GREGORIO AGIS.

 IL FONDAMENTO DELLA RICERCA.

Per un recupero dell’ontologia.

 

  CONTENUTI:

L’essere (libro I).

L’anima (libro II).

La materia (libro III).

Corpi aggregati (libro IV).

A casa (libro V).


 

LIBRO I

 

 

L’ESSERE.


LIBRO I

 

INDICE DEGLI ARGOMENTI.

 

L’ontologia (1.1).

Concezione errata dell’essere(1.2).

 Concezione errata della conoscenza(1.3-1.4).

 Discussione(1,5).

 Discussione sul concetto di misurabilità come oggettività(1.6). 

Discussione sul concetto di esperienza intersoggettiva, scambiata per oggettività(1.7) e soluzione(1.8). 

Retta idea di essere(1.9-1.10).

 Verità necessarie: l’”eterno”(1.11).

 I  possibili. L’immagine dell’essere, cioè il  “divenire”(1.12).

 Intrinseca all’essere è l’idea di linguaggio(1.13).

 Facoltà dell’essere di immaginarsi: lo spazio(1.14-1.17).

Gli “oggetti”, i contenuti dello spazio, sono pensieri(1.18).

 Fondamento della retta gnoseologia(1.18-1.19).


 

 

…tò gàr autò noein estin te kaì einai.

Pensare ed essere sono la stessa cosa.

Parmenide (Clem. Alex. Strom.VI 23=Plotino V,1,8).

 

Chre tò legein te noein t’eòn émmenai.

E’ necessario che il dire e pensare sia l’essere.

Parmenide (Simpl. Phys. 117,2).

 

esti gàr einai, medèn d’ouk estin.

L’essere è, il nulla non è.

Ibidem.

 

1.1.Il principio della retta filosofia è conoscere l’essere; lo studio dell’essere si chiama, tradizionalmente, ONTOLOGIA. Nella nostra cultura occidentale, come la chiamano, si trovano due diverse concezioni sull’essere, una retta e una errata.

1.2.Nella prima concezione, la più comune, l’essere è qualcosa di eterogeneo al pensiero, sta in uno spazio inteso come extramentale ed è una serie di cose inintelligenti, senza coscienza, che non si pensano da sé, né sono pensate da nessuno; dunque, in questa visuale, l’essere non si causa da sé, ma è “fatto di materia”. Ma, di nuovo, la materia viene intesa come eterogenea al pensiero, inerte, estesa e grave, priva di coscienza. La realtà sarebbe, dunque, qualcosa di oggettivo, il che significa che le cose, per essere reali, debbono stare fuori da un soggetto; sicché, nel linguaggio di chi aderisce a questa concezione, “soggettivo” sarebbe sinonimo di “non reale”. Incoerentemente, però, costoro definiscono la realtà “ciò che cade sotto ai sensi”, senza rendersi conto che le percezioni sensibili sono, per definizione, soggettive. Come potrebbe esserci una percezione senza un soggetto che la percepisce? Ma secondo costoro le percezioni dei sensi sarebbero rappresentazioni causate da queste “cose” che esistono per sé fuori dal pensiero e fuori dai soggetti che le percepiscono. Nell’accezione più moderna la materia di cui sono fatte le cose viene rappresentata come energia, ma sempre intesa come qualcosa di eterogeneo al pensiero ed extramentale. Di contro, la coscienza e i suoi contenuti non sarebbero niente di reale, ma tutto ciò che viene dal pensiero è considerato, in questo tipo di visuale, soggettivo (il che è come dire non esistente), qualcosa di fantasmagorico e immaginario, cioè irreale.

1.3.Quindi, secondo questi, che chiameremo “materialisti”, perché pongono la materia alla base dell’esistenza delle cose, la conoscenza sarebbe valida solo quando è possibile dimostrare che essa ricalca, ripetendone nella nostra mente la forma, le cose esterne. L’unico tipo di conoscenza che viene considerata scientifica da costoro è quella a posteriori, che si basa sull’esperienza organizzandola in teorie mediante metodo sperimentale, altrimenti detto “ipotetico-deduttivo”, la cui introduzione si attribuisce a Galileo Galilei. Di come poco o nulla galileiana sia la visione testé esposta, ci occuperemo di dimostrare in altra sede; qui notiamo solo come la pretesa di chiamare “oggettiva “ una conoscenza basata sulle immagini dei sensi sia incoerente e contraddittoria, perché, come già detto, le percezioni sensibili sono tutte soggettive. Per definizione, l’esperienza non è mai oggettiva, perché c’è esperienza solo in un soggetto che esperisce, fuori no. Il presunto sapere fondato sull’esperienza è un edificio fondato sulla sabbia.

