, si esercita la volontà quando ci si chiede: quale desiderio è di prima istanza realizzare in questo momento? Il che è come dire: quale bene realizzabile giudico più grande e importante ora?

§IV,2.5.Notiamo dunque che mentre l’intelletto è eterno, è l’eterno atto di pensare le idee, che sono verità necessarie e dunque non si modificano mai, la volontà invece si esercita nel tempo, e, se tale facoltà è latente nell’anima sempre e infinitamente, però i suoi atti sono contingenti. Ciò che fa muovere la volontà si chiama movente: questo è il nome di quella cosa che l’anima sente come bene e della quale desidera la realizzazione prima di tutto. Subito ci si presenta una divisione nel genere dei moventi, che lo divide in due specie: l’anima può essere mossa da due tipi di desideri, può desiderare cioè di procurarsi un bene, oppure può desiderare di eliminare un male. Quando l’anima sceglie uno dei suoi desideri per metterlo in atto, ciò che desidera si chiama anche fine o, che è lo stesso, scopo. Chiamiamo movente, fine o scopo, dunque, ciò che l’anima ha sentito come bene e ha deciso di realizzare prima di tutto; l’atto con cui la volontà sceglie il desiderio da realizzare in prima istanza si chiama volizione, o anche decisione, oppure deliberazione: sono questi i nomi che si usano per designare l’atto di formulare una scelta compiuto dalla volontà. La volizione è l’atto preliminare dell’azione.

§IV,2,6.L’azione è dunque l’ultimo esito di una lunga serie di eventi che la causano: innanzi tutto il desiderio, che dipende a sua volta dal concetto di bene che l’anima ha in sé perché, come dicemmo, l’anima desidera ciò che sente come bene, sicché assieme al desiderio agisce sempre un giudizio più o meno esplicito e ben formulato; poi occorre una valutazione sull’urgenza della realizzazione di questo desiderio e sulla sua possibilità nella situazione corrente; vi è quindi la formulazione della volizione e infine l’azione. Ma tra volizione e azione ci possono essere delle fasi intermedie, quando ci sono degli ostacoli e quando occorre, per realizzare quel desiderio che è diventato volizione, operare per procurarsi i mezzi indispensabili per realizzarlo. Allora la volontà deve mutarsi in capacità strategica: ella si scinde in due forze, il volere rivolto al fine e il volere rivolto ai mezzi per arrivare a tale fine. Sono due tipi diversi di volontà e di volere, ma in italiano vengono designati dallo stesso termine, il che a volte può ingenerare confusione; se parlassimo in greco antico, troveremmo invece due lemmi distinti, poiché in quella lingua il volere rivolto verso il fine si designa col verbo boulomai, mentre il volere rivolto ai mezzi si esprime con la parola thelo. Se ne disquisirà più oltre, in questo medesimo libro, in un paragrafo apposito (cfr. infra, §IV,3).

§IV,2.7.Notiamo un’altra cosa importante. Dicemmo che la volontà è la facoltà di scegliere quale desiderio sia di prima istanza perché più urgente e realizzabile, dunque ci vogliono due requisiti perché un desiderio diventi atto di volontà, e cioè volizione: in primo luogo che sia urgente, in secondo luogo che sia realizzabile, poiché è inutile muoversi dietro a desideri irrealizzabili. Dunque la volontà, per essere corretta dal punto di vista strategico, deve saper distinguere ciò che è possibile da ciò che è impossibile e deve produrre volizioni che siano un buon compromesso tra l’urgenza e la realizzabilità.

§IV,2.8.Dunque, quando un desiderio è realizzabile ma non urgente perché ce ne sono altri che hanno maggior peso, la volontà lo relega in seconda istanza, lo accantona sospendendone tempotaneamente la soddisfazione e rimandandola ad altri tempi; per esempio: certo che anche a me piacerebbe diventare ricco, ma è più urgente occuparsi della verità e del tentativo di condividerla: anch’io avrei potuto dedicarmi all’arricchimento, ma non l’ho fatto, non perché io sia uno sciocco incapace, come credono tutti quelli che mi stanno intorno, i quali non sanno cogliere la visione della verità come fine sommo e dunque non capiscono perché uno dovrebbe rinunciare a quello che per loro è il bene più importante, il benessere materiale, e pensano che io sia un anormale perché ho fatto così, bensì, appunto, perché sentivo come desiderio di prima istanza, innanzi tutto, procurarmi la verità e poi come nuovo desiderio urgente e (a torto o a ragione) realizzabile quello di fermarmi a scrivere le dottrine così ottenute in modo chiaro e sistematico per avere almeno la possibilità di appagare questo tenacissimo e forte desiderio, quello di condividere il bene con più persone possibile.

§IV,2.9.Ecco un altro elemento che appare: quando l’anima non sa decidere niente di definitivo sulla possiblità o l’impossibilità di realizzare il proprio più forte desiderio, ella fa un altro calcolo, cioè valuta che cosa perderebbe se rinunciasse a tentare di realizzarlo, nel caso che invece fosse stato realizzabile, e che cosa rimetterebbe nel tentativo di realizzarlo, qualora poi dovesse scoprire che il desiderio era invece irrealizzabile, scoprendo così che tutte le energie che in esso ha investito sono andate sprecate. Il calcolo si fa più complicato. A volte entrano in gioco desideri collaterali, e cioè spinte e controspinte: se uno, per esempio, è ancora legato al desiderio di approvazione sociale può vedere complicata la propria strategia perché nel mettersi in azione per realizzare il proprio desiderio fondamentale può trovarsi in contrasto con questo desiderio di avere una buona reputazione, e quindi trovarsi inceppato qualora questo ultimo desiderio sia più forte. L’azione umana è il risultato di una complicatissima composizione di forze: istinto e altre ispirazioni di questo genere, spinte culturali, e cioè quelle che provengono dal moralismo in voga e dal sistema di valori corrente, e le ambizioni istillate nell’anima dal comune metro di giudizio che reputa un uomo stimabile e di valore secondo criteri che dipendono dalla mentalità dell’epoca, tutte forze queste che soffocano e inceppano i desideri individuali dell’anima, le sue aspirazioni più sincere. Ma questa è patologia dell’anima e la studieremo analiticamente nella sede opportuna: nell’eletto tutte queste forze sono state disinnescate, perché egli ha confutato i falsi valori della società terrena, non ha desideri di falsi beni come il benessere materiale, essere attraente per l’altro sesso (o per il medesimo), metter su famiglia e riprodursi, fare successo ottenendo un ruolo lavorativo di prestigio, esibire lussi in ambiente mondano, procurarsi divertimento e così via; l’eletto, inoltre, non ha punti di alienazione del valore, che sono i mezzi con cui l’uomo che ha smania di ingigantirsi appaga la propria superbia: egli conosce il proprio vero valore e dunque non ha nessun bisogno di ingigantirsi con mezzi irrazionali e non consuma la sua vita in cerca di quelle soddisfazioni che servano a tale scopo. E del giudizio di chi gli sta attorno, visto che per lo più nelle società terrene i giudizi sono tutti irrazionali perché fondati su concezioni sbagliate di bene, non glien’importa un bel nulla, anche se per il disprezzo degli altri è capace di soffrire; ma essendo  tale sofferenza razionale, essa è un bene e l’eletto la sa sopportare.

§IV,2.10.Sicché, nell’eletto il desiderio è uno solo: trovare e condividere il bene, che è la verità, ciò che rende l’essere, il pensiero che si pensa, realmente tale e che è dunque la sua vera vita. Tutto ciò che desideriamo e vogliamo è portare noi stessi e quante più possibili anime compagne alla vita vera dei mondi e alla felicità, alla  loro beatitudine. Non c’è complicazione nella nostra anima, non ci sono grovigli di tendenze contraddittorie e una volontà oscillante, confusa e debole, come nelle anime in via: il nostro amore è come un raggio laser potentissimo indirizzato a un fine solo, e i suoi moventi sono solo quelle cose che l’aiutino a realizzare questo fine. Detto in una parola, la nostra anima è semplice.

§IV,2.11.“Anima semplice” nel mondo terreno viene considerato un insulto, perché si scambia l’incapacità e l’ignoranza, o l’ingenuità, per semplicità, e dunque anche questo di “semplicità” è un concetto da recuperare e rettificare con una definizione rigorosa, anche perché i Cattolici, che pure danno alla semplicità un valore positivo, ne hanno storpiato e offuscato il significato intendendo per semplicità la credulità del sempliciotto, la mancanza di senso critico dell’anima completamente carente di istruzione, e che abbia la tendenza a essere sufficientemente umile, ammirata e sottomessa di fronte ai cosiddetti dottori di Santa Madre Chiesa e incline a dipendere dai loro offici e dai loro riti. Ma è errato confondere il semplice con il sempliciotto: è semplice l’anima veramente sapiente, quella che essendo intelletto ha dunque in sé la retta idea di bene e, di conseguenza, sentendo come bene solo ciò che è realmente tale, desidera e vuole una cosa sola, il bene vero, ed è perciò semplice nel senso che il suo desiderio non è scisso in mille rivoli, non c’è in lei una molteplicità di tendenze, di legami con i falsi beni aggrovigliati perché in contraddizione tra loro, come avviene invece per lo più nell’uomo in via che non ha chiarito a sé stesso l’interno della sua anima e non conosce il vero scopo della sua vita, che è liberarsi dal male, l’ignoranza dell’essere e di sé, e raggiungere il bene, arrivare cioè a essere intelletto e amore. L’ignorante, e ancora di più lo stolto, ben lungi dall’essere semplice, ha una molteplicità di tendenze desiderative: il suo desiderio è scisso verso una pletora di falsi beni e produce in sé attaccamenti numerosissimi e subisce molte spinte dall’esterno, è in balia dello spirito della specie, della cultura dominante e di sé stesso, cioè della propria smania di ingigantire il proprio ego e tutte queste forze lo travagliano e lo lacerano, essendo spesso origine di contraddizioni che rendono l’anima incoerente, troppo spesso in disaccordo con sé stessa e scontenta di sé. L’anima realmente semplice, invece, che è sapiente e cioè è intelletto e amore, è contenta di sé e mai incoerente o scissa: ella è la forma che ha eletto di essere, si è scelta e si approva ed è d’accordo con sé stessa. Perché, ricordiamolo, per noi essere eletti non vuol dire che un Dio sommo misteriosamente ha deciso di raccattarci dal fango della natura umana, conferirci miracolosamente doti soprannaturali, e accollarci una missione tipo salvare l’umanità in un momento con qualche rito, o cose del genere: noi ci consideriamo eletti perché ci siamo scelti da noi stessi, abbiamo scelto che forma avere, e una volta impressa tale forma nella nostra anima, scegliamo noi stessi e cioè ci piace essere così: io mi sono eletto, nel senso che scelgo me stesso per essere, voglio essere così, è stata la mia volontà a procurarmi questa forma. E se viene qualcuno a dirmi che dovrei essere diverso da come sono, in genere gli rispondo che, se non gli piaccio, si volti da un altra parte e guardi altrove.

§IV,2.12.L’anima semplice e pura non è dunque quella dell’ingenuo credulo, ma quella del sapiente: se per semplicità intendiamo, come detto, la mancanza di complicazioni nel desiderio e la coerenza nella volontà, per purezza intendiamo due cose, e cioè, in primo luogo, lo stato dell’anima che si è liberata, per mezzo della confutazione logica, di tutti gli errori concettuali, che sono le uniche vere macchie che possono rendere l’anima impura, condizione questa indispensabile per essere semplici nel nostro senso del termine e alimentare una volontà retta; in secondo luogo, si può parlare anche di purezza di intenti, usando la parola “purezza” come equivalente di rettitudine e semplicità. E’ puro chi non ha secondi fini, non ha, oltre alla volontà di bene che è vero amore, anche volontà di esaltazione di sé o altri fini egoistici.

§IV,2.13.La facoltà deliberativa dell’eletto è tutta allineata verso un punto solo, verso un unico scopo, e chiara e precisa è la sua volontà: nessun desiderio terreno è di prima istanza per lui, se non quello di provvedere ai bisogni minimi della sopravvivenza nel corpo aggregato, quando sia necessario rimanere nel mondo terreno per qualche scopo importante; e non vi è in lui alcun desiderio di soddisfazione narcisistica, non c’è superbia nella sua anima, perché, come dicemmo, non ha nessun bisogno di ingigantire il proprio valore indebitamanete, e non ha dunque bisogno di trovare i mezzi per conferirsi un valore spurio e illegittimo, visto che conosce il suo proprio valore vero e legittimo, sicché nessun desiderio maligno e invidioso o prodotto da gelosia può divenire di prima istanza nella sua anima: nemmeno c’è, figuriamoci se può venire in prima istanza un desiderio che nemmeno esiste. Dunque l’eletto non compie mai azioni colpevoli, quelle che seguano alle volizioni prodotte nell’anima dai desideri irrazionali quando diventano di prima istanza,  cioè quando l’anima li sente impellenti innanzi tutto e realizzabili, perché nella sua anima i desideri irrazionali sono assenti. Noi abbiamo solo desideri del vero bene, e per noi è impellente realizzare una sola cosa, il bene, e noi sentiamo come bene una cosa sola, il pensiero con la sua vita, che è verità e rappresentazione della verità e niente altro; dunque le nostre volizioni riguardano solo tale fine e i mezzi che ci consentano di realizzarlo, altri desideri non ne abbiamo, altre azioni non compiamo se non quelle determinate da tali desideri quando diventino immediatamente urgenti e realizzabili a breve termine.

§IV,2.14.Certo, anche noi desideriamo provvedere all’utile e al benessere del nostro corpo aggregato, considerando un bene anche la sopravvivenza nel corpo fisico e la sua salute, perché sopravvivere nel mondo terreno è un mezzo indispensabile per osservare il male e capirlo, e per comunicare con gli altri uomini; e desideriamo anche qualche momento di sollievo dalla cupezza di questo mondo dove non compare nulla di bello e dove il bene è assente, dare ristoro alla nostra anima con qualche divertimento, confortarci con qualche comodità o con qualche sensazione poetica; ci piace ridere, distrarci un po’, svagarci e stare sereni. Ma questi bisogni vengono da noi ridotti al minimo perché tutte le nostre energie siano rivolte a quell’unico fine che ci interessa, trovare i mezzi per condividere la verità e realizzare la giustizia, lo stato in cui tutte le anime possano fruire eternamente del bene, cioè siano in quello stato che abbiamo chiamato felicità, e della bellezza, e siano così anche beate. Insomma, il nostro unico scopo è il paradiso di tutte le anime. Quello che ci occorre per arrivare a questo fine è capire perché gli uomini omettono di cercare il bene, di impegnarsi nel trovare la verità  e perché, quando gliela indichi, la rifiutano e non ti ascoltano e, anzi, spesso o quasi sempre ti insultano e ti azzannano. La malattia è tenace nell’anima e i motivi di questo non si trovano solo nell’anima individuale, ma sono storici, perché l’anima assorbe i sistemi di idee che la invadono dalla cultura comune dominante, che è prodotto storico; a meno che non si dia a diverticoli collaterali, ma allora bisogna indagare pure quelli. Dopo aver procurato il bene a noi  stessi e cioè aver guardato la verità e i mondi veri, ci occorre dunque scrutare la storia, l’avvicendarsi di avvenimenti e di idee nel corso della nostra esperienza umana, studiare le manifestazioni della malattia nella speranza di trovarne le cause: la malattia è tenace e radicatissima e scrutare i sistemi di idee errati e gli errati sistemi di valori da cui si alimenta la volontà malvagia, quella che mette in atto volizioni insensate e deleterie prodotte da desideri stolti di beni falsi, e darsi la pena di confutare gli errori concettuali che ne stanno alla base, è l’unico modo per entrare nel cosiddetto groviglio inestricabile dell’animo umano, estricarne gli attaccamenti che alimentano le azioni distruttive e finalmente sradicare il male. Non è vero che l’animo umano è un groviglio inestricabile: dicono così gli accidiosi che rappresentano questa istanza impellentissima come irrealizzabile per avere il pretesto di esentarsi dall’impegnarsi a realizzarla, mentre con la buona volontà l’animo umano, per groviglio che sia, si estrica eccome, e si guarisce anche.

§IV,2.15.Insomma, se un’anima è davvero eletta, se davvero è intelletto e amore, ha anche la passione per l’umanità e per la sua storia e non si esenta certo dall’impegnarsi con tutte le sue forze a studiarla e capirla. Le nostre azioni, prodotte da una tale volontà di condividere il bene e di trovare quindi il modo di convincere l’anima umana ad accettarlo, sono dunque semplicemente degli studi: studi di filosofia, studi di tutti i pensieri errati che si sono presentati nella storia, osservazioni di tutti i tipi di pensiero in voga, anche di quelli più deboli e bizzarri, onde procurarci la capacità di confutarli logicamente tutti e di capire i motivi che li hanno prodotti e che li rendono tenaci; studi anche delle azioni umane e dei loro moventi, delle ideologie che le producono e che hanno portato a quelle vicende storiche disastrose piene di violenza e di sopraffazione che rappresentano per noi le fasi acute dello scatenamento del male, che sono il vistoso sintomo del dominio del male. E’ solo così, vedendo l’anima individuale nella sua dimensione storica e culturale, trovando la radice storica e culturale della malattia, e distinguendo rigorosamente ciò che ella desidera e vuole da sé, per le concezioni che ha introdotte in sé stessa assorbendole dalla cultura dominante, da quelli che invece sono moti istintivi residui o da altre spinte che provengono da ispirazione esterna e che interferiscono con la sua facoltà desiderativa individuale, è solo così -dicevo- che si può capire la struttura mentale di una persona e ricostruirne la volontà, i moventi che la determinano; noi preferiamo questi studi seri e rispettosi della natura di pensiero e coscienza dell’anima, fondati sul riconoscimento del suo essere volontà e capacità cognitiva, a quelli in voga oggi di psicologia e psicoanalisi, anche se i nostri sono studi lunghi e faticosi e sono senz’altro meno atti a procurarci successo di pubblico e guadagno materiale rispetto a quelli degli psicoanalisti, che formulano le loro interpretazioni su frettolose illazioni completamente infondate e irrazionali, inventandosi un inconscio governato da un misterioso psico-meccanicismo a cui si può attribuire tutto ciò che ci salta in capo a vanvera e a casaccio, e che impongono una normalità folle non essendosi chiesti seriamente che cos’è la reale malattia dell’anima e che cos’è veramente la sua salute; noi, invece, non omettiamo di osservare attentamente e con rispetto, con metodo realmente scientifico, quali forze muovono la coscienza, quali contenuti l’ammalano e la spingono ad azioni dannose, perché sceglie fini errati e rifiuta il bene, e abbiamo definito con rigore logico la malattia e la salute dell’anima, e sappiamo che cos’è realmente il suo male e che cosa il suo bene.

§IV,2.16.Ecco le nostre azioni: esse sono solo studi, quelli che servano per capire la malattia dell’anima e trovare una cura: altre azioni non ci interessano, tranne quelle che servono per procurarci il pane quotidiano, per sopravvivere in questa Terra; anzi, a dire la verità, la nostra volontà non sarebbe nemmeno di sopravvivere nel corpo aggregato, visto che potremmo compiere i nostri studi con più agio altrove, dove il nostro ruolo non è usurpato da falsi sacerdoti e da falsi dottori dell’anima. Ma il fatto è che non studiamo esclusivamente per noi stessi, ma per tutti gli uomini (mi piacerebbe ficcare questo in testa a quel cattolico rancido, un mio vicino di casa al lago, che mi rimprovera continuamente col suo “tu non ti spendi!” perché è convinto che gli studi siano un atto di egoismo e di superbia e mi vorrebbe imporre la sua morale dove spendersi vuol dire metter su famiglia e scodellare marmocchi -scusatemi lo sfogo-): finché c’è anche una debolissima speranza di poter convincere qualcuno degli esseri umani (non tutti i blocco, si capisce, ma a uno a uno alla spicciolata) che occorre guarire l’anima dal male, liberarla dalla forma malvagia, e cioè dall’insieme di tendenze irrazionali prodotte dalle concezioni errate sul bene che hanno origine dall’errore sull’essere, e ripristinare così l’amore grazie alla conversione dell’occhio spirituale verso le rette idee, al recupero cioè dell’anima come intelletto, non vogliamo andarcene dalla Terra, perché al massimo perderemmo qualche decennio della nostra esistenza se questa volizione si rivelasse una velleità, e sarebbe una spesa sopportabile, tutto sommato, anche se ogni giorno in mezzo al male è un giorno di profonda sofferenza per noi; ma se ce ne andiamo via subito e non tentiamo neanche, qualora invece la realizzazione di questo desiderio si rivelasse possibile e noi avessimo trascurato di agire per ottenerla, avremmo perso un bene importantissimo, la possibilità di guarire delle anime nostre sorelle e di condurle al bene, di farle uscire dal dominio mortifero della religione e della falsa scienza, da codesta terribile Babilonia infernale, e ricondurle con noi nei paradisi del pensiero che è verità splendente visibilmente e amore. Ogni giorno dico a me stesso: io ci provo, anche se poi tutto va storto, almeno però poi non avrò rimpianti, potrò dire a me stesso che almeno ci ho provato. Questo è l’unico sottilissimo filo che tiene un eletto legato al suo posto sulla Terra, altrimenti se ne andrebbe. Ed è quello che farei, se scoprissi con certezza matematica che in quest’epoca non c’è nemmeno una persona in grado di ricevere il mio bene.

§IV,2.17.Dunque, riprendendo con le nostre definizioni: una volizione, che si sia rivelata irrealizzabile, si chiama velleità e velleitario è colui che non ha la capacità strategica di trovare i mezzi per tradurre in azione le sue volizioni oppure che non ha una rappresentazione della realtà adeguata, ma è irrealistico e illuso, perché crede realizzabile l’impossibile. Non sempre questa è una colpa, non sempre dipende da una carenza di razionalità, ma a volte è semplicemente perché il soggetto che vuole non ha la possibilità di procurarsi i dati che gli servono nella decisione definitiva. Il povero Agis, per esempio, come fa a sapere se tutti i circa sette miliardi di abitanti del pianeta Terra sono refrattari alla verità? finché non li avrò conosciuti tutti di persona non potrò dirlo. Infatti non posso indurre da un caso singolo una regola generale, questa si chiama “induzione indebita” ed è un metodo errato e fuorviante. Dunque lasciatemi la mia speranza, e la mia volizione o velleità, e lasciatemi scrivere; poi il tempo saprà insegnarmi se ho solo sprecato energie o se ho concluso qualcosa di buono.

 

§3.I mezzi per arrivare al fine: il dovere.

§IV,3.1.Chi ha una percezione realistica delle cose e non è velleitario sa trovare i mezzi per arrivare al proprio fine, una volta che abbia compiuto un atto di volizione e cioè abbia chiarito a sé stesso esattamente quale è il desiderio che vuol realizzare in prima istanza e lo abbia dunque elevato a fine. A questo punto siamo in grado di recuperare, togliendolo dalle cattive mani in cui era caduto, il concetto di dovere e di ricollocarlo, dopo averne dato la rigorosa definizione, nel nostro sistema di idee: quando abbiamo compiuto rettamente un atto di volontà, una volizione, cioè abbiamo scelto fra i nostri desideri quale sia da realizzare innanzi tutto, imponiamo a noi stessi anche di trovare i mezzi per arrivare a tale fine. Infatti, non posso pretendere di arrivare a un effetto senza mettere in atto le cause che lo fanno essere, e se il mio fine vuol essere l’effetto delle mie azioni, io devo mettere in atto le cause che realmente mi porteranno a produrre tale effetto, cioè devo trovare i mezzi per arrivare al mio fine. Ora, questo procurarsi i mezzi per arrivare al fine si chiama, appunto, dovere. E’ la mia volontà che mi impone il dovere: è quel tipo di volontà di cui parlammo qui sopra nel §IV,2.6, quella che vuole i mezzi e che è distinta dalla volontà che vuole il fine. Si potrebbe chiamare “volontà relativa” rispetto alla volontà che vuole il fine, che è la volontà assoluta, perché voglio i mezzi relativamente al fine che voglio raggiungere, mentre il fine lo voglio per sé, in quanto tale, in assoluto e non relativamente ad altro. Quando impiego il verbo “dovere”, dunque, intendo questo, che sto impegnando me stesso, la mia fatica e il mio tempo e le mie risorse, per procurarmi qualcosa che non è il mio fine e che se non avessi un fine ben preciso non mi sognerei nemmeno di desiderare o di volere: se mi do tanta pena per procurarmi tale cosa è perché essa è quella causa che produrrà come effetto ciò che è la realizzazione del desiderio da me sentito in questo momento come il più impellente, il che è come dire che porterà la mia volizione a farsi azione efficace. Il dovere, insomma, è la strada che mi conduce alla meta.