1.4.Più in generale, la pretesa che esista una conoscenza oggettiva è un intralcio terribile sul nostro cammino. Infatti, se la conoscenza è diversa dall’essere, non si arriverà mai a conoscere l’essere: se l’essere è una cosa fuori dalla mente, non si arriverà mai a dimostrare che la rappresentazione di quella cosa, che sta dentro alla nostra mente, corrisponda davvero a quella cosa. Nei nostri sensi vediamo immagini e non cose, e le immagini dei sensi sono tutte soggettive, stanno tutte dentro a un soggetto (la sensazione esiste se un soggetto la sente, altrimenti dove sta?) e non sono oggettive come pretendono i materialisti. La pretesa di trovare un sapere oggettivo è irrealizzabile. Noi vediamo la materia estesa, ma l’estensione è un’immagine: estensione e immagine estesa sono espressioni equivalenti; se le cose sono altro dall’immagine, come potrebbero essere estese? Le cose che noi vediamo hanno forma. Ma le forme che noi vediamo sono rappresentazioni, sono pensieri; se le cose non sono pensieri, come avrebbero forma? Un essere fuori dal pensiero non potrebbe essere nemmeno pensato, sarebbe inconoscibile.

1.5.Ma gli oggetti come li intendono i materialisti, cioè extramentali, non esistono se non nella loro fantasia. La filosofia della scienza si trova a tutt’oggi intricata nei problemi della pretesa oggettività(1), ma da tali intrichi uscirebbe  facilmente se correggesse la propria definizione di essere e di realtà, con una considerazione non difficile: ciò che non è nel pensiero, che non si pensa da sé, né è pensato da nessuno, non è nulla. Un oggetto che non è percepito da nessuno, dove sarebbe? Uno spazio che nessuno vede, come c’è? Un essere che non è cosciente di sé e di cui nessuno ha coscienza, come esisterebbe? L’idea che esista una realtà extramentale, eterogenea al pensiero, è un’incrostazione sulla nostra capacità riflessiva, che l’offusca; la pretesa, di chi postula acriticamente l’esistenza di una realtà extramentale, di procurarsi una conoscenza oggettiva, è assurda. Non esistono oggetti, e la parola “oggettivo” va cancellata dal nostro vocabolario.

1.6.Vorrei aggiungere ancora qualche considerazione. Quando i materialisti si accorgono che la rappresentazione oggettiva non esiste, che è una contraddizione in termini, perché le rappresentazioni sono immagini e dunque stanno tutte dentro a un soggetto che le pensa, vanno a cercare l’oggettività nella misurabilità, introducendo la convinzione assurda che sia reale (continuando a identificare il reale con l’oggettivo) solo ciò che è misurabile. Ma non si rendono conto che anche le misure sono pensieri e rappresentazioni in un soggetto. Il numero è un concetto e dunque è prodotto dal pensiero, la linea mediante cui misuriamo la lunghezza è un’immagine nella nostra coscienza e l’unità di misura mediante cui misuriamo è una convenzione, cioè un prodotto del pensiero. E il calcolo del rapporto tra la grandezza da misurare e l’unità di misura –che è ciò che noi chiamiamo “misurare”- è un’operazione mentale. Quando io misuro un’estensione, un volume o qualsiasi altra grandezza, tutta questa operazione rimane completamente sul piano dell’immagine soggettiva, poiché l’estensione, il volume, etc. sono immagini, e le unità di misura mediante cui compio l’operazione anch’esse sono immagini, e il calcolo che ne ricavo è prodotto dal mio pensiero, poiché se nessuno pensa il numero, il numero da sé non esiste. Sicché, la rappresentazione di una cosa misurata non è più oggettiva di una non misurata: è solo più dettagliata e precisa, ma è sempre soggettiva. Se la realtà delle cose dipendesse dalla nostra capacità di misurarle, significherebbe che, appena inventato qualche strumento utile a misurare qualcosa, questa cosa diventerebbe reale di colpo, da irreale che era. Non è assurdo? Forse che il peso non esisteva prima che noi inventassimo le bilance? Ma certo che c’era: il peso è reale quando una coscienza lo percepisce(2).

1.7.Un altro problema in cui si imbrogliano i materialisti è che, nella loro ottica, bisognerebbe distinguere tra le rappresentazioni di cose reali e rappresentazioni che non corrispondono a nulla di extramentale, che vengono considerate sogni o allucinazioni. E’ sempre il problema dell’oggettività, ma posto in altri termini: dato che la loro scienza deve fondarsi sull’esperienza, e dato che considerano scienza solo un sapere oggettivo, sorge in loro il problema di quale esperienza è oggettiva e quale no. Noi abbiamo già risposto che nessuna esperienza è oggettiva, poiché non vi è esperienza senza un soggetto che esperisce, lo si ricorderà(3). Ma essi, usando malamente il linguaggio, considerano oggettiva l’esperienza quando è intersoggettiva: infatti considerano sensazioni “oggettive” quelle condivise da tanti soggetti e chiamano invece sogni o allucinazioni quelle che stanno in un soggetto solo. Ma perché le rappresentazioni collettive dovrebbero essere più reali di quelle individuali? La collettività è costituita da singoli individui, quindi se non ha valore di realtà la rappresentazione del singolo individuo, non ha valore nemmeno quella della collettività. Le percezioni intersoggettive non sono oggettive, sono collettive, ma sempre soggettive. Dunque se non hanno valore di realtà le percezioni soggettive, nemmeno le percezioni collettive hanno valore di realtà. Inoltre, come potrò dimostrare che gli altri che vedono il mio stesso mondo non siano allucinazioni nella mia mente? Quando vedo le altre persone, ho sempre comunque delle immagini, delle rappresentazioni soggettive di loro, come faccio a sapere che corrispondono a qualcosa di extramentale? Anche questa idea che sia oggettivo ciò che è intersoggettivo, dunque, è assurda.

1.8.L’unico modo di uscirne è dare valore a tutte le percezioni, senza distinguere quelle reali da quelle allucinatorie: chiamiamo reale ciò che il soggetto vede, sente, percepisce, prova dentro di sé senza pretendere che questo sia condiviso e che corrisponda a qualcosa di esterno, e così usciremo da molti intrichi. Insomma, accettiamo tutti i contenuti della nostra coscienza: poi ci resterà solo da classificarli a seconda di quello che significano. L’altra via, quella della ricerca di un sapere oggettivo, è quella sbagliata: non ci porterà mai all’essere,  perché l’essere non è una serie di oggetti.

1.9.Il giusto concetto di essere è quello che identifica l’essere con il pensiero di sé. Essere e pensiero sono due parole, due segni diversi, ma che evocano entrambi un unico significato: l’essere. Pensare, essere, coscienza, anima, spirito, io, etc. sono tutte espressioni sinonime, tante parole ma un significato solo. Chiamiamo dunque essere il pensiero e pensiero l’essere, e consideriamo questa identità come nostro punto di partenza e fondamento. Il nostro percorso sarà lungo, e durante il cammino ci avvedremo che non può essere che così. Questa concezione si è affacciata per la prima volta nella nostra cultura “occidentale” nella scuola eleatica, fondata da Senofane di Colofone e da Parmenide di Elea nella seconda metà del VI secolo a.C. ed ha trovato in Platone il suo massimo maestro. Ce ne occuperemo, dal punto di vista storico, in altra sede; qui ci preme solo esporre la nuova concezione dell’essere, frutto di quello che Platone (Repubblica 515c) chiama periagein, convertire l’occhio spirituale, l’intelletto, rivolgendolo dalla parte giusta, non più verso le immagini dei sensi me verso l’essere, cioè verso sé stesso. Ciò che è visibile e sensibile, individuale, in divenire temporale non è vera realtà, ma è solo immagine e il mondo delle immagini sensibili può da noi essere chiamato, come nella tradizione platonica, “divenire”. Il rapporto tra essere e divenire è quello tra realtà e immagine. Ma dovremo apprendere, a suo tempo, una cosa importante: se chiamiamo “corpi” le immagini degli esseri, troveremo due tipi diversi di corpi, quelli aggregati e quelli semplici, lo si vedrà nella parte di questo scritto dedicata, appunto, alla corporeità.

1.10.La vera realtà è coscienza e conoscenza di sé, cioè pensiero e idee. Le idee sono rappresentazioni che il pensiero ha di sé; e nel pensiero troviamo anche affetti, che possono essere desideri o paure, ovvero sentimenti di piacere e di dolore… Nell’essere vi è un nucleo immobile, eterno, e una rappresentazione in movimento, temporale. Le due cose non sono in contraddizione, perché l’essere non è una cosa, ma pensiero; e il pensiero è potenzialità infinita che può produrre tutto diventando tutto. Ma vediamo di esporre meglio questo argomento.