§IV,3.2.Troviamo dunque che il dovere è un tipo di volere: è il volere relativo a un fine; tanto è vero che anche nella lingua comune, in italiano, si possono usare i due verbi “volere” e “dovere” in modo equivalente per indicare la stessa azione: per esempio, posso dire: “voglio salire in cima a quel monte, perché voglio vedere tutta la pianura dall’alto”, oppure: “devo salire in cima a quel monte se voglio vedere tutta la pianura dall’alto”; posso dire “voglio studiare oggi, per passare l’esame di domani”, oppure: “devo studiare oggi, se voglio passare l’esame domani” e così via. Il dovere, dunque, è la volontà relativa e indica la nostra decisione di mettere in atto i mezzi che ci servono relativamente al nostro fine. L’esempio che impiegavano i maestri di filosofia greci per chiarire tutto questo era quello del chirurgo: egli deve aprirti il torace col bisturi se vuole operarti e guarirti, ma non è che egli abbia come fine, come suo più impellente desiderio, quello di squartarti, se lo fa è perché deve arrivare a un altro risultato, la tua guarigione, altrimenti non si sognerebbe mai di lesionarti in quel modo. Tanto è vero che oggi non si opera più a cuore aperto, per fortuna, e la medicina ha cercato di evitare di dover mettere in atto mezzi tanto cruenti ingegnando dei mezzi più raffinati che rendano inutile infliggere traumi dolorosi al paziente. Questo per dire che mentre il fine è un valore, cioè un bene che va conservato, il dovere non lo è affatto, anzi, se se ne potesse fare a meno sarebbe meglio. Hanno dunque torto i Cattolici che assolutizzano il dovere e te lo presentano come qualcosa di fine a sé stesso, spacciando per dovere innanzi tutto la dedizione alla famiglia, l’adesione cioè agli scopi riproduttivi della specie, e spacciando per volontà divina, quella che ci impone il dovere, la legge di Natura: a che scopo dovremmo a tutti i costi riprodurci e ripetere cicli su cicli biologici in un mondo dove è assente il bene e vige ovunque ingiustizia? per far piacere a questo Dio insensato? o perché, dopo che abbiamo rinunciato a realizzare il nostro bene, e cioè ad avere un fine esercitando correttamente la nostra volontà, dopo aver rinunciato all’autonomia della nostra facoltà deliberativa, e cioè all’impiego dell’intelletto che ci indica quale sia il retto fine, dopo, insomma, che siamo diventati completamente inetti, codesto Dio personale e onnipotente ci raccatti da tale inettitudine e ci doni il paradiso con un atto arbitrario di grazia, tanto per compiacersi della nostra inettitudine e della sua onnipotenza? Ma che idiozia è questa? E che doveri ho io verso la specie, che è una banda di demoni che mi ha intrappolato in un corpo fittizio, ingannevole, a causa del quale sono stato privato della vera visione dell’essere e sono stato costretto a cadere in errori concettuali sull’essere e dunque sul bene disastrosi per la salute della mia anima? Devo loro qualcosa? Devono loro a me il risarcimento per quello che mi hanno fatto, semmai, se vogliono che io cessi di accusarli. E sarebbe un dovere la piaggeria e la riverenza verso costui, verso questo presunto Dio onnipotente che altro non è che la personificazione della smania di dominio e di potere, e dell’invidia, della gelosia farisaica di un clero di incompetenti superbi e presuntuosissimi? Ma va’. Non è un dovere riconoscere la loro falsa e satanica autorità, né baciar loro le pile, tributar loro onori e privilegi; è nostro dovere, piuttosto, liberare l’anima oppressa da codesti falsi dottori e dai loro dogmi mortiferi.

§IV,3.3.Dunque appropriatamente dico: devo ridurre i miei bisogni se voglio dedicarmi alla ricerca della verità e alla conoscenza storica; sto dicendo che mi sono imposto come dovere un modello di vita sobrio e non dispendioso, la riduzione al minimo dei miei bisogni, ma non perché penso che vivere nel benessere e in mezzo agli agi sia un male, bensì perché penso che dedicare tutto il tempo e le energie della mia vita per ciò che è solo comodità e non è il bene, perdendo la possibilità di arrivare al bene vero, sia da sciocchi. Posso anche dire che sacrifico il mio benessere materiale alla ricerca spirituale, recuperando così un altro concetto importante che, caduto nelle pessime mani dei Cattolici, era diventato un’idiozia abominevole, quello di sacrificio: i desideri meno forti, quelli che hanno minor peso, vanno sacrificati in nome, appunto, di quello più urgente e che è rivolto al bene più importante. Sacrifico la mondanità alla conoscenza spirituale (intendendo per spirituale ciò che concerne l’essere come pensiero ed espressione retta di sé, logico-razionale, il logos vero, non quello dei Cattolici); sacrifico il successo alla ricerca della verità; sacrifico il divertimento allo studio; sacrifico il mio desiderio di compagnia al rispetto che ho di me stesso, e non mi metto a frequentare persone che coi loro giudizi irrazionali mi disapprovano e mi disprezzano, e vorrebbero spingermi a conformarmi al loro comportamento e al loro sistema irrazionale di valori, e così via. Il sacrificio è la capacità di relegare in seconda istanza la soddisfazione di quel desiderio che abbia minor peso nella situazione contingente; esso può comunque venir recuperato in un’altra situazione, quando le cose sono cambiate: per esempio, qualora trovassi persone che mi rispettano cesserei di sacrificare il mio desiderio di compagnia e lo appagherei; se trovassi il modo di arricchire senza far danno alla mia attività di filosofo, lo farei; qualora mi procurassi un pubblico saggio che non mi chieda di assecondare i suoi gusti irrazionali per tributarmi successo, ma che si interessa alle dottrine razionali, apprezzerei anche il fatto di avere, presso un siffatto pubblico, successo. Non è, infatti, che il benessere, il successo, il divertimento e le frequentazioni mondane siano un male, tutt’altro; ma è un male sacrificare a questi beni inferiori un bene più grande, cioè essere disposto a rinunciare alla verità, al rispetto di sé, al proprio impegno rivolto alla conoscenza dell’uomo, e così via, pur di ottenere quegli altri beni più piccoli.

§IV,3.4.Siamo dunque lontani dal sistema morale dei Cattolici, i quali vorrebbero importi dei sacrifici come atti di piaggeria verso un Dio onnipotente: per loro dovremmo sacrificare il nostro bene e noi stessi per umiltà, per ammettere che siamo incapaci di procurarci il bene e che solo questo Dio, se lo aduliamo, può darcelo in dono. Questi pretendono che sacrifichiamo i nostri desideri in nome di una presunta volontà divina che vorrebbe imporci un dovere inteso nel senso sbagliato, cioè come sottomissione alla volontà della specie biologica o come sottomissione a un autorità illegittima e riverenza verso i potenti. Nessun Dio impone a noi il dovere, nessuna autorità esterna può imporci un bel nulla come dovere: esso, per noi, è ciò che decidiamo noi stessi di accollarci, anche se si tratta di impegno e fatica, quando questo ci serva per arrivare al nostro fine; fine che nessuno ci ha imposto, ma che abbiamo scelto noi in base alla nostra idea di bene, e se sacrifichiamo qualcosa non è per compiacere un Dio che vuole i nostri sacrifici per sentirsi adorato, superiore e onnipotente, e che si compiace delle nostre rinunce perché detesta la nostra contentezza, ci vuole privare del piacere e delle soddisfazioni e ci vuole vedere soffrire, ma è perché abbiamo calcolato che quel bene è inferiore e va relegato in seconda istanza al fine di procurarci un bene di maggior peso che, nella situazione contingente in cui ci troviamo, abbiamo giudicato irrinunciabile. Non sacrifico il mio tempo per guadagnare denaro, perché il denaro è meno importante del mio tempo, che va usato per il bene; non che rinunci ad arricchire perché c’è un Dio che mi vuole povero e che giudica un peccato il mio benessere. Non sacrifico mondanità e allegria a un Dio che mi vuole cupo e solitario perché non ama la mia contentezza e si compiace, chissà perché, della mia sofferenza; sacrifico il divertimento mondano alla serietà con cui conduco i miei studi, e non perché me lo impone qualcuno come dovere, ma perché l’ho deciso io, deliberando su ciò che è di prima istanza qui e ora e su ciò che invece va per il momento accantonato. Ma quando saremo nel luogo e nel momento opportuno, nei veri mondi e paradisi, vedrai che feste! Questo Dio, che si compiace e si sente onnipotente quando io rinuncio per lui a qualcosa che mi piacerebbe, altro non è che la personificazione dell’invidia del Cattolico ignorante e meschino, che vuole il male del suo prossimo e ne odia la gioia: egli ti impone come sacrificio verso Dio gli sfoghi della sua invidia. Ma di queste terribili patolologie della forma umana parleremo nella sede opportuna.

§IV,3.5.Il Cattolico vuole importi un dovere verso gli altri, e pretende dei sacrifici verso Dio; noi, una volta chiarificati i concetti di dovere e di sacrificio, siamo venuti a sapere che non abbiamo doveri verso gli altri, ma quando ci imponiamo il dovere, è sempre dovere verso noi stessi, è perché imponendo a noi stessi una disciplina stiamo procurandoci i mezzi per arrivare al nostro fine. Se il nostro fine è la giustizia, cioè la realizzazione del bene in tutte le anime, instaurare la situazione in cui ogni anima ha ciò che le spetta, non è perché qualcuno ci ha imposto la giustizia come dovere, ma perché amiamo questo bene, amiamo che tutte le anime abbiano l’essere e il valore, ciò che loro spetta, e abbiamo eletto liberamente questo come nostro massimo fine; è per questo nostro fine, e quindi per noi stessi e non per gli altri, che imponiamo a noi stessi il dovere, e la disciplina. Ho già fatto notare altrove (cfr. La cura dell’anima, §5.6) che se mi impongo il bene degli altri per dovere, significa che non li amo, perché se sentissi come bene il bene delle altre persone lo desidererei liberamente e liberamente deciderei di metterlo in atto, per amore e senza nessun bisogno che qualcuno me lo imponga per dovere. E quando noi scegliamo di fare un sacrificio, non è mai per qualcun altro, ma sempre in nome del nostro bene: infatti è il nostro bene anche che tutti gli altri abbiano il bene, la forma eletta e cioè l’anima ripristinata come intelletto e amore, e se faccio tanta fatica cercando di condividere con altri la verità che può ripristinare nell’anima l’intelletto e l’amore, questo sacrificio lo faccio per me stesso, in nome del mio fine di trovarmi in un mondo intersoggettivo dove vigano verità e giustizia e dove sia presente l’amore, e dove tutto splenda di bellezza. Io sacrifico tutto solo ad uno scopo: la felicità e la beatitudine e c’è felicità solo nella realizzazione del bene (il Lettore, o la Lettrice, ricorderà la nostra definizione di felicità come eterna fruizione del bene), cioè quando vige giustizia, e beatitudine quando nei nostri spazi si riflette solo il bene nell’eterna bellezza dei mondi: vivere in mezzo alle anime prive di bene e incapaci di amare, e cioè brutte e deformi, sarebbe la negazione della mia beatitudine, perché, come il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, beatitudine è l’eterna fruizione del bello e il bello è la manifestazione del bene.

§IV,3.6.Sicché è assai diverso dal nostro il modello morale del Cattolico che si impone per dovere il “bene” del prossimo sacrificando il proprio, ma intendendo poi erroneamente per “bene” o il mettere al mondo dei figli e curarsi del benessere materiale della famiglia dedicandosi solo ad essa, o qualche tipo di beneficenza, e che pensa opportuno sacrificare i piaceri e le soddisfazioni in nome del fatto che a Dio piace vederci soffrire e star male; ma il nostro modello di morale è assai diverso anche da quello di quei materialisti i quali, ignorando il fine della nostra esperienza terrena, trovare la vera vita, non vedono il motivo di sacrificare piaceri e soddisfazioni egoistiche e dunque appunto si danno esclusivamente a questi. E a maggior ragione noi differiamo anche da quei finti cattolici che vivono da materialisti tutti rivolti a soddisfazioni egoistiche e, ormai nelle nuove generazioni non più represse, anche ai piaceri smodati, salvo poi pensare di potersi dire cristiani solo praticando riti e facendo beneficenza e volontariato, ma esentandosi dall’impegno di sradicare il male dall’anima. Quando noi diciamo che desideriamo realizzare il bene, e quando operiamo sulla nostra volontà per cercare i mezzi adatti a portarci a tale fine, quando cioè ci accolliamo una vita austera per dovere, non stiamo dicendo che ci imponiamo come dovere quello di dedicarci al prossimo e che ci sacrifichiamo per gli altri: io preferisco lasciare queste millanterie da alienati ai Cattolici e dire invece che sento come bene, come mio bene, l’essere, la vita universale, e cioè la realizzazione del bene in tutte le anime, il loro possesso della verità e dunque della forma eletta, il loro essere perfettamente intelletto e amore. Il bene del prossimo non implica che io sacrifichi il mio, ma, anzi,  esso è quel bene universale che io considero il mio bene, ed è per procurare a me stesso questo bene che mi induco a sacrificare i beni inferiori e a impormi per dovere quello di faticare per procurarmi i mezzi per realizzarlo. Procura a te stesso il bene, quindi, e non sacrificarti per nessuno, o mi farai del male. Lo spirito, il pensiero dei mondi, che è il coro delle anime elette ed è il vero Dio, vuole da te amore, non sacrificio, e spero che ormai sia chiaro che per accendere in te l’amore, quello vero, devi procurarti la verità, le rette idee mediante le quali puoi sentire l’essere, l’universo delle anime, come bene e dunque amarlo, amarci tutte noi anime che siamo l’essere.

 

§4.La sottomissione alla volontà divina.

§IV,4.1.Riguardo alla volontà divina, devo mettere in guardia il Lettore, o la Lettrice, da un altro pericoloso errore tipico della mente cattolica: la sottomissione alla volontà divina. “Sia fatta la Tua volontà” dice subdolamente il Cristo del Vangelo, sapendo che questa frase può avere due interpretazioni e che i Cattolici, per la loro accidia, sceglieranno quella sbagliata. Il nostro rapporto con la volontà divina può essere in due modi: o ti sei procurato l’idea di bene e senti quindi come bene il vero bene, pensiero e verità e la condivisione della verità con tutte le coscienze, e cioè quello che tutte le anime elette, quelle che sono il medesimo intelletto e hanno tutte in sé la medesima idea di bene, sentono come bene e cioè desiderano e vogliono, e di conseguenza hai il medesimo desiderio e la medesima volontà che ha l’intero collegio delle anime elette, che è Dio; oppure, non avendo trovato il primo assioma, l’identità di essere e pensiero, e difettando dunque di tutte le altre idee che da esso deduttivamente discendono, non vedi nemmeno l’idea retta di bene, e non puoi dunque volere il bene, perché i tuoi desideri sono irrazionali, perché continui a sentire come bene tutte quelle cose che non lo sono affatto e che dunque le anime elette dell’Assemblea divina non desiderano né, tanto meno, vogliono. Chi difetta così dell’intelletto (si ricordi che esso è la facoltà di vedere le idee, che sono le rette rappresentazioni dell’essere e si chiamano, tutte insieme, verità e che abbiamo chiamato bene la verità perché è ciò che fa essere l’essere, perché il pensiero è essere a pieno titolo solo se è coscienza e conoscenza di sé, e lo è se e solo sé ha una retta rappresentazione di sé, e cioè è pensiero e verità) e ignora di conseguenza che è volontà retta quella che vuole la verità e la condivisione della verità con tutte le coscienze, ignora dunque che la volontà divina, la quale per definizione è retta, poiché se si aggirasse qualcosa per l’Universo che sia ingiusto non lo chiameremmo Dio, è palese e chiarissima, massimamente comprensibile: la volontà divina vuole il bene e la giustizia, vuole cioè che l’essere sia e che ogni anima abbia ciò che le spetta, l’essere e il valore; e intendendo per essere la coscienza che conosce perfettamente sé stessa, è volontà divina quella che vuole ogni anima in posseso della retta conoscenza di sé per mezzo delle idee, e dunque in possesso anche della forma eletta e capace di vera vita, di splendeore nei mondi; detto più in breve, la volontà divina vuole ogni anima ritornare ad essere intelletto e amore, e che riprenda il suo luogo fra i paradisi. Nel primo caso, siamo in comunione con la volontà divina, nel senso che vogliamo ciò che vogliono tutti gli dèi dell’Assemblea, ciò che vuole Dio, perché vogliamo appunto questo soltanto e soltanto per questo fine ci adoperiamo: riportare nelle anime nostre sorelle l’intelletto, onde si accenda in loro anche l’amore e tornino a splendere di bellezza; nel secondo caso, quello dell’uomo in via che ignora l’idea retta di essere e non è intelletto, egli alimenta un desiderio e agisce secondo una volontà che è completamente estranea a quella dell’Assemblea: il suo pensiero è diverso da quello di Dio (la collettività di anime divine) e la sua volontà è in contrasto completo con quella divina. Da noi si dice che costoro sono “stranieri”, cioè non fanno parte della nostra patria, il consesso dei veri mondi dove vige giustizia e la volontà è una sola, la volontà, appunto, di bene e di giustizia.

§IV,4.2.Ma ci sono anche coloro che, pur rimanendo nella condizione di chi difetta di intelletto e ignora dunque la vera volontà divina ed è dunque estraneo all’Assemblea, tutt’altro che in comunione con Dio, ciò nondimeno sono presuntuosissimi e pretendono, invece, di essere capaci di obbedire a Dio e di essere a lui graditi perché sottomessi alla Sua volontà. I Cattolici pensano a un Dio sommo, perché hanno commesso l’errore di personificare il principio e si sono inventati un “Essere Sommo”, una persona (ma che poi è anche tre persone, assurdamente), al quale attribuiscono la bontà e la giustizia, salvo poi incoerentemente asserire che Egli ha una volontà imperscrutabile. Ma se la volontà di Dio è giustizia, e lo è visto che, come appena detto, non si può chiamare Dio chi sia ingiusto, come mai essa sarebbe imperscrutabile? L’idea di giustizia è perfettamente chiara, ricavabile facilissimamente per deduzione dall’idea di bene e cioè da quella di essere, che è il primo assioma, come abbiamo fatto noi qui sopra, nel libro dedicato alle idee e all’anima come intelletto. Ma i Cattolici, che vogliono tenere l’uomo lontano dalla giustizia, per la loro invidia distruttiva, continuano a riferirsi a un Dio oscuro e misterioso e sostengono di essere sottomettessi alla Sua volontà imperscrutabile: troppa fatica scoprire qual è la volontà retta, la vera giustizia, ed è una cosa che non serve ai loro scopi che non sono trovare la verità e condividerla, ma sentirsi moralmente superiori con poca spesa e senza sradicare le tendenze irrazionali dalla propria anima, gli attaccamenti alle illusorie soddisfazioni mondane; né il clero Cattolico agisce mai con lo scopo di arrivare al bene e alla giustizia, ma l’intento nascosto di costoro è umiliare l’uomo, dominarlo, riceverne onori e ottenere privilegi, potere e benefici onde appagare la propria smisurata superbia; ed è per questo che essi si servono, per i loro scopi, della volontà oscura di un Dio misterioso e indecifrabile, perché essi, dopo aver asserito che la volontà di Dio è imperscrutabile onde impedirti di ragionare su di essa e divenire giusto in maniera autonoma, pretendono contraddittoriamente di conoscerla a menadito, e spacciano per volontà divina una pletora di idiozie atte a incatenare l’uomo alla forma animalesca e a privarlo della vera redenzione, che è il ripristino della salute, e cioè della forma eletta, è il ripristino dell’anima come intelletto e amore.

§IV,4.3.Essi così negano e distruggono la tua autonomia, spacciando per virtù la sottomissione cieca alla volontà divina che si inventano loro, e sostengono che solo la sottomissione a questa smorfia satanica di volontà divina è moralità, dando del nichilista, cioè della persona priva di valori morali, a chi non l’accetti. Ma noi sappiamo che fondamento dell’etica del Vangelo era il comandamento di Cristo: ama il prossimo tuo, e cioè desidera il suo bene, e scegli di mettere in atto quelle azioni che portino al suo bene; e sappiamo anche che ciò ci sarà possibile solo se ci saremo procurati la retta visione dell’idea di bene e cioè un intelletto sano e capace; mentre questi mostri spiriticidi impongono come etica solo l’adulazione e la piaggeria verso un tiranno onnipotente, la disponibilità ad annullarsi, la rinuncia a essere intelletto e volontà retta  e all’autonomia. Sicché di fronte alla preghiera del Cristo che dice “sia fatta la Tua volontà”, puoi reagire in due modi: o cercando con metodo logico-razionale il bene e la giustizia, purificare i tuoi intenti e desiderare una cosa sola, la realizzazione del bene, quello vero, e agire quindi dietro a una volontà retta, quella che ha deliberato di realizzare ciò che è urgente innanzi tutto per arrivare a questo scopo, e in questo caso sei in comunione con Dio e non sei sottomesso a nessuno, perché fai parte dell’assemblea sovrana e sei un cittadino  sovrano (=anima capace di giustizia) a tua volta; oppure puoi intendere quell’espressione come un invito a sottometterti passivamente alla volontà divina senza conoscerla, senza sapere cioè a che cosa di preciso tu debba sottometterti, lasciandoti guidare da criteri irrazionali.

§IV,4.4.Bada, Cattolico accidioso e stolto, che quando tu dici di sottometterti alla volontà divina omettendo di impegnarti a indagare e capire che cos’è realmente il bene e a procurarti la giustizia, che è la vera volontà divina, perché vuoi poter dire di essere giusto e santo (tranne poi far smorfie e boccucce nel confessare le tue debolezze e nell’asserire che è capace di giustizia solo Dio) solo con comodi atti di piaggeria e senza accollarti l’impegno della ricerca, impedendola anzi anche agli altri col dire che pretendere d’essere giusti è un atto d’orgoglio e di presunzione, e senza il dovuto distacco dai falsi beni e senza la remissione della tua malvagità; ...bada -dicevo- Cattolico accidioso, tanto presuntuoso quanto inetto, e invidioso delle capacità altrui, che quando ti sottometti alla volontà divina, non trovi Dio che ti rivela gratuitamente la sua volontà tanto per assecondare il tuo vizio di esentarti dall’impegno, la tua negligenza, e le tue pretese accidiose di ottenere tutto in dono, d’esser giusto senza esserlo e santo senza esserlo, o che s’imprimano magicamente in te le forme della giustizia e della salute senza che tu metta in atto nella tua anima le cause che le fanno essere; già dicemmo che, se Dio è amore, amore non significa accontentare tutte le pretese di qualcuno, anche quelle illegittime, assecondare tutti i capricci alimentando i vizi che ne stanno alla base, come vorresti tu con la concezione di un Dio “buono” nel senso che ti regala tutto, soprattutto se ti dichiari inetto: il tuo sdolcinato concetto di bontà completamente irrazionale ti fa scambiare  per Dio quello che invece è Babbo Natale. L’amore vero è volere il bene di una persona, è il desiderio che migliori avvicinandosi al bene, ed è dunque anche severità, serio intento educativo, intento cioè di dare quegli stimoli all’anima che la spingano a trasformarsi da incapace a capace, da stolta a intelligente, da carente e oscura a perfetta e luminosa. Una delle operazioni dell’amore è dunque anche di rendere vistosi i tuoi difetti spirituali, la tua stoltezza e la conseguente malvagità e ingiustizia, la tua accidia che è mancanza di amore per la verità: amore è anche spingerti ad azioni colpevoli, quello che seguono alle volizioni irrazionali, e cioè all’aver sentito di prima istanza un desiderio fondato su una falsa idea di bene, su quelle concezioni presenti nella mente che è priva di intelletto. In questo modo, dall’azione colpevole, si può osservare come tu abbia una volontà ingiusta, una tendenza desiderativa irrazionale, e cioè un’anima malvagia dimostrando così la tua stoltezza e la tua ignoranza dell’essere. Sarai giudicato per la tua colpa, e dopo che i nostri sentimenti razionali di collera ti avranno fatto vergognare di te, a suo tempo, sarai spinto da questa vergogna a cercare un rimedio, trarrai finalmente la forza per cercare la guarigione, perché per la prima volta avrai ammesso la tua carenza, la tua malattia, e finalmente la tua volontà vedrà in te il desiderio di uscire da questa penosa condizione come impellente innanzi tutto e finalmente non ne negherai più accidiosamente la realizzabilità né andrai più a cercarla in dono da chissà chi con mezzi miracolosi. Ritroverai il concetto di salute, ora eclissato dal vostro concetto di “salvezza dell’anima” che ne è la storpiatura, e di redenzione come guarigione, remissione della malattia dell’anima che è malvagità (nel nostro senso del termine: cfr. supra, §I,4.11) e capirai che essa è la trasformazione dell’anima in qualcosa di buono, bello e giusto e che questo si ottiene con i mezzi opportuni, applicando il principio di ragion sufficiente e cioè trovando le cause che faccano essere nella tua anima bontà e giustizia come loro effetti, tramite l’educazione cioè e non con riti magici. Per questo ti sto dicendo quanto segue.