1.11.Quando il pensiero conosce sé stesso, vede il nucleo eterno dell’essere, quello che Parmenide ha chiamato Aletheies eukukléos atremès hetor, il cuore immobile della verità ben rotonda (framm. B1,29). Questo consiste in una serie di enunciati necessariamente veri, frutto dell’applicazione del principio di non contraddizione. Come si ricorderà, è necessariamente vero ciò il cui contrario reca contraddizione e dunque è sempre falso. E’ il principio logico che genera il metodo assiomatico-deduttivo di cui si serve la geometria per enunciare i suoi teoremi. Il primo enunciato necessariamente vero, e dunque eternamente vero, è quello che dice: “l’essere è, il nulla non è”. Ecco come lo enuncia Parmenide (framm. B2,3): he mèn hopos estin te kaì hos ouk esti me einai, (il primo metodo -quello corretto- dice che l’essere è e che il non essere non è); e ancora (B6,1-2): esti gàr einai, medèn d’ouk estin (è l’essere, il nulla non è). Il pensiero che si pensa come essere, dunque, si trova, in primo luogo, necessariamente esistente. Segue poi, nel poema di Parmenide, una serie di applicazioni del principio di non contraddizione da cui il pensiero impara di sé: di essere ingenerato e imperituro. Se infatti l’essere nascesse, prima della sua origine ci sarebbe stato il non essere, il che è impossibile, perché il non essere non può mai essere; ugualmente, se l’essere cessasse di essere, dopo la sua scomparsa ci sarebbe il non essere, ma -di nuovo- questo, per lo stesso motivo, è impossibile. Di essere unico, perché se vi fosse qualcosa d’altro dall’essere, sarebbe non essere, ma il non essere non può esistere; dunque non ci sono due esseri, ma uno solo, principio di tutto. Di non essere esteso e limitato, poiché se fosse una cosa visibile con una forma geometrica, fuori dai suoi limiti vi sarebbe il non essere, il che è contraddittorio. Il pensiero che conosca la retta idea di essere, dunque, vede in sé stesso questo insieme di verità necessarie, compie eternamente l’atto di pensarle, si fa immobile ed eterno fissando le verità che non mutano mai, perché la loro negazione non può avverarsi, essendo contraddittoria. Esso è akineton megalon en peirasi desmon (immobile nel limite di possenti legami), come dice Parmenide (B8,26) ed i legami sono, appunto, le leggi logiche del pensiero; e con estrema chiarezza -peccato che, invece, le traduzioni siano oscure- il filosofo fondatore della nostra scuola ci spiega che essere è pensiero: tautòn d’estì noein te kaì houneken esti noema. ou gàr haneu tou eontos, en oi pephatismenon esti, eureseis tò noein. “E’ la stessa cosa pensare e che il pensiero è; infatti senza l’essere non troverai il pensare, in esso si esprime (B8,34-36)”. Il pensiero, quando pensa, sa di essere; e sa di essere espressione dell’essere… (Si vedano anche le prime due citazione riportate a intestazione del presente libro).

1.12.Ma il pensiero può avere anche contenuti contingenti: oltre al suo repertorio di tautologie (=enunciati necessariamente veri), e oltre all’amore eterno che lo lega ad esse, perché il pensiero sente come bene la verità che lo fa essere, in esso troveremo i “possibili”, cioè quelle realtà che possono anche non essere. E’ necessario che l’essere sia, ma non è necessario che sia caldo o freddo, quadrato o rotondo, pesante o leggero, luminoso od oscuro. Queste cose non sono realtà eterne, ma cambiano. Il lato del pensiero che pensa “essere caldo”, “essere luminoso”, “essere quadrato” non è eterno ma è in divenire; può passare cioè da una forma ad un’altra, da una qualità a quella opposta. Non siamo più nel cuore immobile della verità, siamo entrati nella zona in movimento dell’essere, cioè (lo abbiamo già anticipato al §1.9) nella manifestazione sensibile, nel “divenire” dove non troviamo l’essere ma la sua immagine. Qui i “contrari”, entrambi possibili, si avvicendano nel tempo.