§IV,4,5.No, non trova Dio chi aspetta di sapere quale sia la volontà divina per ispirazione esentandosi dalla ricerca logico-razionale e per negligenza si fa passivo e sottomesso a una volontà che non è giustizia ma abominio; non trova Dio, ma la sua severità, che è resa operante dalla gerarchia satanica, quell’insieme di demoni che chiamiamo anche “la Natura”. Essi, questi severi demoni, ti fanno piovere in capo, sì, qualche ispirazione, ma ambigua e passibile di diverse interpretazioni: essi ti danno la possibilità di scelta lasciando aperte molte possibilità, molti sensi diversi, mettendo dunque alla prova le tue intenzioni; queste rivelazioni ambigue sono una spinta a rendere esplicito ciò che nascondi dentro di te, a rivelare le tue tendenze nascoste e a esprimere una volontà che prima era incerta e tentennante, e dunque sospesa. Satana ti dice una cosa in modo così oscuro ed ambiguo che, se non stai ben attento, ne capirai un’altra e a seconda di come intendi le sue rivelazioni sarai giudicato. Satana sa che tu capirai ciò che ti serve e che ti fa comodo per legittimare le tue tendenze desiderative malvagie e la tua volontà perversa, e se prima avevi qualche remora a compiere azioni conseguenti alle volizioni di questa volontà perversa, ora ti senti leggittimato dalla presunta sanzione divina che nelle rivelazioni hai creduto di trovare e perciò darai la stura a ogni tipo di comportamento colpevole, rendendo così esplicito ciò che prima occultavi ipocritamente dentro di te, e fornendo prove inoppugnabili al giudizio di colpevolezza che ti toccherà alla fine. Quindi, se aspetti passivamente l’ispirazione dall’alto che ti riveli la volontà divina onde far mostra di esserle sottomesso, o, peggio ancora, se ti sottometti all’elaborazione dogmatica che di una simile rivelazione è stata fatta dalla mente perversa del clero cattolico, che tende ad attribuire a Dio la sua stessa invidia, la sua stessa gelosia farisaica e la sua stessa smania di potere e di dominio e dunque la sua stessa volontà perversa, e se ti mostri succube a tale autorità illudendoti che ciò sia un merito, tutto quello che fai è incontrare Satana, quel medesimo accusatore che ha tentato codesto clero spingendolo alla costruzione di una morale falsa e deleteria, onde poterlo giudicare e condannare per la sua stoltezza, incompetenza, presunzione, e per l’odio verso l’uomo e verso la verità che così ha dimostrato, per la sua superbia sconfinata; e chi ci cade, peggio per lui.

§IV,4.6.Per essere grato a Dio non devi sottometterti passivamente a una qualsiasi volontà che gli venga attribuita: se non trovi la giustizia e segui l’autorità illegittima, è come se imbavagliassi Cristo, che è la verità e la giustizia, impedendogli di parlare o, peggio ancora, costringendolo a dire ciò che egli non pensa affatto e che gli è in abominio; questa è la vera tortura e la vera crocifissione di Cristo. Non devi sottometterti ad alcuna volontà esterna, devi essere tu stesso o tu stessa volontà: sei volontà retta quando sai che cos’è realmente il bene e vuoi che sia realizzato in tutte le anime con i mezzi opportuni, cioè tramite la ricerca logico-razionale individuale e volontaria, e quando sai anche che negare l’autonomia dell’anima e la sua capacità di divenire intelletto e amore, e dunque volontà di bene, e pretendere d’indottrinarla con dogmi irrazionali e imponendole una fede cieca e una morale falsa è un ostacolo formidabile alla realizzazione del bene in lei, anzi, significa spingerla nell’ignoranza di sé e cioè nel male, sicché sei volontà retta quando, come tutti noi, detesti un tale misologismo e oscurantismo, la smania di plagio dogmatico dei Cattolici e i loro riti e sacramenti illusori e inefficaci. Non è un atto di piaggeria che ti porta in comunione con Dio, ma sei insieme a tutte le altre anime divine nella stessa assemblea, e dunque in comunione con loro che sono Dio tutte assieme, quando vuoi il bene, quello vero, quando cioè sei intelletto sano, capace di vedere la retta idea di bene e sei dunque capace di sentire come bene il possesso della verità per tutte le anime e perciò desideri la giustizia: vuoi quello che vuole Dio quando vuoi giustizia. Vuoi quello che vuole Dio quando detesti ciò che è negazione della giustizia, ossia quando detesti l’atto di negare all’anima la sua autonomia, la sua capacità di essere intelletto e volontà di bene, e cioè amore, sei in comunione con Dio quando combatti contro questo mortifero atto, e anche quando deliberi di procurare i mezzi che occorrono per restituire a ogni anima ciò che le spetta, il suo essere intelletto capace di vedere la verità e amore: amore inteso come desiderio di bene, della verità, come gioia per il bene, per la verità conquistata, come volontà di bene e cioè come giustizia. L’anima ha recuperato la sua giustizia quando sa volere in piena autonomia ed è libera, ed è proprio all’autonomia e alla libertà dell’anima che ora rivolgeremo lo sguardo, spinti dalla medesima volontà che è di tutta l’assemblea divina, la quale insieme a noi vuole che l’uomo, ora imprigionato nell’ignoranza di sé come intelletto e volontà, recuperi anche questa nozione, insieme a tutte le altre già sopra esposte, e completi così la visione retta di sé, e cioè torni a vedere sé stesso come pensiero il cui bene è la verità, intelletto e amore, e recuperi così la sua volontà retta.

 

§5.La giustizia è amore. Libertà e autonomia dell’anima.

§IV,5.1.Dunque, l’anima che abbia recuperato l’idea retta di essere, e che sia tornata a essere intelletto e abbia di conseguenza l’intelligenza anche del bene, potendo formulare giudizi di valore retti avrà in sé solo quei desideri che siano rivolti al vero bene; e quando ella decide di mettersi in azione per realizzare uno di questi desideri, perché lo giudica più impellente degli altri, si accinge appunto a realizzare un bene. Ma il Lettore, o la Lettrice, ricorderà (cfr. supra, §II,5.8-9) anche che avevamo chiamato “giustizia” la realizzazione del bene: quando dunque l’anima è intelletto sano ed esercita la sua volontà, è anche giustizia. Ogni atto che tale anima compie di sua volontà è un atto di giustizia, e cioè un’operazione rivolta a procurare a sé o alle anime sorelle il vero bene, la sapienza, o a compiere gli atti preliminari onde questo sia possibile: si tratta, come dicemmo, di azioni che consistono nel lottare contro i pessimi sistemi di idee e di valori che guastano l’anima umana nel mondo terreno, nell’osservare le loro cause, nel confutare gli errori concettuali che ne sono alla base, e, soprattutto, nel cercare di capire perché l’anima li accetti così facilmente e si leghi a loro tanto tenacemente, tanto da divenire poi incapace di riconoscere e accettare la verità e ritrovare la salute. Su questa Terra, e nel nostro corso di storia, la giustizia prende l’aspetto di una “lotta contro il drago”, cioè contro l’insieme di errori concettuali che macchiano e ammalano l’anima umana fino ad ucciderla: l’ignoranza e la stoltezza, che è falso sapere, sono la morte dell’anima poiché, come dicemmo (cfr. supra, §III,2.5 e, comunque, tutta la disquisizione sulla visibilità contenuta nel libro III), è vita il pensiero con la sua capacità di essere bene, rappresentazione retta dell’essere, e bellezza visibile, cioè manifestazione del bene, è vita la gioia reciproca che simili anime suscitano a vicenda, il loro vicendevole amore, ed è vita la felicità data dalla fruizione eterna di questo bene e la beatitudine per la sua bellezza.

§IV,5.2.Dunque, abbiamo scoperto una cosa importante: se la volontà di bene si chiama giustizia, visto che abbiamo anche detto qui sopra, ai §§IV,2.2-3, che la volontà di bene è una specie nel genere dell’amore, possiamo anche affermare in conclusione che la giustizia è amore. Chi tende alla giustizia vuole il bene di tutte le anime, gioisce se esse hanno il bene, e se qualcuna di esse non l’ha desidera invece che l’abbia, e ritenendo beni gli atti che rappresentano l’essere, anche solo potenzialmente, cioè le coscienze, dà loro il valore che ad esse spetta, il che è come dire che le considera, ognuna e tutte insieme, un bene, ovverosia che le ama, sicché “giustizia” non è che il nome di questo tipo di amore, quello che si mette in azione per realizzare in tutte le coscienze il vero bene coi mezzi opportuni. Chiamammo “bontà” il desiderio di bene, e cioè la tendenza alla verità, e “intelligenza” questa tendenza desiderativa quando sa farsi virtù trovando i mezzi opportuni per soddisfarsi (cfr. per esempio Il fondamento dell’etica, §2,7); e poi chiamammo anche “amore” la bontà, e con lo stesso termine designiamo anche la capacità di gioire per un bene già presente, considerando amore, dunque, sia il desiderio che il sentimento positivo per il bene; ora troviamo questo terzo tipo di amore, la volontà dell’anima che vuole realizzare il bene, la volontà retta, che chiamiamo anche “giustizia”. La volontà di bene, o giustizia, è amore in azione, ed è amore anche quando essa è severità (già disquisimmo sul tema: “non c’è amore senza giustizia”, più sopra, al §II,5.9), ossia quando è volontà di contrastare il male, e assume quindi l’aspetto di disapprovazione e biasimo che si mettono in azione per eliminare le cause della malvagità e delle azioni malvagie nelle anime sorelle, il che è molto diverso, si noti perché è importante, dalle azioni repressive e coercitive che impediscono solamente l’azione malvagia, ma non si occupano di sradicare le cause della malvagità da dentro l’anima, e cioè le idee irrazionali sul bene. Infatti la severità razionale, quella che è indirizzata al giusto scopo e si esercita coi mezzi opportuni, si chiama anche “intento educativo”. E’ per questo che Platone, nel suo dialogo sulla giustizia, dice che l’unica vera azione politica è l’educazione e che il fine principale dello stato dovrebbe essere, appunto, l’educazione dei cittadini, cioè la loro istruzione, poiché noi non intendiamo per “educazione”, come fanno i Cattolici e i borghesi a loro succedanei, la repressione degli istinti o dei desideri diversi da ciò che è contemplato nella morale terrena, ma la vera educazione è per noi l’operazione di fornire all’anima la scienza dell’essere, onde ella produca da sé in sé stessa intelligenza e giustizia. Ma dai superficiali conoscitori di Platone, gli eruditi da salotto che si occupano di cultura solo per vanità ed esibizione, queste asserzioni sono state fraintese, onde oggi si sente ripetere a pappagallo, da chi frequenta più i salotti che gli scritti immortali di questo grande filosofo, che Platone è l’ideologo dell’educazione repressiva e dello statalismo, e che il suo pensiero nella storia ha prodotto l’assolutismo e il totalitarismo. Quanta idiozia si manifesta nella nostra epoca!

§IV,5.3.A questo proposito, e con l’esito di tornare a polemizzare con i Cattolici, è il momento di intavolare il concetto di LIBERTA’. L’anima è giustizia, ovverosia volontà retta, ovverosia amore in azione, se e solo se ella è LIBERA da errori concettuali sull’essere che producano in lei delle nozioni errate di bene. Infatti, se ogni volizione, cioè ogni singolo atto della volontà, è il desiderio, fra gli altri presenti in lei, che ella abbia scelto di realizzare in primo luogo (come appena detto qui sopra, ai §§ IV,2.4-5) e se il desiderio nasce nell’anima dal sentire una cosa come bene (si veda la Legge Fondamentale della nostra psicologia, supra, §I,3.1), di conseguenza se e solo se l’anima ha in sé la retta idea di bene perché grazie alla retta visione dell’essere, deducendo cioè tutte le altre idee dall’idea di essere che è il primo assioma della nostra ontologia e di tutta la nostra scienza,  è tornata a essere intelletto sano, ella potrà avere solo desideri razionali e scegliendo fra essi produrre volizioni razionali ovverosia rette, ed essere giusta.

§IV,5.4.Dunque la volontà, che è il desiderio quando si mette in azione, è RETTA (o razionale, che dir si voglia), ovverosia GIUSTA quando l’anima è intelletto, quando cioè impiega la facoltà di vedere rettamente le idee; e, come dicemmo, la volontà retta si chiama anche “giustizia”. E ora notiamo che l’anima è volontà di bene e cioè giustizia solo se è anche intelletto LIBERO da errori concettuali, ovverosia intelletto sano: chiamiamo anche così l’intelletto libero da errori, nel senso che produce una forma spirituale sana. E’ dunque l’intelletto a potersi dire libero, non la volontà: se l’intelletto è libero da errori concettuali sul bene, l’anima è giusta perché la sua volontà è DETERMINATA da un giudizio razionale e il suo movente, cioè quella cosa che ella desidera in primo luogo e per procurarsi la quale ella si muove, è un bene vero.

§IV,5.5.Abbiamo detto più sopra (§IV,2.5), infatti, che l’anima è sempre determinata da un movente, che si chiama anche “fine” o “scopo”, quando compie una volizione: la volizione, lo si ricorderà, è l’atto della volontà di scegliere quale desiderio sia da realizzare in primo luogo, e cioè di decidere quale cosa giudica un bene realizzabile con più urgenza. Possiamo dire quindi che la volizione è sempre DETERMINATA DA UN GIUDIZIO, un atto di pensiero che le fa sentire come movente (o, che dir si voglia, come suo fine o scopo) una cosa; sicché quando la volontà agisce, non agisce mai senza una causa, e non è mai indeterminata, ma è sempre determinata da un movente, da un fine, o meglio da quel giudizio che ha trasformato una cosa nel suo fine.

§IV,5.6.E’ assurdo, dunque parlare di volontà libera, questa espressione non ha senso: è l’intelletto a poter essere libero oppure no, ma la volontà è sempre determinata da una causa. La causa che determina l’anima a volere qualcosa, a eleggere qualcosa come suo fine e a farne un movente, è dunque sempre un giudizio: esso è la causa che la fa muovere, ovverosia la ragion sufficiente della sua azione. Se la causa che ha posto l’anima in movimento è un giudizio retto, che dipende dalla retta idea di bene che l’anima abbia in sé, la volontà sta agendo in modo giusto, e potrei anche dire che è libera, ma in modo molto improprio, per dire che è stata determinata dal giudizio di un intelletto libero dal male, da ignoranza e stoltezza, ma in un linguaggio rigoroso e meno fuorviante posso dire che è libero l’intelletto, ma devo dire non che la volontà è libera, bensì devo dire della volontà di quest’anima che è giusta, non libera. E’ importante ricordare questo per avere una vera scienza dell’anima, perciò insistiamo: perché una cosa diventi movente per la volontà, e cioè il suo fine, essa deve essere desiderata, e per essere desiderata deve essere giudicata un bene dall’anima: non c’è né desiderio né volizione e non c’è dunque la conseguente azione senza un giudizio. Il giudizio è ciò che determina l’anima a volere qualcosa, e per capire la forma spirituale di un’anima, e cioè riuscire a vedere le sue tendenze, per capire se sono razionali o no, non c’è che osservare il suo comportamento, non c’è che tentare di ricostruire i giudizi di valore nascosti al suo interno, risalendo così alla sua idea di bene, e dedurne le tendenze che da essa sono prodotte. Non c’è altra analisi dell’anima. Chi nega il rapporto tra volizione che si traduce in azione e giudizio, rende impossibile la scienza vera dell’anima e ne rende impossibile la guarigione.

§IV,5.7.Infatti, l’unico modo per correggere le azioni che dipendono da volizioni irrazionali è trovare l’errore di giudizio e confutarlo: e poiché chiamiamo “colpe” le azioni prodotte dai desideri irrazionali quando diventano volizioni, la confutazione dell’errore concettuale in base al quale l’anima aveva costruito quel giudizio, che aveva trasformato in movente il falso bene e in volizione il desiderio di esso, è l’unico modo per impedire all’anima di commmettere colpe: l’anima non è più ingiusta né tende più alla colpa se il suo intelletto è SANO. Abbiamo appena detto qui sopra (§IV,5.4) che chiamiamo anche “intelletto sano” l’intelletto libero da errori concettuali, perché dalla retta idea di essere in esso contenuta dipende la nozione di bene, e dalla nozione di bene dipendono le tendenze desiderative e i sentimenti di un’anima, i quali affetti si dicono sani o razionali quando sono prodotti dal sentire rettamente come bene una cosa, grazie alla retta sussunzione cioè di questa cosa sotto l’idea di bene; tale sussunzione, il giudizio retto, è indispensabile anche per agire bene, dietro a una volizione retta: come già più volte dicemmo, se il tuo giudizio è retto, se hai compiuto correttamente la sussunzione di una cosa sotto la retta idea di bene, il desiderio scelto per essere realizzato in primo luogo è razionale e la volizione giusta e ti spingerà a un’azione giusta; ma ti è possibile compiere tale sussunzione correttamente solo se hai in te la retta idea di bene, se cioè hai un intelletto sano o, che dir si voglia libero da errori, altrimenti no. Sicché, per sradicare dall’anima umana la tendenza alla colpa c’è un solo mezzo: rendere libero il suo intelletto da errori concettuali, convincerlo a vedere la verità, le rette idee che rappresentano l’essere. Dunque solo l’anima libera, ma nel nostro senso del termine “libertà”, che è libertà dagli inganni del falso intelletto, è anche giusta e innocente, cioè esente da inclinazioni alla colpa: se e solo se l’anima è libera dai concetti errati e oscuri sull’essere che le inculca la cultura terrena e ha trovato la vera visione dell’essere e sa anche di conseguenza che cos’è il vero bene, perché è bene ciò che ci fa essere, saprà formulare quei retti giudizi che sono la causa di volizioni giuste e di azioni giuste e così ella sarà esente da colpa e sarà retta volontà ovverosia giustizia.

§IV,5.8.Siamo arrivati dunque a formulare una seconda legge della nostra psicologia, dopo la Legge Fondamentale contenuta sopra, nel §I,3.1, e da essa dipendente:

 

L’anima, nella sua volontà, è sempre determinata da qualcosa che si chiama movente (o fine o scopo); la causa che trasforma una cosa in un movente per l’anima è il giudizio di valore che ella esprime su quella cosa. E’ dunque sempre un giudizio che fa muovere verso un fine l’anima e la mette in azione.

 

con il suo importante corollario:

 

Se e solo se l’anima è capace di giudicare rettamente, la sua volontà è retta. L’anima priva di intelletto sano è incapace di giustizia e tende alla colpa; l’anima sana, che sia anche intelletto, è anche giustizia.

 

E’ improprio, dunque, parlare di “volontà libera” intendendo con questa espressione una volontà svincolata da determinazioni: una cosa simile non può esistere perché contraddittoria come una figura geometrica senza lati: infatti l’anima vuole solo se è determinata a muoversi verso un fine da un suo giudizio e una volontà non determinata da alcuna causa sarebbe una non-volontà, svanirebbe nel nulla. Si può parlare di intelletto libero dal male, da errori concettuali, e cioè sano; si può parlare di un’anima che avendo un intelletto sano è libera da ignoranza e stoltezza, e cioè è libera dalla malattia, dalla forma spirituale malvagia che è l’insieme di tendenze a desideri e sentimenti irrazionali di cui parlammo sopra, nel §I,4.11 (per “desideri irrazionali” e “sentimenti irrazionali” e tendenze affettive irrazionali cfr. supra, §I,4.5); ma della sua volontà si può dire più propriamente che è giusta o retta, non che è libera: come ho appena detto (§IV,5.6), l’espressione “volontà libera” può essere usata come abbreviazione di “volontà di un’anima libera dal male, determinata dai giudizi di un intelletto sano”, ma bisogna farlo con molta cautela, perché può rivelarsi fuorviante, dopo secoli di pessima cultura cattolica dove al posto del nostro concetto di libertà si trova un’inconsistente nozione come quella del “libero arbitrio”.

§IV,5.9.Il nostro concetto di libertà è assai diverso dal “libero arbitrio” dei Cattolici, perché essi ignorano l’anima e il suo pensiero, sfugge loro completamente la sua facoltà desiderativa e deliberativa e le leggi che la governano e, anzi, negano esplicitamente il legame logico che c’è tra l’idea di bene e la facoltà di scelta, tanto è vero che hanno affossato la dottrina psicologica di Socrate bollandola spregiativamente come “intellettualismo”; essi parlano di “libero arbitrio” e non di libertà dal male che è ignoranza e stoltezza, come facciamo noi e come faceva Cristo, che nel Padre Nostro ci insegna che per noi il desiderio più legittimo e impellente è, appunto, quello di liberarci dal male: per costoro l’uomo che si trova davanti alla scelta tra ciò che è bene e ciò che è male non sarebbe determinato da nulla, ma grazie al suo “libero arbitrio”, assurdamente visto come un “dono di Dio” ma rimasto tarato dopo la macchia lasciatavi dal peccato di Adamo, nel momento cruciale sarebbe in grado di scegliere senz’altro e per nessun motivo un comportamento oppure quello opposto. E nell’alone fumoso di questo concetto vago e irrazionale, i Cattolici, rifiutandosi di osservare la realtà interna dell’anima e le vere cause che in essa sono presenti e operano facendola agire, possono vedere ciò che a loro pare, come per esempio il diavolo che spinge l’anima a “desideri impuri e peccaminosi” se ella non si è rifugiata nella preghiera e nella fede in Cristo e nella Chiesa, o possono vedere il dito di Dio che miracolosamente opera per purificare l’anima e renderla santa e ispirarla dall’alto perché agisca rettamente, o la misteriosa forza scaturita dal sacrificio di Cristo che salva l’anima togliendola dalla tara originaria del peccato di Adamo quando ella sia in comunione con Lui per aver adempiuto ai riti e ai sacramenti di cui ha monopolio esclusivo Santa Romana Chiesa. E, in genere, lasciano all’anima il suo libero arbitrio quando la vogliono colpevolizzare, per dire cioè che ella è responsabile del male fatto, salvo poi dimenticarsi della libertà dell’anima quand’ella combina qualcosa che pare a loro buono: allora è sempre merito di Dio che l’ha ispirata, di un intervento sovrumano che l’ha raccattata dal fango e l’ha miracolosamente trasformata in anima santa.

§IV,5.10.Ma non è un potere soprannaturale e misterioso che libera l’anima dal male, bensì la luce dell’intelletto, le idee rette, ricavate con l’applicazione del metodo logico-razionale, che ci rendono capaci di sapere che cos’è il bene e di determinare la nostra volontà coi retti giudizi, quella luce che è il vero logos di Cristo; né è il diavolo che fa sorgere in lei desideri irrazionali, bensì i suoi giudizi oscuri e carenti, fondati su concezioni irrazionali di bene, le quali dipendono dal concetto sbagliato di essere e che non si cacciano con preghiere, riti e acqua santa, ma con la confutazione e col sapere logico-razionale. A codesti Cattolici è convenuto nascondere nella nebbia fitta la realtà spirituale, il pensiero dell’anima e i suoi contenuti e i suoi moti, ed eclissare la vera causalità che li governa, perché altrimenti ciò su cui si fonda il potere smisurato della loro istituzione sarebbe di colpo sparito. Quando l’anima vede sé stessa, è AUTONOMA e sa trovare da sé la guarigione e la salute, la vera vita, la felicità e la beatitudine, tornando da sé a essere intelletto e amore, e volontà giusta, tornando, insomma, a essere dio con le proprie forze, e senza dover riverire e servire un clero rapace e assetato di onori e riconoscimenti, di privilegi e benefici.

§IV,5.11.Non è solo dal concetto di libertà dei Cattolici che noi dissentiamo, però, bensì anche dalle concezioni degli psicoanalisti e della psicoanalisi. Gli aderenti a questa pseudo-scienza razionalista vedono l’uomo determinato da cause, ma non è la loro una visione chiara della reale causalità spirituale che muove l’anima e ne governa i moti interiori, quella che abbiamo testé enunciato con la Legge Fondamentale della nostra psicologia e con la Seconda Legge da essa derivata (cfr. rispettivamente i §§I,3.1 e IV,5.8), perché essi credono l’anima determinata non da cause spirituali insite nella coscienza, che siano leggi logicamente coglibili nel pensiero in maniera evidente, come gli assiomi della geometria, ma da leggi naturali di tipo meccanicistico esattamente come quelle che sembrano governare i corpi fisici, con la differenza però che mentre gli scienziati veri scoprono i meccanicismi fisici applicando il metodo galileiano ipotetico-deduttivo, gli psicoanalisti fan mostra d’aver scoperto le leggi della “psiche” inventandosele di sana pianta. Queste leggi sono immaginate da costoro non come interne al pensiero e dunque alla coscienza umana e dipendenti, appunto, dal suo essere coscienza, pensiero che avverte sé stesso, ma sarebbero imposte alla coscienza da un determinismo naturale extra-umano e prescinderebbero totalmente dalla coscienza individuale, tanto è vero che in ogni desiderio e volizione e in ogni azione, anzi addirittura in ogni pensiero, costoro vedono all’opera non il pensiero consapevole, ma un fantasmagorico essere chiamato “inconscio”, che è te ma non sei tu, pensa al posto tuo ma non è cosciente di pensare, desidera al posto tuo ma non è coscienza di desiderio, vuole al posto tuo senza essere consapevole volontà... Il Lettore, o la Lettrice, mi dica se questa roba può considerarsi scientifica! Se le nostre due semplicissime leggi della facoltà desiderativa e deliberativa dell’anima sono sfuggire completamente a questa sorta di cappelai matti, è perché essi hanno avuto la presunzione di affrontare i fenomeni più complessi e aggrovigliati della volontà umana senza partire dalle nozioni semplici, senza cercare gli assiomi indispensabili per costruire una scienza: si sono gettati a capofitto direttamente nella patologia più complicata e incomprensibile e, per l’ambizione di un successo immediato e clamoroso, per presentare al pubblico delle presunte grandi scoperte, hanno messo insieme spiegazioni frettolose e infondate, interpretazioni assurde, inventando termini tanto altisonanti quanto vuoti di significato, un linguaggio che sembrasse scientifico, per far mostra di possedere chissà quale scienza, mentre hanno nella mente solo fumo e melma nera. Un metodo rettamente scientifico vuole prima affrontate le questioni fondamentali, che si parta cioè dal semplice per arrivare al complesso, e si proceda da assiomi, mediante definizioni rigorose, e da conoscenze certe perché derivate per deduzione dai primi principi fino alla soluzione chiara di ciò che è più complesso. Noi siamo partiti dall’essere, dalla definizione di anima e, per fondare la nostra psicologia, abbiamo prima esaminato, e per via deduttiva, non empirica o fenomenologica, l’anima semplice, quella sana e priva di complicazioni, esente da quei grovigli di tendenze desiderative ed affettive irrazionali, e che non sia confusa dall’identificazione con il corpo aggregato e dalle interferenze del suo sistema nervoso, né tutta sconnessa e colma di incoerenze per le contraddizioni tra la morale imposta dalla cultura dominante e il suo individualismo, sicché è stato facile vedere nei suoi moti interni l’anima dai desideri chiari e razionali, che compie volizioni semplici e nette, e grazie alla visione di questa e all’applicazione delle nostre due semplici leggi, potremo poi indagare con la dovuta serietà la fenomenologia dell’anima più complessa, aggrovigliata nel male, incoerente e in preda all’angoscia e alla scontentezza, e capire, quando siano in nostro possesso dati sufficienti, quali siano i moventi che ne causano il comportamento, e da che concezioni errate sul bene essi derivino. Già abbiamo dato un esempio di questo lavoro con il nostro studio intitolato La cura dell’anima, dove abbiamo trattato soprattutto dei punti di alienazione del valore; continueremo le nostre osservazioni nel già promesso studio sull’umanità come malattia dell’anima; allora si vedrà che non c’è nessun bisogno di inventarsi entità misteriose e contraddittorie come l’inconscio o il super-ego, né fare riferimento a meccanismi, pulsioni, rimozioni, libido, fissazioni, spostamento e altri concetti vuoti dello stesso genere.

§IV,5.12.Inoltre, noi siamo capaci di dare una definizione realmente scientifica, tratta per via logica, di salute e malattia, di normalità e devianza, mentre gli psicoanalisti, ignorando completamente qual è il vero essere e dunque il vero uomo, spacciano per salute e normalità la condizione di un’anima che sia governata completamente da quelle leggi naturali di tipo meccanicistico che, a loro parere, determinerebbero l’anima dall’esterno, per determinismo biologico, secondo quella visione irrazionale che già abbiamo proposto di chiamare “psico-meccanicismo” e di annoverare tra i più rozzi e deleteri errori della cultura umana. Noi sappiamo infatti che quando l’anima è identificata col corpo aggregato e soggetta a determinismi a lei esterni, essendo spodestata la sua volontà per via della presenza in lei di un falso intelletto, della dimenticanza del suo vero essere e della sua autonomia, quando insomma è soggetta alla legge naturale o alla trasposizione culturale di essa, è proprio in quella situazione che ella è ammalata, priva della retta idea di essere e della nozione vera di bene, mentre per costoro è salute e normalità la maggior rispondenza alla legge naturale o, in alternativa, visto che la psicoanalisi non è una scienza compatta ma una pletora di diverticoli e tendenze in disaccordo fra loro, lo sfogo dell’individualismo più bieco, il trionfo dei punti di alienazione del valore, il successo nel soddisfare la superbia, che è la malattia più grave dell’anima; nel migliore dei casi si cerca un qualche compromesso tra legge naturale e individualismo con qualche escamotage improvvisato. Di conseguenza, ciò che noi chiamiamo giustizia e volontà retta per costoro è repressione del “vero te stesso”, intendendo per “vero te stesso” quello più animalesco o bestiale possibile, cioè la coscienza in preda alla malattia e allo smarrimento, e, inoltre, quello che per noi è intelletto e capacità di giudizio viene da costoro designato coll’assurdo nome di “super-ego” e connotato come un’anomalia, una struttura patologica estranea al “vero te stesso” (come se il vero me stesso dovesse essere per forza un mostro acefalo, privo di pensiero razionale!), prodotta dalla malattia mentale ed equiparata con l’istanza moralistica repressiva dei Cattolici. Essi hanno così affossato il concetto stesso di intelletto e volontà, erigendo a salute l’egoismo e la superbia, l’egocentrismo e l’individualismo, e bollando come malattia mentale la forma dell’anima sana, l’anima che è tornata a essere intelletto, ragione, volontà di bene e amore, e vera vita. Ecco un’altra genia di belve dottorate che, negando all’anima la sua autonomia, la capacità stessa di intendere e di volere autonomamente, col porla in soggezione del determinismo biologico e del loro fantasmagorico psico-meccanicismo e dell’inconscio, per scopi di lucro e di dominio e per smania di annullamento del prossimo, occultano l’anima a sé stessa, le impediscono di liberarsi dal male autonomamente e di essere intelletto e amore, e di tornare alla forma divina.

§IV,5.13.Quanto è importante, dunque, ribadire l’AUTONOMIA dell’anima, quanto è importante che ella la ritrovi! L’anima è l’essere che si pensa da sé, e non è né creata né determinata a essere quello che è da niente e da nessuno, non da un Dio creatore né da una legge naturale meccanicistica; ella può essere ingannata quando è debole di intelligenza e ingenua, ma nessuno può agire su di lei dall’esterno. Non esiste altra causalità che quella del pensiero, perché l’essere è pensiero e nulla può essere fuori dall’essere, e l’anima, che è pensiero, è la causa della propria forma spirituale, che dipende dalle idee che ella pensa in sé stessa e che producono le sue tendenze desiderative e affettive e le sue volizioni. Ma se l’anima che pensa le rette idee è pienamente autonoma perché è cosciente della propria autonomia, sapendo di essere pensiero e dunque di essere fonte dei suoi contenuti, compreso spazio, materia e corpi, e sa di averli sotto controllo, sa perfettamente l’origine dei suoi desideri e delle sue volizioni e sa controllare con il metodo logico-razionale che i giudizi da cui essi sono prodotti siano corretti, l’anima nella quale si sia eclissata la retta idea di essere, invece, ignora tutto questo, e non sa di poter essere autonoma nel darsi l’essere e la forma: ella crede che, come per essere qualcosa deve ricevere dall’esterno un corpo fisico, così anche i moti della sua coscienza siano determinati dall’esterno, crede di avere un carattere innato, ereditario per via di sangue e inderogabile; oppure crede di essere “fatta” da Dio in un modo o in un altro, ma comunque sempre in maniera inderogabile, e ignora completamente la possibilità di cambiare le sue tendenze ed eliminare i suoi difetti spirituali modificando il proprio pensiero, e cioè mediante educazione e studio, mediante la confutazione degli errori concettuali e la riflessione, e la visione retta delle idee. Se l’anima ignora la propria autonomia non può usarla, perché nessuno usa un mezzo che non sa di avere: ella rimarrà inerte e passiva, aspettando che qualche causa esterna operi su di lei, cercando rimedi altrove che nella sua attività volontaria, senza la quale è impossibile guarire dal male ritrovando la retta forma di intelletto e amore, mentre intanto il suo pensiero, rimasto incontrollato, tenderà ad assorbire per negligenza e disattenzione molti falsi concetti e pregiudizi di ogni sorta, quelli che servano all’anima per legittimare le proprie fittizie soddisfazioni, corroborando così gli attaccamenti ai falsi beni che ella, in preda alla svalutazione di sé e spinta dal bisogno di tacitare l’insoddisfazione conseguente, impiega per soddisfare la sua smania di ingigantirsi ovverosia la sua superbia.

§IV,5.14.Nell’anima in preda alla svalutazione di sé, che ignori la sua autonomia e si creda sottoposta a un determinismo inderogabile, può radicarsi come punto di alienazione del valore (=mezzo per sfuggire al senso di svalutazione di sé proprio dell’essere umano e ingigantire indebitamente il proprio valore, per appagare cioè la superbia, come ricorderà il Lettore, o la Lettrice, che abbia letto con attenzione La cura dell’anima) proprio questo, la pretesa di essere “fatta” da Dio o prodotta dal determinismo biologico nel modo migliore possibile. L’anima in preda alla svalutazione di sé cercherà di dire a sé stessa, innanzi tutto, e poi dimostrare di fronte agli altri, che quella forza esterna che l’ha plasmata, che si tratti di determinismo biologico o dell’operazione di un Creatore, l’ha plasmata nel modo migliore possibile, dandogli in sorte tutte le qualità e le capacità migliori, comprese doti morali innate; si radicano così i concetti superstiziosi di “fortuna” o “destino”, “predestinazione” e “fato”, il cui succedaneo pseudo-scientifico è l’innatismo, che rendono l’anima da essi abitata completamente passiva e dunque incapace, ma piena di presunzioni e di aspettative verso sé stessa, le quali vengono inesorabilmente poi deluse, cosa che genera in lei un rancore invidioso verso chi quelle capacità abbia saputo procurarsi davvero.

§IV,5.15.Costui, che si vuol credere favorito dalla fortuna, dal fato o da chissà chi, ed ha come punto di alienazione del valore quello di essere superiore agli altri uomini per discendenza, per razza, o per un favore personale e per dono divino, sarà continuamente teso a spregiare gli altri per dimostrarli inferiori e diventerà distruttivo con chi lo smentisce facendogli da termine di confronto, né tale punto di alienazione può essere sradicato da una falsa scienza materialista che spiega coll’ereditarietà genetica il carattere umano senza distinguerlo dalla forma spirituale, e confermando dunque la concezione di doti, anche morali e spirituali, che la coscienza si troverebbe in sé perché “innate”, continuando dunque a nascondere all’anima la sua autonomia. E’ uno spettacolo penoso vedere tante persone affaccendarsi tutta la vita esclusivamente in queste manovre: negare i propri limiti e i propri difetti e cercare continuamente di confermare a sé stessi la convinzione d’essere già perfetti, di essere stati “fatti” da chissà chi nel modo più giusto ed eccellente, o nell’avere innate le doti ereditarie più prestigiose; in una certa epoca storica tutto questo si è tradotto nel bisogno di dirsi dotati della forma della razza eletta o superiore, discendenti della stirpe più vitale e vigorosa, e ancora oggi c’è chi soddisfa tale smania compiacendosi nel notare le presunte tare degli altri, esaltandosi malignamente di fronte a un individuo debole o emarginato col supporlo, appunto, proveniente da una stirpe tarata, e sottolineando la propria presunta superiorità con teppistici atti di sfregio. Ma questi atti di teppismo sono solo la punta dell’iceberg, si comportano così quelle anime tanto rozze da non aver trovato altro modo per confermare la propria presunta superiorità, da non essere riuscite a mettere in atto nessun punto di alienazione del valore: anche nell’ambito della cosiddetta normalità vi sono moltissime persone che, credendo in qualche tipo di determinismo, passano la vita a manovrare per dimostrarsi dotati di qualità e capacità superiori a quelle degli altri e a nascondere ipocritamente i propri difetti. Per queste persone avvertire una debolezza in sé vorrebbe dire cadere nel terrore di essere fra quei reietti che sono “fatti” male o che dalle loro doti “innate” siano condannati a essere inferiori: simili persone ignorano completamente la possibilità dell’anima, che abbia ritrovato la propria autonomia, di guarire dai propri difetti spirituali, purché sappia prenderne atto e purché trovi l’errore concettuale da cui nascono per confutarlo e sostituirlo con l’idea retta; essi ignorano che l’anima è plastica e può modificarsi facilmente mettendo in atto le cause opportune per farlo, modificare cioè il suo pensiero sradicando le tendenze affettive irrazionali col rettificare i concetti che ne sono l’origine e procurarsi dunque da sé la forma eletta. Ignorando l’autonomia dell’anima e la sua capacità di plasmarsi da sé, essi rimangono come mummificati nella loro forma sbagliata, ormai stantìa e irrigidita, impegnati solo ad agitarsi e a mettere in atto le loro grandi manovre finalizzate a negare le proprie imperfezioni, a evitare di prenderne atto, e a nascondere le proprie debolezze o quelle che essi ritengono tali, impegnati in un unico continuo tentativo di dimostrare a sé stessi di essere privilegiati da un determinismo naturale o da un atto di creazione che li ha fatti già perfetti così e superiori a tutti gli altri.

§IV,5.16.Questi sono i risultati di tanti secoli di incuria verso l’anima; anzi, di oppressione religiosa, quella di chi aveva promesso a Cristo di redimere l’anima umana, salvo poi occuparsi di tutt’altro, monopolizzando prepotentenmente, oltre tutto, il settore dell’educazione e della cultura, e impedendo la ricerca razionale sull’essere e sulla coscienza, sicché costoro, falsi sacerdoti e falsi cristiani, non solo hanno omesso negligentemente di occuparsi della cura e della guarigione dell’anima, ma hanno anche impedito agli altri, a chi avrebbe avuto più buona volontà di loro e più competenza, di svolgere questo ruolo cruciale e indispensabile per uscire dal male. Per colpa della loro prepotenza ora l’anima umana ignora sé stessa, la propria autonomia, ed è incapace di prendere atto dei propri vizi e si trova dunque nell’impossibilità più totale di sradicarli, tanto più che ella è stata costretta dalla superstizione cattolica a ignorare quale ne sia la causa, ignora cioè il legame vigente tra vizio e assenza delle rette idee che rappresentano l’essere, tra tendenze irrazionali e concetti errati presenti nel suo pensiero; non sa che la medicina è l’intelletto, e non sa nemmeno che cos’è il bene e che cos’è il male, sicché è incapace di ammettere la diagnosi della sua malattia e non sa trovare la cura, rimanendo così in una fase di totale ristagno e involuzione, legata oramai a forme spirituali malvagie, anzi ormai mummificata e irrigidita in esse, e destinata solo a peggiorare. Questo è il risultato di tanti secoli di falso Cristianesimo, e non alludo solo a quello cattolico: i Cattolici hanno avvolto l’anima nella nebbia nascondendola a sé stessa, ma la responsabilità, stavolta, non è solo cattolica, perché la versione riformata di questa religione, incrostata vieppiù dalla barbarie germanica, ha peggiorato le cose riportando in auge la concezione primitiva della predestinazione e ponendo l’accento sulla reiezione dell’uomo normale e sull’eccezionalità della “salvezza”, della grazia concessa a pochi eletti ripescati dal fango della tarata natura umana per un arbitrario atto dell’onnipotenza divina.

§IV,5.17.Questo succede finché l’anima umana, imbrogliata dall’identificazione col corpo aggregato e dalla falsa nozione di essere che si trova nella cultura dominante, non ricorda di essere pensiero e coscienza, di essere lei a essere l’essere e la fonte della realtà; ma quando ritrova la rette visione di sé, ella allora ritrova anche la sua autonomia e cioè la capacità di trasformarsi, guarendo dalla sua malattia, in qualcosa di semplice, puro e luminoso, da ignorante e stolta divenendo intelletto sapiente, da malvagia e sciocca a essere pieno di bontà e intelligenza, da ingiusta, aggressiva e colpevole, piena di sentimenti invidiosi e distruttivi a volontà retta, innocente e giusta, fonte di pace. Ciò che adesso la blocca, l’incapacità di ammettere la propria malattia e imperfezione, può svanire, purché ella capisca che nessuno la condanna alla reiezione, né la svaluta drasticamente in eterno per qualche errore commesso, per la sua temporanea incompletezza, e anche che, non essendo ella il prodotto del casuale evolversi di una materia bruta, non può darsi il caso di essere usciti dal determinismo biologico senza i requisiti minimi richiesti per accreditarsi un valore. Se capirà che sbagliando s’impara, e che tutte le anime, anche quelle cadute nei più mortiferi errori, hanno il medesimo valore infinito, ella potrà finalmente guardare alle proprie tendenze desiderative con sincerità, senza ipocrisia, ammettendole e prendendone atto e, quando le riconosca come irrazionali perché prodotte da un concetto irrazionale di bene, sradicarle mediante la confutazione di quel concetto sbagliato. Dopo essersi così rettificata, ella finalmente potrà sentirsi soddisfatta di sé, della propria salute, del bene ritrovato, e del ritrovato splendore. Ma di tutto ciò dovremo riparlare meglio nel prossimo studio sull’umanità come malattia dell’anima; per ora basti dire che l’anima sana, che è intelletto e amore e ha una volontà retta, è tale soltanto perché ha esercitato la propria AUTONOMIA e ha trovato la vera LIBERTA’. La verità (ma quella vera, naturalmente e non uno scimmiottamento irrazionale e dogmatico di verità) vi renderà liberi, disse Cristo (Gv. 8,32), e questo diciamo anche noi: se hai ritrovato l’intelletto sano, la verità, sei libero dal male, che è ignoranza e stoltezza, e dalla malattia che ne consegue. Soltanto l’anima che abbia imparato a esercitare il libero pensiero, che si è liberata per via di confutazione logico-razionale da tutti gli inganni, da tutti i concetti errati che le erano imposti dalla cultura dominante e dalla falsa autorità del mondo terreno, papa, clero, preti e dottori d’ogni risma, compresi psichiatri, psicologi e psicoanalisti di tutte le scuole, provenienti da tutti i diverticoli di questo melmoso groviglio di idiozie che è la psicoanalisi, esercitando così in piena autonomia la propria volontà fondata sulla retta idea di bene come verità e rappresentazione retta dell’essere, che ella ha ricavata da sé stessa, dall’essersi riconosciuta come essere, atto di coscienza eterno del pensiero infinito e fonte della vera realtà e della vera vita, può ora sentire come bene la verità e dunque amarla e può dunque amare la verità di tutte le anime e cioè il loro bene, il loro essere molteplice e infinita rappresentazione retta dell’essere e la loro vita splendente ed infinita e, per via di questo amore, agire come giustizia. Autonomia, libertà, giustizia, infinito amore: l’anima che abbia saputo tornare a essere intelletto sano è tutto questo, l’anima che abbia confutato gli errori concettuali che producevano in lei le tendenze irrazionali verso sentimenti distruttivi e desideri di falsi beni, e cioè la malattia, l’anima che ha saputo liberarsi dal male.

§IV,5.18.E’ questo il nostro concetto di libertà, infatti: è la libertà dal male, che è ignoranza e stoltezza, ossia falso sapere; è essere liberi dagli inganni, dagli errori concettuali, è essere liberi di vedere le rette idee che rappresentano l’essere, di vedere la verità; è essere liberi dai concetti oscuri e fumosi che entrano nell’anima dell’uomo quando, identificato con il corpo aggregato, aliena l’essere, lo crede fuori di sé e chiama essere e realtà un mondo che crede esterno e fatto di materia eterogenea al pensiero, e chiama realtà l’oggettività, considerando gli oggetti come fossero fuori dal pensiero, e crede che i corpi siano oggetti e che esistano fuori dalla coscienza; la nostra libertà è essere liberi da questi fantasmi, che ci costringono a scambiare per vita un processo biologico esterno alla coscienza e determinato da leggi meccanicistiche, invece di vedere la vera vita nella coscienza stessa, nel suo pensiero e nelle immagini di sé che esso produce, nel suo splendore.

§IV,5.19.Ecco la vera libertà, è quella dell’anima che, grazie alla confutazione di tutti questi concetti errati, si è liberata dagli inganni di un essere falso, e dal dover desiderare una falsa esistenza e una falsa vita, ed è la libertà dell’anima che, autonoma nel darsi l’essere, la forma e la visibilità, autonoma anche nel divenire spazio e materia e corpi e mondo, è uscita dalla situazione penosa di svalutazione di sé che conseguiva all’identificarsi col corpo terreno, col suo processo biologico e al credersi dunque mortale e di nessun conto, ed è libera dunque dagli attaccamenti ai falsi beni, da quei tenacissimi desideri che derivavano dal bisogno penoso di trovare i mezzi per ripristinare il valore perduto; l’anima che si è fatta intelletto, e cioè luce, si è liberata da quel velo spesso di nebbia che l’occultava a sé stessa: la nostra libertà è essere liberi dalla tenebra. E se l’intelletto è libero dalla tenebra, libero cioè dal male, l’anima è libera dalla malattia ovverosia dalla malvagità: ora che vede sé stessa, e si vede come essere che è pensiero e il cui bene è dunque la retta rappresentazione di sé, vede il vero bene e lo vuole, e lo ama; e parimenti ama tutto ciò che è bene, ogni retto atto di rappresentazione del pensiero, e cioè ogni anima, e ne vuole l’essere e il bene. E così per noi la libertà, che è libertà da ignoranza e menzogna, e cioè libertà dal male, e dalle tendenze desiderative irrazionali che ne derivano, e cioè dalla malattia dell’anima, la malvagità, coincide con la giustizia e con l’amore.

§IV,5.20.Già dicemmo altrove (cfr. La cura dell’anima, §§1.7-1.13) che l’anima è sempre autonoma, anche quando erra, e anche quando ignora la propria autonomia: non sa impiegarla, ma comunque continua ad avere la sua autonomia perché autonomamente l’ignora e rifiuta di impiegarla, ed è stata autonoma nel lasciarsi ingannare e nell’accettare una falsa concezione di sé; ma se l’anima è autonoma e anche libera, nel nostro senso del termine, cioè libera dagli inganni, ella oltre all’autonomia e alla libertà ha anche la giustizia. Ella, essendo intelletto, sa determinare da sé la propria volontà mediante i suoi giudizi retti, e decide dunque da sé la norma da seguire, mentre rifiuta ciò che viene spacciato come norma ma che non discenda deduttivamente dall’idea di bene e non è dunque un mezzo per realizzare il bene e non è dunque giustizia, non è veramente norma, di conseguenza, ma solo una contraffazione della norma. In questo senso è libertà anche essersi liberati dalla sottomissione alla falsa autorità, quella di chi pretende esercitarla senza intelletto. L’unica autorità a cui risponde l’anima libera è la verità, quell’insieme di idee rette, cioè, per mezzo delle quali ella produce i giudizi retti che determinano la sua volontà di bene, la sua volontà sovrana.


LIBRO V.

 

IL RAPPORTO TRA IDEE E AFFETTI.

 

 

 

 

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI:

 

In ogni pensiero cognitivo vi è un lato affettivo, così come ad ogni affetto è sotteso un atto cognitivo (§V,1.1). Cercare la verità significa volere il bene e dunque amare; non trova la verità chi è freddo, ma chi ama (§V,1.1). Ogni atto cognitivo è un atto d’amore (§V,1.2).

 

Procurarsi il bene, la verità, è amor di sé, ed esso è un sentimento che ha origine nella visione della retta idea di essere (§§V,1.2-3). L’atto intellettivo dell’anima che guarda le idee come appagamento dell’eterno amore di sé (§V,1.3, in fondo). Chi non vede la retta idea di essere al posto dell’amor di sé genera nella propria anima egoismo (§V,1.4); e anche superbia (§§V,1.6-7) a causa della perdita della retta stima di sé, che è un sentimento razionale generato, parimenti, dalla visione della retta idea di essere (§V,1.5). Chi depriva l’anima di questi due sentimenti sani, l’amor di sé e la stima di sé, l’ammala e la uccide (§V,1.7).

 

Come l’anima sgombera da errori concettuali sull’essere e che abbia dunque la retta visione dell’idea di essere genera, da tale idea, l’amore per tutti gli esseri; l’amore del prossimo non è mai in antitesi con l’amor di sé (§§V,2.1-4). Nozione di “spirito” (§V,2.3).

 

Dall’idea di essere nascono anche desideri e sentimenti razionali negativi: questi non sono odio, ma un tipo di amore (§§V,2.5-10; §§V,3.7-8; §V,3.11). Chi ama il bene, che è la verità, sa disapprovare e combattere il male, che è il falso sapere della cultura dominante coi suoi concetti e valori falsi (§§V,2.7-8). Falsa e vera mitezza (§§V,2.8-9). I sentimenti e i desideri negativi razionali hanno scarsa possibilità di passare all’azione sulla Terra, ma almeno servono affinché sappiamo difendere noi stessi dal male; senza questa capacità sarebbero difettosi l’amor di sé e la stima di sé (§V,2.10).

 

Dall’idea di giustizia nasce il rispetto (§§V,3.1-5); il rispetto della volontà (§V,3.4), il rispetto di tutto ciò che l’anima produce, anche dei suoi contenuti irrazionali (§§V,3.4-5). La disapprovazione non è disprezzo (§V,3.5).

 

La preoccupazione è un altro sentimento che nasce dall’idea di giustizia (§§V,3.5-6).

 

Sentimenti razionali negativi (disapprovazione) che nascono dall’idea di giustizia: il biasimo (§V,3.7; attenzione però al biasimo irrazionale, che è una colpa: §V,3.8); lo sdegno (§V,3.9). Il nostro sdegno è rivolto principalmente ai Cattolici (§V,3.9). La collera (§V,3.10). Di nuovo, è principalemente la Chiesa cattolica che ci fa andare in collera, perché noi non siamo facili alla collera ma essa si muove solo dietro a colpe gigantesche e tenaci (§§V,3.10-11).

 

Ma la disapprovazione del giusto è temperata dalla consapevolezza che responsabile del male nell’anima, che è difetto di intelletto, è Dio stesso (§§V,3.11-12). Saper rivolgere il proprio biasimo anche verso Dio, verso ai potenti, è dignità, che è il contrario dell’idolatria, della piaggeria insulsa dei Cattolici (§V,3.12).

 

Motivi culturali della perdita della severità da parte dell’anima europea: le immagini contraffatte di severità che vi si sono radicate (§§V,3.13-16). Come smascherare invidia e gelosia mascherati da sdegno (§V,3.15). La ragione dei materialisti è troppo debole e non ha recuperato la retta nozione di bene e di male, e dunque è incapace di biasimo o sdegno (§V,3.16). Insieme alla severità l’anima europea ha perso anche la disciplina (§V,3.18). Ma non è qui che si esercita pubblicamente la nostra severità e il nostro impegno, bensì altrove (§V,3.18).

 

Dopo aver tratto l’amore dall’idea di essere, che esso sia gioia per il tuo bene o biasimo per il tuo male, e il rispetto per te e per me stesso dall’idea di giustizia, troviamo in noi anche la concordia (§§V,4.2). Legame causale che vige tra idee normative e tendenze affettive, le quali dunque non sono innate e inderogabili (§§V,4.3-4; §V,4.6). Le idee rette sono eterne, la forma spirituale eletta è permanente, i singoli affetti sono contingenti (§V,4.5); i concetti errati rimangono nell’anima finché ella non li modifica confutandoli, e allora ella può guarire dalla sua malattia (§V,4.4; §V,4.6).


Ora possiamo riprendere la nostra Legge Fondamentale dell’anima (cfr. supra, §I,3.1) che è anche il primo assioma della nostra psicologia e osservarne più in dettaglio gli sviluppi. Abbiamo detto che l’anima sana, quella che è intelletto libero dal male, libero cioè da concetti errati, a partire da quello di essere alla cui retta visione consegue la capacità di vedere rettamente che cos’è il bene, è in grado di provare desideri e sentimenti sani, che chiamammo anche “razionali” (cfr. supra, §§I,4.4-5), ovverosia amorosi: ella è capace cioè di desiderare e approvare ciò che veramente è il bene perché capace di formulare giudizi di valore retti sulle cose, sa riconoscere un bene da un male sussumendo ogni cosa rettamente sotto il concetto di bene o di male, e perché è anche capace di dire precisamente di ogni cosa che cosa sia, sa darne cioè la definizione rigorosa. Come già dicemmo (cfr. tutta la discussione tenuta sopra, al §2 del libro II), infatti, sono necessari un giudizio cognitivo e un giudizio di valore per riconoscere ciò che è bene da ciò che è male; e, come già dicemmo con la nostra Legge Fondamentale, da questa attività cognitiva, dal definire correttamente una cosa e poi riconoscerla come un bene o come un male, dipendono i desideri e i sentimenti che proveremo per essa: se il giudizio razionale ci dice che quella cosa è un bene, la ameremo, ovverosia la desidereremo se è assente, l’approveremo con gioia se è presente, e se invece il nostro giudizio razionale ha stabilito che quella cosa è un male, la detesteremo nel caso sia presente, proveremo timore che si realizzi, formuleremo un desiderio negativo, desidereremo cioè che essa non si realizzi, nel caso sia assente. Abbiamo anche detto che sono le idee normative a generare i sentimenti e i desideri nell’anima, e quindi anche le volizioni, che sono un tipo di desiderio, a partire dall’idea di bene: chiamiamo “idee normative” l’idea di bene e quelle da essa derivate, come giustizia, vantaggio, utile.  Dobbiamo ora studiare più approfonditamente tutto questo, iniziando a esaminare i rapporti che legano le idee fondamentali di bene e giustizia a un determinato sentimento o desiderio.

 

§1.Il rapporto tra l’idea di essere e l’amor di sé.

§V,1.1.Innanzi tutto e in via preliminare, dobbiamo notare una cosa: abbiamo distinto nel genere della realtà, e cioè nell’insieme di tutti i contenuti della coscienza, che abbiamo chiamati anche “pensieri”, la specie dei pensieri cognitivi, che comprende le enunciazioni delle idee e i giudizi, e il genere dei pensieri affettivi, che comprende desideri e sentimenti, dividendo così schematicamente l’attività cognitiva della coscienza e la sua attività affettiva; ma se nella nostra classificazione i due fondamentali moti dell’anima vengono distinti, dobbiamo però ricordare che nella realtà essi agiscono sempre in associazione fra loro; voglio dire che l’anima è un pensiero solo, e quando ella produce un pensiero in atto, esso ha un lato cognitivo e uno affettivo, soltanto che noi, nel denominare questi pensieri, a volte, poniamo l’accento sul lato affettivo, come quando indichiamo un desiderio dell’anima senza enunciare anche il lato cognitivo di questo pensiero, e cioè il giudizio su cui tale desiderio è fondato, a volte invece parliamo di cognizioni, trascurando nel nostro discorso di notare che anche i moti cognitivi sono moti, appunto, e dunque atti compiuti dietro a volizioni e cioè desideri e che dunque anche le cognizioni hanno un lato affettivo. Chi pretende di pensare “freddamente” per essere scientifico, sbaglia di grosso, se per “freddamente” intende l’impiego di un pensiero completamente sgombero da motivazioni, ovverosia che prescinda dal desiderio. Infatti, se il pensiero pensa è perché desidera pensare, altrimenti non si muoverebbe nemmeno, poiché nessuna azione avviene senza una causa, secondo la Seconda Legge della nostra psicologia, e anche il pensiero è un’azione, anzi è l’unica vera azione, di cui i nostri gesti fisici non sono che un pallido riflesso. Dicemmo, il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, che ogni atto o azione (l’azione è il processo, l’atto è il prodotto del processo) dell’anima si verifica in seguito a una volizione, e che la volizione è l’atto che compie la volontà di scegliere quale tra i suoi desideri sia da realizzarsi per primo. Di conseguenza, poiché anche gli atti cognitivi sono atti, e cioè prodotti di azioni, anch’essi sono stati dei moventi che hanno mosso l’anima: quando ella si fa intelletto mediante l’azione di guardare le idee, essa è spinta ad agire dalla volontà e quando ella compie l’azione di formulare giudizi, ugualmente è spinta dalla volontà, poiché la coscienza non agisce se non è determinata ad agire da un movente, e cioè quando non è mossa dalla sua volontà; l’anima non compie azioni senza una causa che la spinga ad agire e, quando agisce, la volizione che sceglie il movente della sua azione è determinata da un giudizio, sicché è evidente che se l’anima agisce per pensare le idee o per sussumere un individuo sotto a un concetto, è perché la sua volizione, quella che l’ha spinta all’azione, è stata determinata dal giudicare un bene la visione delle idee o l’atto di sussunzione ovverosia la formulazione del giudizio, il che è come dire che l’anima è stata spinta alla sua attività cognitiva dall’amore. E’ bene dunque pensare non freddamente, ma amorosamente, e cioè in seguito all’unica motivazione razionale che può muovere il pensiero, il desiderio del bene, che è la verità: che la ricerca della verità vada compiuta freddamente è una contraddizione in termini, perché se cerco la verità desidero il bene, e desiderare il bene significa amare ed essere dunque pieni di calore, non freddi. E’ freddo piuttosto chi vuole solo procurarsi soddisfazioni alla propria smania di ingigantire l’ego, e chi intraprende la ricerca non per amore ma per tale smania e cioè per superbia inevitabilmente finisce per sbagliare strada e deragliare in saperi falsi, poiché la verità non gli serve per ingigantirsi e dunque la evita e cerca altro. La freddezza come presupposto motodologico è un’idiozia.

§V,1.2.Teniamo conto, dunque, che ogni atto conoscitivo è l’espressione di una volizione, è anche un atto della volontà che realizza un suo desiderio, e poiché esso è un desiderio razionale, rivolto cioè al vero bene, poiché il bene è la conoscenza di sé dell’essere ossia la verità, questo atto conoscitivo è un atto di amore. Quando l’anima guarda le idee, che sono la retta rappresentazione che l’essere dà di sé stesso e dunque la verità, oppure quando compie giudizi cognitivi che le servono per dire la verità, per avvicinarsi al bene, vuole la verità; e questo volere il bene è, secondo il nostro linguaggio, amore ed essendo amore in azione, e cioè realizzazione del bene, è anche giustizia.  Procurarsi il bene è AMOR DI SE’; è quel retto amore che ogni anima ha per essere sana, e mancando il quale ella si ammala. Nessuna anima sana vorrebbe privare un’altra anima sorella o sé stessa dell’amor di sé, che è un bene grande e anzi indispensabile per tutto l’essere: se l’anima non ha l’amor di sé sostituisce questo retto amore mancante con l’egoismo, con sentimenti storpi e deleteri, come vedremo nello studio apposito che prossimamente dedicheremo all’umanità come malattia dell’anima. Nessun’anima che voglia il bene e che sia dunque giusta chiederebbe o, meno ancora, ingiungerebbe a un’anima sorella di umiliarsi, sacrificarsi, ritenersi indegna o incapace, e di rinunciare al bene. Non è abnegazione e sacrificio, né fede cieca o sottomissione che chiede tutto l’insieme delle anime elette, quelle sane e giuste e cioè Dio, quello vero, a una qualunque anima, ma amore per l’essere e cioè volontà di procurarsi il bene, la verità che ci fa essere, e la capacità di liberarsi dal male, cioè innanzi tutto AMOR DI SE’. Noi vogliamo che ti procuri il bene; e se tu compi l’atto intellettivo di guardare le idee, se ti fai come noi intelletto, e riconosci che questo è il tuo bene perché, come noi, sei pensiero ed è dunque la retta rappresentazione di te che ti fa essere, poiché il pensiero è l’essere ma se non si pensa e cioè non rappresenta rettamente sé stesso ma è oscuro non è realmente, allora desideri e vuoi ciò che tutti noi desideriamo e vogliamo: che tu sia e che tu sia pensiero libero dal male, che è ignoranza e menzogna, e che si è procurato il bene, la visione delle idee, la verità, tornando così a essere intelletto sano. Se tu guardi e vedi le idee dell’intelletto, dimostri di avere l’amor di te, la volontà di procurarti il bene, di essere cioè buono e giusto, altrimenti no. Hai trovato la medicina per guarire la malattia dell’anima? Hai eliminato da te il male, gli errori concettuali dell’intelletto falso che proviene all’uomo dalle false idee di essere dovute agli inganni dei sensi terreni e sei tornato a essere intelletto vero? Allora sei sano, ed è questa l’unica cosa che Dio si aspetta da te.

§V,1.3.Soltanto l’anima che abbia in sé la retta idea di essere, l’anima la quale sappia che l’essere è pensiero e cioè rappresentazione di sé, sa che il bene è la verità mediante cui l’essere rappresenta rettamente sé stesso, e si fa dunque intelletto appagando il suo eterno desiderio di bene e la sua eterna volontà di bene, l’amor di sé; ella è dunque eternamente gioiosa perché eternamente fruisce del bene e, come il Lettore, o la Lettrice, ricorderà, avevamo chiamato questo stato di eterna fruizione del bene “felicità”. Se non sei intelletto sano, cerchi invano la felicità: l’atto intellettivo eterno di guardare le idee è l’eterno appagamento dell’eterno amore dell’anima. Questo può farlo solo l’anima che abbia in sé la retta idea di essere, perché per arrivare a tale appagamento la sua volontà deve essere determinata dal retto giudizio, e cioè deve saper giudicare come bene ciò che davvero la fa essere eternamente e solo chi sappia che l’essere è pensiero e non materia extramentale e mondo oggettivo può sapere che ciò che fa essere l’essere, il bene, è il pensare rettamente, la retta rappresentazione di sé ovverosia la verità, perché il pensiero non è se non pensa sé stesso, e non pensa realmente sé stesso chi non si rappresenta secondo verità; l’essere, per essere, deve essere pensiero e verità, coscienza e conoscenza di sé. L’atto eterno di guardare le idee ed essere intelletto è causato dal desiderio di essere che si ripete infinitamente in ogni istante dell’eterna vita dell’anima, e che in ogni istante si fa volontà; è volontà di essere, ovverosia di dare a sé stessa il bene, e cioè eterno amore di sé dell’anima.

§V,1.4.Ma chi abbia perso la retta idea di essere, eclissata, dopo l’identificazione col corpo aggregato, dalle concezioni errate che ne derivano, di un essere fatto di materia eterogenea al pensiero e di una realtà che sarebbe mondo oggettivo, e non l’abbia saputa ripristinare ancora, difetta -ahimé- di tale amore, perché, pur volendo essere, cerca l’essere altrove che in sé, nel pensiero e nella coscienza, e dunque al posto del retto desiderio di bene, e cioè di alimentare la propria vera vita, l’eterno pensiero, con l’eterna visione delle idee che rappresentano l’essere, che sono la verità, chi crede di dover ricevere l’essere da qualcosa di esterno a sé e crede di essere il sottoprodotto della materia fisica e si identifica erroneamente col processo biologico, oppure si crede di essere il prodotto di chi ha creato il corpo e ci ha soffiato dentro l’anima, avrà il desiderio di ciò che consente al corpo fisico di sopravvivere e di ciò che gli reca utile materiale, non del vero bene. Al posto dell’amor di sé, l’anima irrazionale, quella cioè che si sia lasciata ingannare dalla contraffazione dell’essere che si trova nei corpi fisici, ha dunque desiderio di sopravvivenza biologica e tutti i suoi affetti ricevono in questa situazione, a causa del concetto di bene errato che così si è introdotto in lei, una disastrosa deviazione verso beni falsi, quelli appunto che servono alla sopravvivenza materiale: tale deviazione si può chiamare “egoismo” ed è questo l’inizio della malattia dell’anima, la quale è dunque un’inevitabile conseguenza della condizione umana, della condizione cioè dell’anima che sia imprigionata in un corpo aggregato e ingannata da un sistema nervoso nello spazio terreno.

§V,1.5.La perdita dell’amor di sé, spostato verso il corpo fisico e trasformato nel desiderio di sopravvivenza biologica, significa anche la perdita della STIMA DI SE’: ignorando ormai di essere l’essere, e dunque di essere il bene, l’anima non si dà più alcun valore, poiché noi diamo valore solo a ciò che è bene, mentre l’anima che sia intelletto sano e che abbia in sé l’idea di essere può riconoscersi come essere, come una retta rappresentazione dell’infinito essere, e dunque come un bene. Da tale riconoscimento, che dipende dalla retta idea di essere, l’anima che sia intelletto sano ricava la STIMA DI SE’, il sentimento che nasce dal valutarsi come un bene; esso non è proprio la stessa cosa che l’amor di sé, ma questi due sentimenti sono legati strettamente e si può dire che la stima di sé consegua immediatamente dall’amor di sé: l’anima che ha saputo procurare a sé stessa il bene, che ha mostrato dunque amor di sé e ha saputo appagarlo, si stima un valore ed è soddisfatta di sé, e questa è appunto stima di sé o contentezza.

§V,1.6.La copia contraffatta di questo sentimento razionale di stima di sé o contentezza, che dir si voglia, è l’irrazionale valutazione di sé del superbo, il quale, non essendo capace di accreditarsi il retto valore, a causa della mancanza nella sua anima della retta idea di essere che gli consentirebbe di giudicarsi un bene e dunque di darsi valore in quanto coscienza e pensiero, cerca di attribuirsi un valore illecito e spurio, con mezzi irrazionali, cercando il valore fuori di sé: ha bisogno di darsi valore con un mezzo a lui esterno (per esempio, ricchezza, appartenenza a un ceto elevato, potere, successo nel lavoro etc.: sono i “punti di alienazione del valore” di cui abbiamo parlato ne La cura dell’anima) perché ha perso il proprio valore intrinseco. L’alienazione del valore è ciò che consegue all’alienazione dell’essere ed è il sintomo del grado più approfondito della malattia, la quale dall’egoismo, che ne rappresenta il primo stadio, è così passata alla superbia, o tendenza ad ingigantirsi, ovverosia allo stadio aggravato.

§V,1.7.L’anima che ha trovato la verità si dà valore legittimamente, ha la retta stima di sé, perché sa di essere una retta rappresentazione dell’essere e dunque legittimamente si ritiene un bene, e se si giudica un bene legittimamente, legittimamente si dà valore e così è sana; l’anima che non giudica sé stessa un bene si svaluta, sicché chi non conosce la retta idea di essere e non può dunque giudicare un bene sé stesso in quanto retta rappresentazione dell’essere, perché non sa appunto questo, che è un bene per l’essere la retta rappresentazione di sé, inevitabilmente si ammala, perché chi si svaluta si ammala, e cioè produce dentro di sé quelle tendenze irrazionali a cercare i falsi beni che le servono per accreditarsi un valore spurio e illegittimo nel penoso continuo tentativo di negare la mancanza di valore che sente in sé stessa; ed è questo, come si ricorderà, che noi abbiamo chiamato malattia o malvagità. Occorre dunque la nostra sapienza ontologica per poter trovare questi due fondamentali sentimenti sani, l’amor di sé e la stima di sé o contentezza; chi attacca invidiosamente l’anima contenta di sé, che si stima, come se stimarsi fosse un atto d’orgoglio, e la costringe a sacrificare il suo bene, come se amare sé stessi fosse un peccato, chi nega il valore della visione delle idee, lo sguardo assiomatico-deduttivo dell’anima che vede l’essere e si procura così la salute e la luce, e impedisce al prossimo la ricerca della verità col retto metodo logico-razionale imponendo credenze irrazionali e dunque false per fede e in modo dogmatico, chiamando superbia (o, come un tempo, eresia) la ricerca del bene, compie atti aggressivi verso l’essere dell’anima e ne nega il valore, il che per noi è gravissima ingiustizia; e quando riesce nel suo intento, quando cioè riesce a imporre l’autorità falsa di un’istituzione dogmatica che impone umiltà e negazione di sé all’anima, e le impedisce di guardare la luce e di essere intelletto sano, questo per noi è il più grave reato, la colpa più grave che si possa commettere, è spiriticidio, perché l’ignoranza o tenebra è la morte dell’anima; quando poi tale colpa si è ripetuta per secoli e secoli su numerosissime anime, questo lo chiamiamo genocidio spirituale. Ama te stessa, dunque, anima sorella, senza curarti delle menzogne di questi mostri spiriticidi, e procurati il bene: noi, l’insieme di tutte le anime che sono intelletto e amore, il vero Dio, saremo felici; e non perdere mai la stima di te: noi ti diamo valore e sarai in accordo con noi se ti dai valore e trovi la contentezza; guarda le idee, applica il metodo logico razionale, e sii intelletto perché le idee sono la nostra luce e il nostro bene, sono ciò che ci fanno essere, e noi vogliamo il tuo essere, il tuo bene.

 

§2.Il rapporto tra l’idea di essere e l’amore per il prossimo. La stima per gli altri.

§V,2.1.Già ne parlammo più volte nelle nostre riflessioni passate, ma lo ripetiamo qui per completezza sistematica: ogni anima ama l’essere, nessuno vorrebbe non essere, ma solo l’anima che abbia in sé la retta idea di essere può amare l’essere vero, che non è né un mondo oggettivo né un Essere Sommo: l’essere vero è l’infinito pensiero, che è realmente in quanto è retta rappresentazione di sé, e solo l’anima che sia anche intelletto e sappia vedere le rette idee sa che l’essere infinito non è un essere, ma, appunto, l’origine infinita e inesauribile di una molteplicità infinita di esseri, e che questi esseri non sono altri esseri diversi dal primo e da lui creati, perché l’origine, la fonte inesauribile degli esseri, quella infinita potenza di pensare che si realizza rappresentando sé stesso nell’atto di pensarsi effettivamente, non è un essere individuale (tanto meno uno che poi non si sa come è anche tre), ma è infinito, e non è né uno né molti, bensì potenza di essere ogni individuo e molteplicità infinita. Sicché l’infinito essere non crea altri esseri diversi da sé, ma compie l’atto di pensarsi e ciò che genera, dunque, è la coscienza di sé, è una serie infinita di atti in cui esso, il pensiero infinito, rappresenta finitamente sé stesso; e questi atti, che siamo noi coscienze individuali, non sono altro dal principio, ma noi siamo lui stesso in quanto si rappresenta e non siamo creature, né il suo atto è creazione, ma siamo il vero essere e la realtà.

§V,2.2.Né potrebbe l’essere creare altri esseri diversi da sé, perché se qualcosa è diverso dall’essere è non essere e non può essere. Ugualmente dicasi per la materia, che l’essere non può creare “dal nulla” e porre “fuori di sé” come qualcosa di diverso da sé, come un altro essere, poiché il nulla è non essere e non può essere, e nulla può esistere fuori dall’essere, perché ciò che è fuori dall’essere è non essere, e come già detto appena qui sopra, se qualcosa è diverso dall’essere, non è nulla. L’impossibilità logica di un Dio creatore e del suo doppio atto di creazione, che lo pretenderebbe capace di creare sia la materia extramentale che le anime, altri esseri diversi da lui, unita all’impossibilità razionale di una materia eterogenea al pensiero e di un mondo oggettivo, cioè di qualcosa che esiste senza una ragion sufficiente che la faccia esistere, ci mette sulla strada giusta per vedere l’essere: pensiero infinito che per definizione è coscienza, poiché il pensiero non è se non pensa sé stesso e la coscienza è appunto pensiero di sé, retta rappresentazione di sé, idea di essere.

§V,2.3.L’anima che vede rettamente l’essere, ed è dunque intelletto, sa che l’essere è pensiero infinito che si rappresenta in infiniti atti di coscienza, in infiniti pensieri in cui il pensiero pensa sé stesso, ovvero che l’essere è la sua molteplice coscienza. L’anima sana eternamente pensa la definizione retta dell’idea di essere: l’essere è spirito, è la somma cioè di tutte le proprie coscienze. Se l’uomo di oggi non coglie questa semplicissima e immediata verità è perché si chiama spirito, nella nostra cultura, qualcosa di estremamente vago e impreciso, incomprensibile, è perché si spaccia per spirito il fumo: per noi è spirito l’intelletto e spirito è il collettivo di anime che sono intelletto, con tutte quante le forze che dall’intelletto si producono, e cioè facoltà (ragione, immaginazione, volontà) e disposizioni (tendenze affettive). Da tale visione eterna dell’essere l’anima sana trae un sentimento che è amore eterno per l’essere, poiché ella eternamente lo giudica un bene, anzi lo considera il suo unico bene, e il bene più alto, e non ha bisogno di altro; ma se ama l’essere quale realmente è, come spirito e cioè pensiero e infinite coscienze, ama tutte le coscienze dell’essere, tutte le anime, sé stessa e tutte le altre, ogni altra anima come sé stessa.

§V,2.4.Insieme e non in antitesi con l’amor di sé l’anima ricava dall’idea di essere l’amore per il prossimo, per ogni coscienza dell’essere; e insieme alla stima di sé, non in concorrenza con essa, ella può ricavare dall’idea di essere la stima retta per gli altri individui: ella li stima insieme a sé dei valori, perché a ciò che percepiamo come bene diamo valore e tutto l’essere ha valore, e se le anime sono l’essere, tutte insieme esse hanno valore, e ognuna ne ha. E se ella ama l’essere di tutte le altre anime, significa che vuole il loro bene, e se le stima, dà loro valore cioè, significa che dà a tutte le anime ciò che loro spetta e dunque le tratta con giustizia. L’idea di essere ci ha rese, tutte quante noi anime che siamo intelletto e che vediamo le idee, buone e giuste: noi, che siamo intelletto, siamo perciò anche amore e volontà di bene.

§V,2.5.Bisogna però evitare un errore che porterebbe l’anima a confondersi e a trovarsi in qualche difficoltà: saremmo grossolani se pensassimo che l’anima buona e giusta, cioè sana, sappia solo provare sentimenti positivi e non sia capace di detestare nessuno. Non è così, poiché abbiamo già più volte detto, nel corso delle riflessioni passate, che ci sono due tipi di amore, e cioè la gioia che si prova per un bene già presente e il desiderio di bene che l’anima prova quando il bene le manca, sicché noi abbiamo due modi diversi di amare, a seconda che ci troviamo di fronte a un’altra anima che sia intelletto e dunque abbia già in sé il bene oppure a una che ne difetti. Fermo restando che le stimiamo entrambe un valore, la seconda però è un’anima oscura e dunque non inoffensiva perché, difettando della retta idea di essere e di bene, presenta tendenze irrazionali e cioè malvagie, sicché, pur amandola, ma nel secondo senso del termine ovverosia desiderando che si procuri il suo bene, la verità, e che si liberi dal male, la mancanza di intelletto, e dalla malattia, dalle tendenze malvagie che dal difetto di intelletto derivano, ad un tempo la detestiamo anche, una volta che ella abbia svelato le sue interne inclinazioni e ci abbia colpito, e ci sentiamo addolorati per il suo male e per la sua malvagità. Una volta che un’anima abbia mostrato di provare per noi o per qualcun altro sentimenti distruttivi, a buon diritto noi giudichiamo un male le sue inclinazioni e la consideriamo pericolosa, e quando giudico una cosa come un male razionalmente, razionalmente e a buon diritto la temo e la detesto.

§V,2.6.Questi sentimenti negativi che provo verso chi si mostra distruttivo verso di me, è importante capirlo, non sono sentimenti di odio: infatti chiamo ODIO la negazione dell’amore, il desiderio di negare o distruggere l’essere di qualcuno o il suo valore, mentre se mi addoloro perché un’anima difetta del bene ed è malvagia, e la disapprovo, questo non è odio ma desiderio di bene e cioè una forma di amore; e anche se lo o la detesto, e cioè non voglio più avere niente a che fare con costui o costei, questo non è odio, perché non voglio distruggere o negare il suo essere, né gli o le nego il valore, ma voglio solo evitare che mi addolori con i suoi sentimenti distruttivi e mi colpisca con le sue azioni ingiuste. I sentimenti negativi razionali verso le persone che desiderano o vogliono il tuo male e nutrono verso di te sentimenti negativi irrazionali non sono colpe, è bene ricordarlo e non lasciarci confondere da chi ci vuole far sentire in colpa se proviamo rancore verso qualcuno o ci irritiamo, se non siamo disponibili con tutti e se non assecondiamo tutte le pretese di chi ci sta intorno. L’anima che sia intelletto ricava, dunque, dall’idea di essere e dall’idea di bene che immediatamente ne consegue, non solo tendenze a sentimenti positivi, all’approvazione e alla gioia, ma anche tendenze a irritarsi e a reagire di fronte al male.

§V,2.7.Ovviamente, l’anima che sente come bene la verità, il suo essere intelletto che vede le idee, sentirà come male tutto ciò che minaccia di toglierle la verità e, poiché dicemmo che sentire come male una cosa significa detestarla e desiderare di evitare che si verifichi o di eliminarla quando c’è, è chiaro che l’anima che sia intelletto sano detesterà chiunque tenti di levarle la verità e di imporle l’errore, o anche solo chiunque ostacoli la sua ricerca della verità o chi la svaluta disprezzando il pensiero retto e l’uso della ragione. Di questo desiderio negativo ella farà la sua fondamentale volizione, se si trova nel mondo umano dove trionfa il male, e cioè il falso sapere, e si determinerà ad agire contro chi glielo impone; saprà armarsi contro siffatti nemici, e le sue armi saranno le confutazioni logiche degli errori concettuali che sono il male e le sue azioni saranno studi e ragionamenti, e anche riflessioni dirette a capire i moventi delle volontà distruttive di cui sopra e il loro esplicarsi nella storia. Questa, detto in simboli, è la lotta contro il drago: essa è lo studio, con i nostri criteri, del campo di esperienza del male.

§V,2.8.Ma, comunque, anche nelle singole situazioni contingenti e non solo nei confronti delle imposizioni della cultura dominante l’anima sana sarà determinata a combattere: contro i genitori che vogliono costringerti ad allineare le tue energie verso ciò che la società spaccia per dovere, arricchire e mettere su famiglia, contro coloro che ti mostrano il loro biasimo e ti aduggiano coi loro predicozzi per convincerti a conformarti a tale sistema di valori falsi, che ti danno dell’egoista o del superbo perché ti curi di te stesso procurandoti il bene, la retta conoscenza dell’essere, dell’uomo e del male, e t’accusano d’orgoglio perché studi e sviluppi l’intelletto e la ragione, contro tutti gli invidiosi che ti fanno capire più o meno esplicitamente che ti trovano antipatico perché ti impegni là dove loro sono negligenti, contro la gelosia dei professori e di tutti coloro che monopolizzano il settore dell’educazione e della cultura senza averne gran che competenza... La vita sulla Terra di un’anima sana che sia nel mondo occidentale è un continuo campo di battaglia e l’eletto è un guerriero continuamente tenuto a difendersi dagli attacchi che provengono da ogni dove. Sicché, lo ripeto, non è una colpa provare sentimenti negativi verso le persone che vogliono farti del male: questa è irascibilità razionale, ed è anche franchezza: è meglio diffidare di coloro che, per far mostra di esser santi, hanno sempre un modo di fare affabile, un modo di gestire e di parlare sempre soave e mellifluo, e che non alzano mai la voce ma parlano sempre a mezza bocca, e mai in maniera incisiva, non danno mai pareri decisi, non giudicano, non disapprovano mai nessuno e tollerano tutto, perdonano tutto, si fanno sempre andar tutto bene. Costoro hanno fatto della bontà e della mitezza un punto di alienazione del valore, un modo per gonfiare il proprio ego e soddisfare la propria superbia, e non si sono procurati la vera bontà, né sanno dove stia di casa la vera mitezza.

§V,2.9.E noi siamo anche diversi da quanti, incapaci di riconoscere il bene dal male e quindi sempre insicuri nei loro giudizi, sembrano miti e tolleranti, ma sono solo deboli e acquiescenti: non bisogna far passare per persona comprensiva e mite l’acquiescente, che è solo incerto, non sa decidersi, non è sicuro nei suoi giudizi e quindi non ha il coraggio di colpire con critiche incisive chi sbaglia, perché è comprensivo solo chi è capace di comprendere le vere cause che fanno essere il male, ed è questo realmente il mite, colui che sa aspettare con pazienza e sopportare il male fino a che non si verifichi la possibilità di sradicarlo, fino a che non sia possibile mettere in atto le cause opportune perché il male sia sradicato realmente, senza tentare di imporre con indottrinamenti forzati una verità a chi non la vuol accettare, e senza sfogare con gesti inutili e violenti i propri sentimenti negativi, ma che, ciò non di meno, ai suoi sentimenti negativi razionali e al preciso giudizio su cui essi sono fondati rimanga legato: egli li conserva come valori finché occorrono, perché sa che solo per via di tali rimproveri, a tempo debito e nella sede opportuna, l’anima colpevole si sentirà spinta a liberarsi delle proprie tendenze irrazionali e dal male, dalla sua stoltezza, dai difetti cioè del suo intelletto, che tali tendenze ha generato. Questa è la vera mitezza, e il vero amore, perché è così che si fa il bene dell’anima colpevole, rimproverandola e spingendola alla guarigione, non perdonandola a vanvera e spingendola così a conservare e peggiorare i suoi vizi. E siamo noi a essere veramente comprensivi, noi che sappiamo addolorarci e detestare, e che di fronte ad azioni colpevoli andiamo in collera, perché ci addoloriamo e detestiamo, e andiamo in collera, proprio perché percepiamo il male come male, e ne cerchiamo le cause comprendendole realmente e ce ne stiamo quieti finché le cause devono operare e non c’è la possibilità di rimuoverle.

§V,2.10.I nostri rimproveri qui sono muti e inascoltati, non è qui sulla Terra che noi esprimiamo i nostri giudizi; sarebbe fatica inutile e ci attireremmo soltanto le antipatie degli uomini in via, che non accettano il bene, e le loro vendette: non si può raddirizzar le gambe ai cani, dice un saggio proverbio. Qui siamo muti, ma i nostri sentimenti e desideri negativi, la nostra disapprovazione, il nostro biasimo e i nostri rimproveri, sono dentro di noi e li teniamo cari. E, comunque, questa capacità di difendersi dal male fa parte dell’amor di sé e della stima di sé, perché solo chi non vuole il bene e chi non si ritiene degno del bene abbandona sé stesso in balia del male e dei malvagi. Sicché, com’è giusto, dall’idea di essere e dall’idea di bene che immediatamente ne consegue noi traiamo la tendenza all’amore di noi stessi e del prossimo, la giustizia e anche perciò le tendenze a disapprovare chi si mostra lesivo nei nostri confronti perché contrario al bene, e la forza di combattere il male. Si ritornerà sul medesimo argomento poco oltre.

 

§3.Il rapporto tra l’idea di giustizia e i sentimenti.

§V,3.1.Se ho l’idea di essere, ho l’idea di bene perché è bene l’essere e ciò che ci consente di essere. Già parlammo del rapporto che c’è tra l’idea di bene e i desideri, e già dicemmo che dall’idea di bene nasce il sentimento di gioia per il bene presente o i sentimenti negativi per la percezione di qualche male presente; completiamo il discorso guardando quali sentimenti fondamentali nascono dall’idea di giustizia, che immediatamente deriva da quella di bene, essendo la giustizia la realizzazione del bene. Se amo me stesso o un’altra anima, e se stimo me stesso o un’altra anima questo significa che ritengo me stesso o un’altra anima degni del bene: se sei un atto di coscienza dell’essere e sei dunque l’essere, ti spetta l’essere e ciò che ti fa essere, e cioè il bene, e ti spetta il valore: se siamo giusti, dunque, e amiamo la giustizia rispetteremo il tuo essere e il tuo valore.

§V,3.2.Perciò, oltre a gioire se hai in te il bene, che è la verità, e già sei intelletto e forma eletta, e oltre ad avere la stima di te che mi sono procurato guardando l’idea di essere e vedendo dunque correttamente anche l’idea di bene, grazie all’idea di giustizia potrò generare in me anche la tendenza a sentire RISPETTO per te e per il tuo bene: tenderò a rispettare il tuo intelletto, che è il tuo bene e ti dà l’essere, e cioè non mi permetterò mai di negare la tua intelligenza quando la eserciti, per esempio cercando di contraddirti o confonderti per dirmi più intelligente oppure omettendo di prendere atto di ciò che dici  e così via; né tanto meno di danneggiarti coll’impedirti in qualche modo di vedere le idee e formulare giudizi, per esempio coll’importi un falso sapere, o accollandoti uno stile di vita dove l’esercizio del pensiero sia escluso, come si fa ancora oggi nel nostro modello economico-sociale. Infatti, se sento come un bene la giustizia, che è darti ciò che ti spetta, e cioè l’essere e il valore, sentirò come bene che tu abbia la verità, e cioè che tu sia intelletto e intelligenza e, poiché ai beni diamo valore, rispetterò il tuo intelletto e la tua intelligenza, perché quando diciamo che una cosa ha valore, intendiamo dire che essa va conservata e cioè rispettata.

§V,3.3.Dall’idea di giustizia nasce dunque la tendenza al rispetto e ogni singolo atto di rispetto che avrò nei tuoi confronti, per esempio non darti fastidio mentre studi, non anteporre le mie esigenze all’importanza dei tuoi studi pretendendo, come invece fanno le mogli coi mariti o, in modo anche peggiore, i mariti con le mogli, che tu ti occupi di me invece che dei tuoi studi e così via. E’ un atto di ingiustizia e una mancanza di rispetto ostacolare un’anima che sta cercando il suo bene, la verità; e di tale mancanza di giustizia e di rispetto è colma, anzi, impregnata la nostra società occidentale, perché ivi tutto impone alle persone che in essa vivono di deviare verso altri scopi, diversi dalla riflessione e dallo studio o dall’espressione del pensiero, per dedicarsi solo all’utile e, là dove l’utile è già più o meno facilmente raggiunto, allo scialo, al consumo sfrenato e all’esibizione di lussi o all’esaltazione dell’ego. Il nostro modello di vita impone tutti gli scopi sbagliati, e trascura quelli giusti. Ma dei principi storti su cui si fonda la nostra società occidentale, e in particolare questo capitalismo degenerato in consumismo e in sfruttamento, dovremo parlare in altra sede. Qui basti dire che la morale comune spinge alla mancanza di rispetto e all’ingiustizia sia negli atti individuali quotidiani che nell’organizzazione del mondo del lavoro e dell’economia: questo sistema di vita non rispetta l’anima umana e la sua primaria esigenza, che è trovare il bene.

§V,3.4.L’idea di giustizia radicata in me produrrà anche la tendenza a rispettare la tua volontà, perché anche quella è un valore: spetta infatti all’anima l’esercizio della volontà, poiché se ella non desidera e non vuole, nemmeno è: infatti, come abbiamo detto, anche l’atto di pensare e conoscere  sé stessa è per l’anima un atto della volontà, e se l’anima non si pensa, non è. Se ti spetta l’essere, ti spetta per ciò stesso anche il volere; sicché noi rispettiamo la volontà del prossimo anche quando erra, perché impedendole di errare col conculcarla mediante coercizione le impediremmo di esercitarsi e dunque di essere, la incepperemmo a un grado errato, mentre se l’anima sbaglia, comunque vuole, anche se cerca falsi beni, e prima o poi troverà il bene vero, perché chi cerca trova, e se le impedisci di cercare le impedisci di trovare.

§V,3.5.Sicché, io che ho in me l’idea di giustizia, so bene che se sei essere ti spetta l’essere, ti spetta cioè di pensare, di vedere la verità e di impiegare la ragione, e ti spetta di desiderare e di volere, e di avere sentimenti: chi nega questo e commette atti contro questo principio commette ingiustizia. Dall’idea di giustizia, dunque, nasce in me anche il rispetto per i tuoi sentimenti e desideri, che considero un valore. Mai mi sognerei di disprezzare i sentimenti di un’altra anima, di mancar loro di rispetto, anche quando essi fossero irrazionali. Giudicare irrazionali e cioè malvagi dei sentimenti o desideri e disapprovarli non è mancare di rispetto, ma, anzi, constatando ciò che realmente sono li rispetto, è solo che non li apprezzo perché non li condivido. Infatti rispettare una cosa significa anche dire la verità su di essa e non mentire su che cos’è realmente, poiché se mento non rispetto il suo essere. Non è giudicandoli per quello che sono che manco di rispetto a dei sentimenti o desideri malvagi, ma, semmai, deridendoli o compiacendomi malignamente del fatto che chi li prova è meno giusto di me. Se non apprezzo codesti sentimenti o desideri prodotti da false idee di bene e dunque irrazionali, non è che li disprezzo: qui il linguaggio comune non ci aiuta, perché chiama disprezzo non la constatazione che una cosa sia priva di valore, e cioè il mancato apprezzamento, come vorrebe l’etimologia della parola, ma la mancanza di rispetto, il sentimento di dileggio e scherno che una persona può provare per qualcosa. Ma se nego il valore a ciò che non l’ha non sto disprezzando questa cosa nel senso appena dato del termine, sto solo disapprovandola, le nego il valore perché so che non è un bene. Sicché dobbiamo distinguere: davanti a desideri o sentimenti, posso apprezzarli oppure no, ma in entrambi i casi li rispetto, cioè non pongo in dileggio e non disprezzo chi li prova; chi disprezza i sentimenti o i desideri altrui compie un atto di ingiustizia, sia che questi affetti siano razionali e cioè buoni, rivolti al bene, sia che non lo siano, perciò io apprezzo e rispetto i desideri e i sentimenti razionali, rivolti al bene, e li condivido, non apprezzo i desideri irrazionali che sono rivolti ai falsi beni perché non li condivido, ma li rispetto comunque, e rispettarli significa prenderne atto e preoccuparsene, cercare di capire da che errori nascono le tendenze a provarli e farsi carico del tentativo di sradicarle, di eliminare cioè dall’anima quegli errori concettuali che ne sono l’origine, insomma cercare di capire e studiare con serietà i contenuti di quell’anima, il che è molto diverso dal comportamento di chi si scaglia con compiaciuta malignità sugli errori altrui per sentirsi moralmente superiore ed esaltarsi al confronto.

§V,3.6.Dall’idea di giustizia nasce dunque anche quest’altro sentimento ben preciso: la PREOCCUPAZIONE, che è tendenza alla cura e si può chiamare anche “impegno”; è una cosa di cui l’uomo moderno difetta assai. Se vedo un’anima ammalata, se percepisco il groviglio dei suoi affetti irrazionali, la sua malvagità, mi preoccupo. La preoccupazione è una forma di rispetto, che è il sentimento dell’uomo giusto e amoroso, perché, come dicemmo, la giustizia è amore. Ma come prima, nel caso dell’idea di bene che genera nell’anima anche tendenze verso sentimenti negativi, che ci fa cioè detestare chi tenti di privarci del bene, anche ora notiamo che dall’idea di giustizia si generano non solo rispetto e preoccupazione e sentimenti positivi di questo genere, ma anche SENTIMENTI NEGATIVI. Infatti, non è possibile che l’anima eletta  provi avversione solo verso chi agisce contro di lei, perché l’anima che sia intelletto sano ritiene che tutto l’essere sia il suo bene, e sentirà quindi come male anche che un’altra anima sua sorella sia privata del bene, perché sa che l’essere è la somma delle sue anime ed è bene per ogni anima che tutte le anime abbiano in sé il bene, la verità, e siano intelletto e dunque retta rappresentazione dell’essere. Noi dunque detestiamo chi voglia privare della verità, del bene, sia noi stessi che le altre anime, sicché dall’idea di giustizia, che è desiderio di condividere il bene, di realizzare quello stato in cui ciascun anima ha ciò che le spetta, e cioè ha in sé il bene che la fa essere e può dunque stimarsi un valore, non si origina solo la tendenza ad approvare gli atti di giustizia, quelle azioni che portino verso la realizzazione del bene di tutto l’essere, e a compiacersene -come le rette opere educative, la diffusione di dottrine rette, di retti principi e di tutto ciò che è espressione della verità, o anche solo la confutazione di errori concettuali e lo sgombero degli ostacoli che impediscono a chi lo voglia di dedicarsi alla riflessione e allo studio- ma anche la disposizione ben precisa a disapprovare chi tende a privare il prossimo del suo bene, della verità.

§V,3.7.Tali sentimenti di DISAPPROVAZIONE, insieme con i giudizi retti che li producono, sono atti di giustizia e dunque sono amore, perché sono volontà di bene (cfr. quanto detto sopra, ai §§IV,2.2-3). Nella nostra lingua ci sono varie parole che possono esprimere la disapprovazione, che ne distinguono i diversi gradi di intensità. Se vedo qualcuno che tenta di privare della verità, che è il bene, me o un’altra anima, quello che sorge in me dal mio giudicare un male tale atto e una colpa tale azione, facoltà che ho perché ho in me l’idea di giustizia, si chiama BIASIMO. Dunque dall’idea di giustizia si origina in me la tendenza al biasimo; un’anima dovrebbe biasimare anche sé stessa quando si priva del bene per negligenza o per qualche altro motivo, cioè quando omette di cercare la verità, perché compie un atto di ingiustizia verso sé stessa e verso di noi che vogliamo tutte le anime in possesso del bene. Come già detto, il biasimo non è un sentimento colpevole, di antipatia, verso il prossimo, ma è un sentimento razionale e cioè amoroso, se rettamente fondato. Se l’atto (ciò che si produce con un’azione) è un male, l’azione è una colpa; sicché se io sussumo rettamente sotto il concetto di male ciò che con la tua azione hai prodotto, rettamente giudico la tua azione una colpa e rettamente ti biasimo, disapprovo il tuo male, che è carenza di bene e cioè difetto di intelletto, e la malattia che ne deriva ovverosia le tue tendenze alla colpa, e cioè voglio il tuo bene, che tu torni a essere intelletto sano e forma eletta, e questo significa che ti amo, non che ho antipatia per te e il mio sentimento è tutt’altro che colpevole nei tuoi confronti. Sulla retta idea di bene e di giustizia si fonda dunque una tendenza razionale al biasimo, che è amore ed è una facoltà della forma eletta: se ho l’abitudine di giudicare un male ciò che è realmente tale avrò l’abitudine al biasimo, perché esso, come ogni sentimento negativo, è la percezione di un male: se mi privi del bene, me o un’anima mia sorella, compreso te stesso, compi un male, e dunque a ragione ti biasimo.

§V,3.8. I sentimenti negativi razionali sono un tipo di amore e chi ne difetta ha difettoso l’amore. Già parlammo (cfr. supra, §IV,5.2) della severità, che è appunto la tendenza a provare questo tipo di sentimenti, la quale poi in atto si esprime nei singoli atti affettivi che sorgono in noi di volta in volta, nella singola occasione contingente, quando cioè vediamo un’azione colpevole che manifesta la volontà di privarci del bene, e che sia il nostro bene o quello del prossimo non fa differenza perché è nostro bene quello di tutto l’essere, è nostro bene il bene di ogni anima: per noi bene è l’essere e l’essere è la somma delle sue anime. Un’anima che sia intelletto sano non può non avere in sé anche la severità. Non respingere chi ti biasima razionalmente, dunque, perché ti ama: non tutti i sentimenti negativi sono odio e antipatia, ripetiamolo perché è importante, e questo rifiuto di essere biasimati significa disinnescare nella nostra cultura ogni efficacia educativa. Di contro, non lasciarti biasimare da chi lo fa in maniera irrazionale, perché i sentimenti irrazionali sono odio, sono distruttivi e sono colpe. E’ per questo che è importante classificarli tutti per bene e imparare a distinguerli: dove sta il lupo e dove sta l’agnello? che fai se il lupo si maschera da agnello? Ci caschi? Spero proprio di no. Classificheremo i sentimenti dell’anima ammalata nella già promessa opera sull’umanità come malattia dell’anima e così, anche se ciò non servirà nell’immediato per guarire le anime irrazionali e malvagie degli altri, servirà almeno a noi sia per tener lontana la nostra anima da simili difetti, sia per difenderci da desideri e sentimenti irrazionali altrui che possano colpirci, qualora non ne distinguiamo bene la natura di male e li assecondiamo. Qui proseguiamo con ordine nella classificazione dei sentimenti negativi razionali che vengono generati dall’idea di giustizia e dalla disposizione che ne deriva a disapprovare il male.

§V,3.9.Lo SDEGNO è un biasimo a grado più intenso e si manifesta davanti ad azioni colpevoli gravi e ripetute, e anche davanti a colpe facilmente evitabili, cioè quelle prodotte da una concezione errata di bene vistosamente assurda e facilmente confutabile, dove la protervia dell’attaccamento si fa evidente, quando la volontà di privare noi e il nostro prossimo del bene sia tenace e profonda e magari si eserciti effettivamente con mezzi efficaci. Il Lettore, o la Lettrice, ne ha già avuti molti saggi, ha già avuto occasione di percepire il mio sdegno, se ha seguito il corso delle mie precedenti opere: sono tutti quei luoghi dove mi rivolgo ai Cattolici, è per loro il nostro principale sdegno, per la loro forma spirituale colma dei vizi più esasperanti perché carente di intelletto sano, cioè di bene. Vedremo nell’analisi della malattia dell’anima che il Cattolicesimo ha impresso nell’anima del cattolico la forma di chi è massimamente incompetente, ma che alimenti in sé la massima presunzione, perché i Cattolici non hanno la minima idea di che cosa sia il bene e il male dell’anima, anzi ignorano completamente che cosa sia l’anima perché non sanno che cos’è l’essere, e tuttavia pretendono di essere in possesso della verità per rivelazione e, seguendo la precettistica e l’osservanza imposte da un’autorità irrazionale, presumono di essere moralmente superiori agli altri. Da tale combinazione di presunzione massima e massima incompetenza si generano, anzi si scatenano, i sentimenti irrazionali più deleteri, la gelosia e l’invidia tipiche dell’inetto superbo che non tollera termini di confronto.

§V,3.10.Uno sdegno a carattere ancora più intenso si chiama COLLERA, e sorge in noi quando, come in effetti è accaduto nella storia della Chiesa cattolica, il male si accumula al male, a violenza si aggiunge violenza, a prepotenza prepotenza con protervia esasperante; quando pur di poter proseguire nella soddisfazione di assurde smanie di dominio e di prevaricazione, e della propria avidità, e della sete di potere, per lungo tempo ci si oppone ostinatamente, con disonestà concettuale e prepotenza, a ogni passo verso la verità, a ogni benché minimo progresso; quando a ogni bivio per secoli e secoli si è sempre imboccata la strada sbagliata, la via larga del potere e dei lussi, dell’associazione con i potenti e contro gli umili, e si rifiuta sempre la svolta progressiva. Quando per esempio -e questi sono gli argomenti di attualità- ci si oppone alla ricerca medica in nome, assurdamente, del valore della vita, ingannati dalla simulazione di vita che appare nel mondo fisico e spinti da tale inganno a scambiare per vita il processo biologico di un grumo di cellule, assurdamente sacralizzandolo col definirlo “dono di Dio”; o quando si impone con prepotenza e crudeltà di permanere nella sofferenza e nello strazio a chi è intrappolato in un processo biologico ormai logoro o troppo danneggiato e disfatto, umiliando così la vera vita, che è coscienza e pensiero, in nome di quella falsa, il processo biologico, idolatrato e sacralizzato come dono di Dio persino quando è solo un residuo penoso, anzi straziante, e ormai inservibile... quando, insomma, ci si oppone alla verità anche quando essa è massimamente evidente e la si soffoca, la si sgozza anzi, sgozzando così Cristo stesso che è la verità, con una pletora di parole contorte, di argomentazioni cavillose, di espressioni retoriche e melliflue, di tortuosità e forzature, ecco: di fronte al rifiuto della verità e all’imposizione dogmatica di una verità falsa e di una morale assurda prodotta da tale falsa verità, tenuta in piedi con tanta protervia per secoli e secoli, con tanta disonestà concettuale e, insomma, di fronte a questo tenacissmo amore per la menzogna e per il male, a tale tenacissimo attaccamento ai mezzi che servono a soddisfare una tale superbia, e cioè a potere e prestigio, al fasto e all’autorità di una istituzione laida ed ebbra, di una Chiesa satanica, di fronte a tutto questo noi andiamo in collera. E chi non ci segue in questo è debole e difetta di amore.

§V,3.11.Questa è severità, e cioè giustizia, e questo è amore, è l’amore in azione che combatte contro il male. C’è da dire, però, che non è facile che la nostra severità si muova: noi non siamo facili al biasimo, allo sdegno e, tanto meno, alla collera. E, soprattutto, noi ricordiamo sempre una cosa, noi che abbiamo la retta idea di bene e dunque sappiamo anche che cos’è il male e da dove ha origine la malattia, la malvagità: la radice del male è l’ignoranza, che è carenza di verità e cioè di bene, è il difetto di intelletto; il male non è niente in positivo, ma è l’eclissarsi dell’idea di essere dietro a un’ombra scura, e quest’ombra scura altro non è che il concetto errato di essere e di realtà che si introduce nell’anima umana ingannata dalla falsa realtà, quella riflessa nello spazio menzognero del suo sistema nervoso, il quale le eclissa i veri corpi, che sono quelli prodotti nello spirito grazie alla facoltà di immaginazione, e le fa apparire quelli che sembrano oggetti extramentali fatti di una materia eterogenea al pensiero, e invece sono tutt’altro, e nascondendole il vero mondo che è pensiero che si esprime nelle immagini e obbligandola a vedere un mondo che sembra esterno al pensiero e alla coscienza e invece è tutt’altro... Il responsabile primo di questo male, dell’inganno che ha ottenebrato l’anima dell’uomo, è l’ingannatore, Dio stesso nella sua funzione satanica, mentre chi ne viene ingannato ne è la vittima, e dimostra solo di essere ancora incapace di difendersi dal male, cioè debole, non di essere inderogabilmente malvagio per una qualche natura diversa che lo faccia essere così: il malvagio è un’anima che, come tutte le anime, tende al bene, perché come tutte desidera l’essere, ma che è stato ingannato da un falso essere e da un falso bene e dunque ha in sé un desiderio sviato verso fini malvagi. Eva, l’anima umana, può dire in sua discolpa: “il serpente mi ha ingannata, e cioè la percezione terrena  prodotta dal mio sistema nervoso, tanto che anche Adamo, il mio principio maschile, è caduto nell’errore concettuale e da intelletto sano si è fatto pseudo-ragione, razionalismo; sicché ora abusiamo del frutto della scienza del bene e del male, e cioè mettiamo in atto un comportamento morale completamente sbagliato. Il serpente mi ha ingannata, e io mi sono lasciata ingannare...”

§V,3.12.Questo tempera di molto la nostra collera; e io, personalmente, come spero ricordi il Lettore, o la Lettrice, che sia passato o passata attraverso il testo di Sull’eutanasia (il secondo fra i due complementi a La Natura), l’ho rivolta piuttosto verso Dio stesso, verso l’Assemblea, che a mio avviso sta prolungando troppo il campo di esperienza del male non dando peso alle sofferenze temporali e contingenti delle anime umane e non umane che essi hanno intrappolate nello spazio terreno. Stiamo aspettando la risoluzione di tutta questa impresa, e non siamo affatto disposti ad aspettare tanto, io e le altre anime che soffrono intendo dire. Sai muovere la tua severità anche verso Dio, o sei debole e acquiescente verso un Dio che si comporta male, come fanno i Cattolici con le loro disgustose tendenze adulatorie e la loro piaggeria, con la loro superstiziosa idolatria? Perché anche questo deriva dall’idea di giustizia: la DIGNITA’, il sentimento del valore dei propri diritti, che è rispetto di sé e dunque giustizia verso sé stessi. L’idolatria, come ogni tendenza alla piaggeria e all’adulazione verso qualsiasi potente, è una colpa verso sé stessi perché è perdita di dignità. Invece, la giustizia in noi vuole che anche la volontà sovrana sia giusta, o altrimenti nasce in noi anche verso l’Assemblea sovrana, verso Dio, il biasimo, lo sdegno, la collera. Noi non ci umiliamo di fronte ai potenti e ai prepotenti: abbiamo in noi l’idea di giustizia e la tendenza alla dignità, il giusto sentimento di rispetto verso noi stessi e verso ciò che è nostro diritto, e sappiamo ribellarci al male e all’ingiustizia anche, e soprattutto, quando essi sono al potere.

§V,3.13.Ho ancora una cosa da dire sul rapporto causale che vige tra l’idea di giustizia e la tendenza a provare sentimenti negativi razionali, e cioè la severità: attenzione alle contraffazioni ipocrite. Se la severità, che è un’indispensabile forza educativa, è caduta in discredito oggigiorno nella nostra cultura, è perché ci siamo tutti disgustati delle contraffazioni di essa che hanno imperato in un sistema educativo di impronta cattolica e perciò fallimentare e abusivo. Si è spacciata per severità la gelosia e l’invidia degli adulti verso i giovani, e per intento educativo la tendenza a reprimere e soffocare le loro istanze più legittime e anche più nobili, magari lasciando correre i veri difetti. I padri e le madri, col pretesto di fare il bene dei figli, proibiscono ciò che fa loro invidia, e questi adulti falliti e intrappolati per via della loro superbia nei loro punti di alienazione del valore, costretti a muoversi nella vita come burattini tirati dai fili dei loro tenacissimi desideri di falsi beni, quelli che sentivano come beni perché mezzi opportuni per ingigantrire il loro ego, per esempio l’arricchimento materiale o il successo, la carriera e così via, e a omettere quindi di vivere realmente soddisfacendo le istanze più sane e più sincere dell’anima, sono pieni di invidia verso chi invece ha ancora la possibilità di vivere e soddisfare le più semplici e poetiche istanze vitali, come nutrire il proprio pensiero e darsi agli affetti, come sviluppare linguaggi artistici ed emozioni estetiche... Se si spaccia per severità l’invidia, si capisce come sulla severità sia caduto un tale discredito.

§V,3.14.E si capisce anche come la capacità di provare sdegno che è propria dell’anima sana che abbia in sé il retto concetto di giustizia sia disprezzata e addirittura messa in ridicolo, perché il vero sdegno, quello razionale, va confuso col falso sdegno di chi si muove per pura smania colpevolista, di chi cioè abbia scelto come mezzo per ingigantire il proprio ego una presunta superiorità morale e che tenda dunque a voler dimostrare a tutti i costi la nefandezza e la colpevolezza dal prossimo. Ne abbiamo avuto un esempio straziante in questi giorni, quando si è scatenata la canea di questi presuntuosissimi cattolici in preda alla smania di colpevolizzare quel povero padre addolorato che chiedeva solo, e con una chiarezza di idee ineccepibile, con una fermezza morale rara oggigiorno, di liberare sua figlia da uno stato vegetativo permanente durato diciassette anni, rispettando così la sua volontà, espressa chiaramente quando ella era ancora sana. Certo che se si spaccia per sdegno la violentissima invidia verso la nobiltà d’animo e l’eccellenza, e cioè la tipica tendenza dell’inetto presuntuoso ad azzannare chi mostri di possedere quella virtù che egli pretende di aver avuto in dono dal cielo e che invece non ha saputo procurarsi, certo -dicevo- che lo sdegno finisce col suscitare perplessità e diffidenza. Ma occorre distinguere lo sdegno razionale dall’invidia ipocritamente mascherata da sdegno, e non è difficile, se si presta la debita attenzione.

§V,3.15.Infatti TUTTI I SENTIMENTI NEGATIVI RAZIONALI, dalla disapprovazione alla collera, sono delle specie nel genere del DOLORE, o SOFFERENZA, che dir si voglia: abbiamo infatti definito la sofferenza come la percezione di un male. Ma gli sfoghi dell’invidia di codesti esaltati sono, appunto, sentimenti di esaltazione, si sente in loro la soddisfazione maligna e il trionfo per essere riusciti a spregiare e per aver messo in cattiva luce qualcuno, la maligna contentezza di aver trovato qualcuno peggiore di sé, cioè sentimenti positivi irrazionali, mentre in loro non c’è ombra di dolore, e c’è dunque una bella differenza tra il mite che soffre in silenzio biasimando il male, la carenza di verità e di amore nell’anima altrui, e gli sfoghi chiassosi e volgarissimi di chi cerca un pubblico innanzi a cui esibire la propria presunta superiorità morale; perché i sentimenti prodotti dall’idea di giustizia non vanno mai in piazza, non ci inducono mai ad azioni clamorose, atte ad additare il colpevole alla folla per trarne la soddisfazione di umiliarlo e in cerca di ammirazione per noi stessi, ma lavorano fuori dal mondo e dalla storia umani, operano solo nel mondo spirituale, sul piano del pensiero e delle idee, e vengono comunicati solo a chi sappia condividerli.

§V,3.16.Insomma, nella nostra cultura occidentale, dove per secoli e secoli si è persa la retta cognizione del bene e del male a causa della perversa morale cattolica e dove una ragione troppo debole, perché incagliata nel materialismo, non è ancora stata in grado di ritrovarla e dove dunque il senso morale è ancora incerto, pur con qualche notevole progresso, non si ha mai la precisa sicurezza di giudizio e dunque non si sa mai decidere nettamente che cosa sia da biasimare o se ci sia da sdegnarsi; e, visto anche che siamo rimasti inorriditi da sdegno irrazionale e da sentimenti distruttivi mascherati ipocritamente da sdegno, i quali hanno avuto anche sbocchi istituzionali per sfogarsi atrocemente, ai tempi del Sant’Uffizio e dell’Inquisizione, è ovvio che nel fronte progressita della nostra cultura sia andata persa la capacità di sdegnarsi e che si guardi allo sdegno come a un sintomo negativo, come a un indizio di poca normalità.

§V,3.17.Anzi, più in generale, come si diceva, l’anima europea ha perso la severità, l’impegno educativo, affossato insieme alle sue copie contraffatte, e con la severità anche la disciplina, che è severità applicata a sé stessi, è la tendenza a correggere ciò che disapprovo in me stesso. Il risultato è un’anima europea viziata e poco seria, disimpegnata, immatura per non dire infantile, indisciplinata, incapace di imporsi un fine importante e di arrivare a realizzarlo coi mezzi opportuni, e dunque da un lato ridanciana e sciocca, incline solo ai piaceri e alle soddisfazioni immediate, dall’altro scontenta di sé, arrovellata e lagnosa.

§V,3.18.L’anima che vede le idee e dunque è intelletto, e che avendo in sé l’idea di bene e di giustizia sa amare ciò che è bene e sa volere rettamente, e ha rispetto di sé e del prossimo e dignità, è anche severa e disciplinata: ella è capace di gioire per un bene presente, ma qui sulla Terra il bene non c’è, e c’è poco da gioire; ella ama il tuo bene e vorebbe dartelo, ma non può perché, irretito in mille desideri di falsi beni, quello vero lo rifiuti e di conseguenza questa volontà di bene, qui sulla Terra, non può esercitarsi e deve rimanere sospesa; sicché, mentre siamo nel campo dell’esperienza del male, dove appunto c’è solo il male, e cioè anime carenti di verità e colme di concezioni false sull’essere, sul bene e sulla giustizia e dunque prive di amore e tendenti alla colpa, dall’idea di giustizia presente in noi non possiamo che ricavare sentimenti negativi, che sono appunto la percezione del male, che è mancanza di bene: dolore, in generale, e di fronte ai singoli atti di ingiustizia e di malvagità ora biasimo, ora sdegno e ora, quando è il caso, collera, ma senza che questi sentimenti ci spingano mai a giudicare di prima istanza il desiderio di colpire chi li provoca, di impedirgli con la forza di essere quello che è: noi sappiamo bene che tutto ciò che si realizza nel mondo fisico e nell’ambito della storia umana è illusione, perché qui tutto passa e si dissolve e niente dura e che, perciò, se tentassimo di imporre con la forza o la coercizione, in associazione a qualche potere politico (come hanno fatto a suo tempo i falsi cristiani rivolgendosi a Roma), le nostre dottrine e la nostra etica e di affossare con qualche impresa storica i poteri che ci sono avversi, come la Chiesa o questi regimi pseudo-democratici in cui viviamo, sprecheremmo le nostre energie per costruire castelli di sabbia sulla riva del mare, che la prima onda porterebbe via e che sarebbero sostituiti con qualche altro abominio. Non è qui che vogliamo costruire il mondo che sogniamo, il mondo senza male, il nostro paradiso, ma innanzi tutto in noi stessi, nel nostro spirito, facendolo intelletto e amore, e poi fra i veri mondi, quelli eterni, che non sono fatti di sabbia ma di pensiero, dove nulla muore e tutto dura per sempre: là dove può eternamente splendere nelle immagini eterne e luminose prodotte dall’anima e dalla sua “forza del sogno” la fruizione eterna del bene, l’eterno sguardo dell’intelletto e l’infinito amore.

 

§4.Per riassumere e completare.

§V,4.1.Per concludere l’itinerario di questo libro sugli affetti che sono causati nell’anima dalla presenza in lei delle idee di essere, di bene e di giustizia, riassumiamo la materia trattata. Io, che sono anima capace di vedere le idee e cioè intelletto, so che bene è l’essere, e che anche tu sei l’essere insieme a me, se come me sei intelletto e vedi la verità, sicché io giudico un bene che tu abbia la visione delle idee, la verità, e che sia, insieme a me, una delle infinite rappresentazioni rette dell’essere ovverosia una delle infinite anime elette: dall’idea di essere ho tratto l’amore, perché ti sento come un bene, e ti amo nel senso che gioisco per il tuo bene, perché hai in te il bene, la verità, e dunque sei un bene, e la cosa è reciproca. Ma se, invece, hai omesso di guardare le idee e non sei intelletto, e non sei dunque una retta rappresentazione dell’essere, perché in te il pensiero non si pensa rettamente, io sento come un male la tua carenza di essere e ti biasimo e desidero che tu abbia il bene, la visione delle idee che ti rende intelletto, cioè ti amo in quest’altro modo: dall’idea di essere ho tratto anche quest’altro tipo di amore che è desiderio del tuo bene misto a biasimo per il tuo male; intanto, dall’idea di essere e di bene sono passato all’idea di giustizia e per via della presenza in me di entrambe queste idee nascono in me sentimenti ben precisi: il rispetto per te, per tutte le anime e anche il rispetto per me stesso, che è dignità, dicemmo; e aggiungiamo qui: l’approvazione per le azioni giuste, e cioè la CONCORDIA, che si chiama anche pace. E’ solo così che si costruisce la pace.

§V,4.2.Se vedi come bene il mio essere intelletto e amore, siamo in pace e se gli stessi giudizi retti che determinano la mia volontà determinano anche la tua, siamo concordi, tra me e te abbiamo costruito la pace e la concordia, altrimenti no. Tutti gli intelletti sani vogliono la stessa cosa, la realizzazione del bene con i mezzi opportuni e dunque sono tutti concordi: la loro volontà è una cosa sola. Per questo Cristo diceva “io e il padre siamo una cosa sola” (Gv. 10,30), chiamando “padre” l’assemblea, non perché ci sia una trinità dove tre persone diverse, Padre e Figlio e Spirito santo, sono chissà come un essere solo, ma perché vi è una molteplicità d’anime elette, che sono lo spirito e sono sante, ovverosia di dèi, che sono intelletto tutte assieme e la cui volontà è determinata dunque dagli stessi giudizi retti ed è dunque una volontà sola. E se siamo figli di questa assemblea, non è perché loro sono il Creatore e noi siamo creature, ma perché rinasciamo nuovi dalle loro operazioni, quelle che svolgono con ruolo satanico, e cioè dall’esperienza del male. Ma dei polveroni teologici del Cattolicesimo, dell’elaborazione umana che, negando di essere tale e accreditandosi forzatamente come rivelazione, si è inceppata fissandosi, nel IV e V secolo, in dogmi irrazionali ed assurdi parleremo altrove, in apposite opere storiche dove si troveranno anche le cause politiche di questo fenomeno: qui basti notare che chi sia capace, con un po’ di attenzione, di procurarsi la scienza necessaria può evitare, leggendo il messagio ambiguo dei Vangeli, di capire fischi per fiaschi come i Cattolici e di cadere come loro nel tranello di Satana.

§V,4.3.Ma dall’idea di bene non nasce solo il desiderio di bene e cioè di verità, o la gioia per la sua presenza in me o in te o in qualche altra anima, e dall’idea di giustizia non nascono solo sentimenti positivi: parlammo infatti anche di sentimenti negativi. Dall’idea di bene nasce in me anche la tendenza a detestarti, se vuoi togliermi il mio bene o negarlo, o se mi colpisci con sentimenti ostili, e in questi casi te lo meriti; dall’idea di giustizia sorge in me la tendenza a biasimare chi vuol privare te, gli altri e anche me stesso del bene e del valore, o anche a sdegnarmi e andare in collera contro costui, nei casi più gravi, e anche costui se lo merita. Siamo dunque, io e chi è intelletto come me, amorosi e severi, e anche la severità è un tipo di amore, perché è amore che contrasta il male.

§V,4.4.Abbiamo visto dunque come la presenza nella mia anima dell’idea di essere, e delle idee di bene e di giustizia che immediatamente ne derivano, produca in me tendenze verso desideri e sentimenti: le idee di bene e di giustizia mi consentono di giudicare e cioè di stabilire il valore delle cose, e dal giudizio nasce il desiderio o il sentimento, perché se sento, grazie al mio giudizio, che una cosa è un bene, la desidero, mentre se il mio giudizio mi dice che quella cosa è un male la temo, desidero che non sia o desidero eliminarla quando è già in atto; e se ciò che ho giudicato un bene è presente avrò per lui sentimenti positivi, se è presente invece ciò che ho giudicato un male proverò sentimenti negativi: le idee che mi consentono di giudicare, così, creano in me quelle che abbiamo chiamato tendenze o inclinazioni, o anche disposizioni o abitudini, perché io ho la facoltà di dare giudizi sulle cose proprio mediante le idee che sono in me ed è da questi giudizi che nascono i miei desideri e sentimenti. E’ importantissimo capire questa semplice verità, e cancellare dalla nostra mente il pregiudizio che disposizioni e facoltà siano innate, che derivino da eredità biologica, che vengano da chissà dove: le tendenze desiderative ed affettive vengono dalle idee, dal pensiero, non dalla nostra parte fisica, dal processo biologico, e non sono perciò inderogabili, ma si possono sradicare e modificare modificando le idee che le generano, se sono sbagliate.

§V,4.5.Le idee sono permanenti nell’anima, finché non le modifico; ma le idee rette sono eterne. E la mia anima, avendo in sé quelle idee, avrà anche in sé per sempre la disposizione a giudicare un bene quello che è un bene e dunque a desiderarlo o a gioirne, e un male quello che è un male e dunque a temerlo e a soffrirne, e anche a giudicare giusto quello che è giusto, e la tendenza dunque a concordare con esso, ingiusto ciò che è ingiusto e dunque la tendenza a biasimarlo e a sdegnarmene; e così io trarrò da queste idee eterne e dalle disposizioni infinitamente stabili, che esse generano in me, i desideri singoli o i singoli timori, i sentimeni singoli sia positivi che negativi ogni qual volta me ne capiti l’occasione, e cioè quando un fatto singolo, nel tempo e nello spazio, mi invita a esercitare in atto quella mia disposizione, quella facoltà in potenza, cioè, che rimane latente in me anche quando non compio atti desiderativi o non provo sentimenti effettivamente. Io, che traggo le mie disposizioni dalle idee rette di essere e di bene e di giustizia, posso anche dire a me stesso (alla faccia di preti e psicoanalisti) che ho un’anima sana, che cioè le sue disposizioni sono tutte razionali, rivolte al vero bene, e quindi buone e giuste, perché sono un intelletto sano e  dunque capace di giudicare. Questo è importante, per sapersi difendere da inquisizioni antiche e moderne.

§V,4.6.Ed è della massima importanza, dicevo appena qui sopra, per guarire l’anima dalla sua malattia aver capito che le sue tendenze desiderative e la sua disposizione a provare certi sentimenti dipendono dalle idee che ella ha in sé, dipendono cioè da quali giudizi di valore ella è solita formulare sulle cose. Quando questi giudizi sono sbagliati perché le nozioni di bene e di giustizia che l’anima ha introdotto in sé sono irrazionali, le disposizioni a provare desideri e sentimenti che si generano in lei sono maligne: ella giudica beni quelle cose che non sono beni affatto e tende a desiderare ciò che bene non è, ma le sembra soltanto, e a compiacersi di ciò che sembra a lei bene, ma che bene non è e, viceversa, a detestare i beni e a temere la verità percependoli come qualcosa di male. E anche le sue volizioni saranno sbagliate, perché la volontà si esercita nella scelta fra desideri irrazionali. E’ importantissimo capire che i vizi dell’anima e la sua tendenza alla colpa non vengono da determinismi biologici, da un carattere innato, da chissà dove, ma dagli errori concettuali che offuscano il suo intelletto, e che l’anima non riceve da una causalità meccanicistica, astrusa e fuori dal nostro controllo, le sue facoltà e le sue inclinazioni ma dal suo pensiero che è governato dalla causalità spirituale, una causalità ovvia e facilmente controllabile: le idee errate si possono correggere e la malvagità così svanisce, mentre se uno cerca di agire su presunte cause meccanicistiche per trovare la normalità, non fa altro che portare l’anima fuori strada, verso la totale ignoranza di sé, nel discredito e nella sfiducia in sé stessa. Ma di questo parleremo nell’opportuna sede, e cioè nel prossimo scritto sulla patologia dell’anima che ha nome “umanità”.


CONCLUSIONE: I RISULTATI DI QUESTA RICERCA E PROSPETTIVE.

 

§1.Ci siamo procurati gli strumenti.

§Concl.,1.1.Ho voluto scrivere questa sorta di manuale di scienza dell’anima per uno scopo ben preciso: per dare all’anima che lo voglia la capacità di guardare sé stessa e vedersi chiaramente, ritrovando così le sue facoltà, la sua autonomia e la sua libertà; anzi, per restituire all’anima il suo stesso essere, visto che se l’essere non si pensa non è e dunque l’incapacità di pensarsi rettamente è anche incapacità di essere. Ora, se ha compreso e accettato la visione qui proposta, ella sa che pensandosi e conoscendosi rettamente può essere dio, ovverosia capacità di vedere le idee e forma eletta, ciò che si chiama tradizionalmente “intelletto e amore”; ora ella sa che la visibilità dipende da lei, che sta in lei la sua bellezza, perché ella può manifestarsi visibilmente nel pensiero con i suoi atti di immaginazione, e creare così spazio, materia e corpi e diventare mondo; ora ella sa come fare -questo è assai importante- per avere sotto il suo controllo la facoltà desiderativa e avere una volontà giusta, ora ella sa generare sentimenti positivi o negativi che siano razionali, fondati su giudizi retti, sicché ha in sé solo tendenze al bene, e cioè bontà, ed è innocente... ora ella non ha altro da fare che sperimentare in pratica tutto questo, gustare la sua nuova vita di anima buona e giusta, il suo novellamente recuperato stato di salute.

§Concl.,1.2.L’intelletto è l’unico vero medico dell’anima perché la salute, o forma eletta, è l’avere disposizioni a desiderare il vero bene e a provare sentimenti positivi per il vero bene, e a disapprovare ciò che è male realmente e a provare sentimenti negativi per ciò che realmente è male, e dunque solo la facoltà di giudicare rettamente le cose, e cioè sussumerle, dopo averne riconosciuto rettamente la natura, sotto l’idea retta di bene o di male, può produrre in noi tali disposizioni razionali e rette, rendendoci capaci di riconoscere ciò che è bene da ciò che è male, ed è l’intelletto, la facoltà di vedere le idee, che ci fornisce tale capacità.

§Concl.,1.3.Ci siamo procurati quindi degli strumenti preziosi, quando abbiamo indicato alla nostra anima la sua facoltà di vedere le idee e dunque le abbiamo restituito la possibilità di essere intelletto, e quando abbiamo portato la sua attenzione sulla facoltà desiderativa e sulla sua facoltà deliberativa, formulando le due leggi fondamentali della nostra scienza psicologica, quella che regola il desiderio e quella che regola la volontà, restituendole quindi la possiblità di riavere il desiderio e la volontà sotto il suo controllo; e anche quando le abbiamo mostrato, classificandoli con precisione, i sentimenti prodotti dalla sua forma sana, cioè i vari tipi di amore. La nostra anima si è potuta così rendere conto della differenza che corre tra quell’insieme di tendenze affettive deviate verso falsi beni che stanno alla base di una volontà determinata da scopi errati, tendenze che nel loro insieme noi chiamiamo “malattia”, e le tendenze amorose e la volontà giusta dell’anima sana, ed è ora in possesso dello strumento che serve per passare dalla prima forma alla seconda, dalla malattia alla salute, qualora scelga di farlo, e cioè sia riuscita a sentire la salute come un bene e a eleggerla a movente della sua volontà e cioè a volerla: a noi spetta solo di dare ai Lettori la possibilità di scegliere, ma non di determinarli nella loro scelta.

§Concl.,1.4.Lo strumento fondamentale che abbiamo messo a punto in questa sede è la visione della CAUSALITA’ SPIRITUALE, quella che vige tra idee e tendenze affettive e che governa anche la volontà: abbiamo visto la dipendenza delle disposizioni dell’anima a provare determinati desideri e determinati sentimenti, e quindi anche di ogni singolo desiderio e di ogni singolo sentimento effettivamente provato nelle varie situazioni, dalle idee in lei presenti. Le idee ci danno la facoltà di produrre giudizi e i giudizi producono gli affetti, e cioè desideri e sentimenti, sicché l’abitudine a giudicare una cosa come bene o come male, che dura finché non modifichiamo in noi l’idea di bene, produce l’abitudine a quel determinato tipo di desiderio o di sentimento. La visione precisa di questa causalità mette in grado l’anima di controllarla nel retto modo, e di plasmarsi come le piace.

§Concl.,1.5.Grazie a questi strumenti potremo affrontare nei nostri prossimi studi l’esplorazione dell’anima torbida e oscura, laddove tutto è aggrovigliato e complicato per via della mancanza di un intelletto sano, per l’incapacità cioè di vedere le rette idee mediante cui l’essere nell’anima si rappresenta, per via della mancanza in essa dell’assioma fondamentale della nostra ontologia e dell’impossibilità quindi di dedurne tutte le altre idee, e a causa delle interferenze esterne che tale mancanza hanno prodotto e che operano, coi loro inganni, per mantenerla, nascondendo l’anima a sé stessa e spodestandola e spingendola sempre più verso il male.

§Concl.,1.6.Quando le idee sono sostituite da concetti errati, le tendenze affettive diventano maligne, e ne vedremo in dettaglio la classificazione e la casistica nei prossimi scritti, anche se avevamo già iniziato questo tipo di ricerca con La cura dell’anima: ivi vedemmo i punti di alienazione del valore, cioè gli attaccamenti a quei falsi beni che siano mezzi per ingigantire l’ego, quelle tendenze desiderative particolarmente tenaci perché rivolte verso ciò che serve alla superbia per soddisfarsi. Nel prossimo scritto completeremo, per quanto possibile, tutto questo discorso con l’analisi anche dei sentimenti irrazionali di un’anima ammalata e con l’osservazione del suo comportamento, parlando anche delle interferenze che ella subisce dall’esterno. Dovremo parlare delle immagini false che ella ha di sé e degli ostacoli che la rendono incapace di ritrovarsi, di ritrovare il bene e la forma eletta, e cioè di essere intelletto e amore. Forse non basterà uno scritto solo per tutta questa materia, ma chi ben comincia è a metà dell’opera, dice il proverbio, e noi abbiamo imboccato questa via dell’esplorazione dell’anima e la vogliamo percorrere fino in fondo.

 

§2.Uno strumento indispensabile: il linguaggio.

§Concl.,2.1.Il Lettore, o la Lettrice, avrà notato che uno dei compiti che sentiamo più impellenti durante le riflessioni contenute nelle nostre opere è quello di correggere il significato dei termini del linguaggio comune con rigorose definizioni, in modo da continuare a impiegare le parole correnti nel nostro uso consueto, ma dopo averne recuperato l’originaria chiarezza e il valore scientifico. Ogni volta che affrontiamo un argomento, c’è sempre da ridefinire da capo le parole, sia quelle in uso nella lingua comune che, a maggior ragione, i tecnicismi astrusi nati nell’ambito delle pseudo-scienze materialiste, per recuperare la loro funzione di designare chiaramente il concetto logicamente definito in maniera non equivoca, per dare loro un senso preciso e unico, quando c’è, e invece eliminandole come incrostazioni inutili sulla nostra capacità riflessiva nel caso esse fossero etichette su bottiglie vuote, nel caso cioè che designino un concetto contraddittorio e dunque inconsistente (inconsistente è quel concetto che individua come genere un insieme vuoto, perché nessun individuo ricade sotto a quel concetto, in quanto logicamente contraddittorio; per esempio: figura geometrica senza lati).

§Concl.,2.2.Questo accade perché lo stato in cui si trovano ora le parole in uso nella nostra cultura è logoro e scadente, giacché alla perdita della retta visione delle idee e alla loro conseguente sostituzione con concetti errati ed oscuri corrisponde un cattivo uso, impreciso e approssimato, delle parole: infatti ogni parola è un segno che designa un concetto. Troppo spesso dobbiamo constatare che un termine impiegato di consueto nella nostra lingua comune si riferisce a concetti e nozioni fumosi e oscuri, e che spesso si chiama una cosa col nome di un’altra, rovesciandone addirittura il valore, e quando l’anima si serve di codesti segni imprecisi, è indotta da essi a guardare aloni di nebbia in cui sovente appaiono fate morgane e inconsistenti miraggi, al posto delle idee chiare e ben definite.

§Concl.,2.3.Fra i guasti prodotti nell’anima europea dalla dominante cultura  cattolica (e dalle forme derivate di Cristianesimo dopo la Riforma), insieme con la totale perdita della retta visione dell’essere e dell’anima, del bene e del male, e della giustizia, ci sono anche quelli prodotti nel linguaggio da un pensiero ormai così incapace di introspezione, da un’anima ormai così totalmente incapace di guardare il proprio interno e riconoscere i propri contenuti, che sono la realtà e dunque sono della massima importanza, da difettare completamente della capacità di distinguere un sentimento dall’altro e di darne le rette denominazioni, da ignorare completamente la retta classificazione delle tendenze viziose e di quelle amorose, tanto da scambiarne i nomi, chiamando, per esempio, “superbia” e “orgoglio” la ricerca della verità, che invece in un sistema di idee retto si chiama “amore”, oppure “sentimento morale” la sottomissione a un onnipotente dalla volontà perversa, che per noi è piaggeria, “redenzione” l’accettazione supina di dogmi irrazionali e di riti, e cioè quel totale disinteresse per la verità che da noi è la completa negazione dell’amore e si chiama piuttosto “perversione”, cioè è malattia allo stato più grave, e chiamando “umiltà” la completa perdita di dignità di una persona, che per noi è piuttosto umiliazione, o “immodestia” il rispetto di sé, che invece per noi è proprio il requisito indispensabile per avere in noi stessi anche il rispetto del prossimo, che è la vera modestia, nonché “egoismo” l’amor di sé, sentimento che invece per noi è sacrosanto perché indispensabile per la salute, e così via.

§Concl.,2.4.Né ci aiuta a uscire da questa situazione la nuova cultura incagliatasi sulle secche del razionalismo, dove l’anima, ben lungi dall’aver ritrovato la retta cognizione di sé, è invece smarrita nelle farneticanze della psicoanalisi oppure di quelle neuroscienze che si affannano a cercare la base fisica del pensiero e dell’affettività; questi ultimi ritengono reale solo ciò che è “oggettivo” e quindi vogliono spiegare la coscienza e i suoi prodotti, che sono il vero essere e la vera realtà, riconducendoli a fatti fisici, convinti che uno scienziato debba fondarsi solo sull’esperienza oggettiva (concetto inconsistente, questo, vistosamente contraddittorio!) e prescindere da sentimenti e desideri, perché questi sono soggettivi e dunque, nella loro ottica, non reali, senza rendersi conto che pretendere di studiare l’essere e la realtà prescindendo dal pensiero e dai suoi contenuti, idee, cognizioni, immaginazioni, desideri o sentimenti che siano, è come pretendere di studiare l’aritmetica prescindendo dai numeri, o la geometria prescindendo dall’estensione e dal volume, visto che l’essere è pensiero e la realtà sono i contenuti del pensiero, compresi desideri e sentimenti, sicché chi non percepisce questi e non vede il pensiero non percepisce la realtà e non vede l’essere. Nemmeno in quest’ambito c’è da sperare che l’anima torni a guardare sé stessa e a mettere in ordine, classificandoli e denominandoli per bene con precisione, i propri prodotti onde poter riavere il cotrollo di sé e la forma sana.

§Concl.,2.5.Tanto è disavvezza l’anima europea a guardare sé stessa e il proprio interno, che nemmeno sa i suoi desideri e sentimenti da dove derivano, né ha chiaro il funzionamento della sua volontà ed è negligente e disattenta nel formulare i suoi giudizi, se non addirittura in questo totalmente carente. Addirittura si confonde nella sua classificazione disattenta e, ignorando completamente la distinzione tra sentimenti razionali e irrazionali, cioè tra sentimenti retti e colpevoli, a volte si sbaglia giudicando vagamente come mali dei sentimenti solo perché sono negativi, ignorando che sono dei mali i sentimenti irrazionali, positivi o negativi che siano, non quelli negativi, perché tutti i sentimenti razionali sono beni, sia quelli positivi che quelli negativi. E così, a questa carenza di introspezione e classificazione, alla mancanza cioè di definizioni precise delle realtà interne dell’anima, corrisponde un impiego scorretto del linguaggio, un abuso continuo di quei nomi che designano, appunto, le realtà interne dell’anima ed è così che ella ne perde completamente il controllo.

§Concl.,2.6.Il linguaggio, invece, è uno strumento indispensabile per chi voglia vedere l’essere, per chi cioè voglia essere, visto che l’atto di visione è l’essere stesso: se l’essere è rappresentazione di sé, ha bisogno di un linguaggio rigoroso nel quale esprimersi e dunque è compito importantissimo e imprescindibile quello di mettere a punto una terminologia precisa. Abbiamo bisogno di parole che siano univoche e non equivoche, ognuna delle quali designi una definizione rigorosa, la quale definizione sia ciò che ci indica un’idea chiara e logicamente dedotta, e che ci fornisca così il retto concetto che rappresenta l’essere o un suo aspetto, e l’insieme di siffatte parole è lo strumento indispensabile per vedere l’essere e cioè noi stessi, il pensiero che in noi si rappresenta in quell’atto di coscienza che è la nostra anima. La differenza tra chi usa un linguaggio rigoroso e chi usa i termini in maniera imprecisa è analoga a quella tra chi impiega occhiali con ottime lenti perfettamente trasparenti, che gli consentano di focalizzare la realtà e di vederla con precisa definizione, e chi si infila degli occhiali scadenti e dalle lenti opache, magari piene di incrostazioni e macchie, e colorate in modo da alterare la realtà, mostrarla troppo rosa o troppo fosca rispetto al vero: il primo vedrà le cose nitidamente, l’altro intravede solo aloni fumosi e ombre vaghe.

§Concl.,2.7.Comunque, come si è visto, non c’è stato nessun bisogno di inventarci terminologie astruse e di usare parole difficili o tecnicismi; anzi, codesti gerghi pseudo-scientifici che hanno, in genere, l’unico scopo di coprire vuoti concettuali e difetti di ragionamento facendo solo mostra di possedere un sapere difficile ed esclusivo, sono intralci tremendi alla nostra vista spirituale, rendono assai più difficile vedere l’idea retta coprendola con ulteriore fumo e ulteriore nebbia, vieppiù infittendo il velo che avviluppa il nostro intelletto rendendolo cieco. Tutto ciò che abbiamo dovuto fare è recuperare le parole del linguaggio comune e ripulirle dalla ruggine e da quegli strati di sudiciume che tanti secoli di imperizia cattolica prima e mezzo millennio di razionalismo pseudo-scientifico poi hanno incrostato su di esse: tolte queste impurità con la nostra opera di confutazione e di ridefinizione, possiamo trovarci sotto il prezioso diamante, l’idea retta che ci mostra l’essere.

 

§3.Prospettive per i prossimi studi: dal paradiso all’inferno.

§Concl.,3.1.L’anima, che abbia letto con attenzione questo manuale e mi abbia seguito sin qui, ora può tornare a vedere sé stessa, e cioè a essere il pensiero di sé, e può recuperare le facoltà proprie di un’anima sana, quei “poteri nascosti” che non consistono, come si crede in certi ambienti stoltamente esoterici, in capacità paranormali come la telepatia, la chiaroveggenza, la capacità di condizionare le altre menti e così via: l’unico vero potere della mente è il pensiero retto, quello ricavato con il metodo logico-razionale, e l’amore che ne deriva e la volontà di bene, perché allora ella è dio e vuole ciò che vuole Dio, il collegio di tutte le anime ellette e divine, quelle che sono intelletto e amore, e dunque ciò che Dio può anch’ella ha in suo potere.

§Concl.,3.2.I poteri di un’anima sana sono l’intelletto, l’amore e la giustizia e ora sappiamo come ricavarli; è mio auspicio che almeno una manciata di persone imprigionate in questa orribile cultura europea del XX e XXI secolo, che rende l’anima debole e impotente, sappia liberarsi dal male e dalla malattia, dalla carenza cioè di intelletto e dalla forma malvagia che ne deriva e dall’inclinazione alla colpa che ne consegue.

§Concl.,3.3.La malattia dell’anima europea, o meglio dell’anima formata dalla cosiddetta cultura occidentale alla nostra altezza cronologica -i difetti spirituali prodotti dalle culture degli altri non mi competono, perché ho i miei limiti e non posso dedicarmi a tutto: ognuno si gratti le sue rogne, per dirla nel linguaggio del Libro di Giobbe, e il Cattolicesimo mi sembra già una gran bella rogna senza andarsene a cercare altre- la nostra malattia, dicevo, ha avuto un lungo decorso, il quale altro non è che ciò che accademicamente si chiama “Storia” e che un buon medico dovrebbe impegnarsi a ricostruire: dalle fasi iniziali, che sono gli eventi del mondo antico, al fallimento della filosofia classica dovuto al trionfo dell’Aristotelismo  e alla negligenza del pensiero incapace di proseguire sulla via aperta da Socrate e da Platone, all’epoca di mezzo, dove tale negligenza e la conseguente debolezza della ragione umana, insieme con la carenza di volontà retta che ne derivò, hanno fatto sì che essa cadesse nel tranello di Satana, il Cristianesimo romano (chi ha letto attentamente La Natura e i suoi due complementi sa che cosa dico), aprendo così un’epoca pestilenziale e mortifera, fino alla cruciale svolta razionalista, che segna la crisi dell’anima europea, quella che è ancora in corso oggi, l’esperienza di un’anima che si trova in mezzo a un guado e non sa come uscirne.

§Concl.,3.4.Dovremo svolgere tutta questa materia nel corso di opere storiche, se ne avremo la forza -ma auspico che nel frattempo qualche specialista o qualche appassionato di questo tipo di studi che abbia apprezzato la mia impostazione mentale sia giunto in mio soccorso: non mi lascerete fare tutto da solo, spero!- ma nella continuazione dello studio appena qui terminato, la già promessa opera sull’umanità come malattia dell’anima, inizieremo a scrutare l’interno oscuro e aggrovigliato dell’anima umana priva di intelletto, buia perché incapace di rappresentare sé stessa, totalmente carente nell’esplorazione del suo mondo interno e in preda all’abbandono e alla trascuratezza per quanto riguarda la cura di sé stessa, servendoci della strumentazioni sin qui messa a punto e completandola anche, coll’arricchirla di ciò che ancora eventualmente le manchi.

§Concl.,3.5.Sarà l’inizio di un’immersione in acque torbide e oscure, infestate da mostri e sarà una vera e propria discesa agli inferi. Se l’anima sana, infatti, è paradiso a sé stessa e la sua visione è, appunto, sguardo di paradiso e beatitudine, l’anima il cui interno è tenebra, l’anima che sia priva di sguardo, è inferno e cioè infelicità e squallore. Ma non lasciamo ogni speranza, entrando all’inferno: per quanto inorriditi, portiamo con noi proprio questo, il desiderio di bene, della guarigione di codeste anime buie e storpie e la concreta speranza di vederle risanate, dopo il decorso della malattia, dall’opportuna medicina, che è la retta visione delle idee, la quale restituisce la luce all’occhio spirituale, all’anima il suo essere intelletto; portiamo con noi il rispetto e la preoccupazione per il prossimo, e cioè l’impegno; portiamo con noi anche la nostra severità, la nostra giustizia; e insieme con tutto questo porteremo con noi anche un sentimento che non ho elencato fra quelli prodotti in noi dall’idea di giustizia e di bene, ma che sarà molto facile da ricavare quando avremo compiuto le nostre osservazioni e ci saremo resi conto che il male, e cioè il difetto nella visione dei concetti e che è dunque ignoranza e stoltezza ovverosia mancanza di intelletto sano e libero da errori concettuali, insieme alla malattia da esso provocata, che è quell’insieme di tendenze verso desideri e sentimenti irrazionali, e alla colpevolezza, che è l’esercizio della volontà che sceglie i suoi moventi in base a giudizi errati, può affliggere soltanto l’anima che lo abbia in sé, e si chiama anche debolezza o impotenza, perché se il vero potere è l’essere, che è pensiero di sé, e la realizzazione dell’essere nella sua infinita molteplicità, cioè la giustizia, e se è vero che è l’eterna fruizione del bene prodotta dalla giustizia che ci dà il potere di essere felici, colui che non ha in sé il pensiero retto e la giustizia, ma è in preda al male e alla malattia dell’anima, è impotente e la sua volontà non retta è debolezza, perché è incapace di procurarsi il bene e la felicità; e perciò il male e la malattia di un’anima hanno come principale effetto quello di relegare quell’anima nell’infelicità. E l’anima sana e felice che percepisce come un male quest’altrui debolezza, impotenza e infelicità, come può non ricavare da tale giudizio razionale e fondato sulla retta idea di bene, e dalla sua severità, quella tendenza prodotta dall’idea di giustizia a disapprovare il male, e dal suo amore, che è il suo desiderio di bene, quel particolare sentimento misto di dolore e di amore che noi chiamiamo “pietà”?

§Concl.,3.6.PIETA’ o MISERICORDIA, che sono amore per chi erra, ma unito a serietà e impegno, e a severità e cioè alla precisa intenzione di lottare contro il male coi mezzi opportuni, non usato scriteriatamente per illudere riguardo a perdoni collettivi e inutili amnistie, come nella falsa concezione cattolica di una misericordia priva di giustizia e dunque totalmente inefficace o efficace solo a peggiorare i vizi e a fare il male dell’anima, ci guideranno nelle nostre esplorazioni dei luoghi cupi del male, le disperse e smarrite anime umane.