1.13.Abbiamo detto che l’essere è pensiero di sé, coscienza e conoscenza di sé: come dire che l’essere ha intrinseca in sé la natura dell’espressione, perché conoscersi significa manifestarsi a sé stessi, esprimersi a sé stessi. Intrinseca all’essere è, dunque, l’idea di LINGUAGGIO. Intendiamo per “linguaggio” un sistema di segni e di regole che li connettano, finalizzato, appunto, all’espressione. Quando l’essere esprime sé stesso, parla ed intesse con il suo linguaggio un discorso fatto di immagini sensibili (colorate, sonore, profumate, gustose, tattili…). Ogni segno ha un significato, cioè ogni segno manifesta un determinato contenuto dell’essere (del pensiero, cioè): ogni segno visibile significa una realtà invisibile. Per conoscere l’essere non occorre procurarsi una conoscenza oggettiva, dunque, ma è necessario trovare la chiave del suo linguaggio.

1.14.Chiamiamo spirituale l’invisibile, corporeo il visibile; dunque sono spirituali le realtà contenute nel pensiero, corporei i segni sensibili che le manifestano. Ma se applichiamo rigorosamente questa definizione, sorge immediatamente un problema: lo spazio è spirituale o corporeo? Perché, lo spazio sarebbe, forse, invisibile, senza i suoi contenuti; o meglio, oscuro. Lo spazio vuoto, entro cui non sia nemmeno luce, come apparirebbe? Forse non apparirebbe affatto. Ma, d’altronde, la luce e gli altri corpi(4) senza lo spazio non potrebbero esistere, poiché, per definizione, abbiamo chiamato “corpo” ciò che è visibile e sensibile, dunque i corpi sono estesi, perché ciò che è visibile è esteso; visibilità ed estensione sono la stessa cosa (o puoi vedere qualcosa che non sia esteso?): infatti l’estensione ha la natura dell’immagine. Ma se i corpi sono estesi, sono immagini e le immagini non stanno se non dentro a uno spazio. E quando lo spazio si fa visibile, anch’esso è esteso, cioè anch’esso ha la natura dell’immagine; ed è quell’immagine che contiene le altre immagini, cioè, sembrerebbe, le fa essere.

1.15.Ma se lo spazio ha la natura dell’immagine, deve essere immagine di qualche cosa, perché non esistono le immagini di nulla; abbiamo detto (§1.13) che ogni segno visibile significa una realtà invisibile e che i segni corporei manifestano realtà invisibili contenute nel pensiero (§1.14). Insomma, ciò che genera l’immagine è la realtà, e le immagini da sé non possono essere, per il principio di ragion sufficiente (=ciò che non è necessariamente esistente, per divenire reale deve essere prodotto da una causa). Dunque è l’essere necessariamente esistente, cioè il pensiero, che è coscienza e conoscenza di sé, la vera realtà, a produrre le immagini, cioè materia e corpi (non viceversa, come pensano i materialisti!); il pensiero e i suoi contenuti sono la realtà, materia e corpi ne sono l’immagine(5). Ora, ridefinito, il problema è questo: se lo spazio è immagine, di che cosa è immagine?

1.16.Non è difficile rispondere; dobbiamo solo elencare gli enunciati su cui fondare la risposta nell’ordine giusto. Da un lato abbiamo detto che lo spazio ha la natura dell’immagine; ma è un immagine sui generis perché fa essere le altre immagini. D’altra parte, abbiamo anche detto che ragion sufficiente perché ci sia un’immagine è il pensiero che la pensi, come rappresentazione visibile di un suo contenuto invisibile. Dunque, lo spazio è immagine di ciò che fa essere le altre immagini; quando il pensiero produce immagini, trova in sé una facoltà che può chiamarsi “immaginazione” (non è un altro essere, è sempre il pensiero che si fa immaginazione, quando produce immagini). Dunque, ciò che fa essere le immagini (materia e corpi) è l’immaginazione dell’essere; ma avevamo anche detto (§1.14) che lo spazio contiene le altre immagini e dunque (§1.16) che lo spazio è immagine di ciò che fa essere le immagini.  Ma ciò che fa essere le immagini non è l’immaginazione dell’essere? Lo abbiamo appena detto. Ecco, dunque, di che cos’è immagine lo spazio: dell’immaginazione dell’essere.

1.17.Il che è come dire che l’immaginazione dell’essere, quando immagina sé stessa, si immagina come spazio. E dunque lo spazio, da un lato, è la potenzialità o facoltà che ha l’essere di produrre corpi (nel nuovo senso ridefinito), dall’altra è la prima immagine (o primo corpo, se vogliamo) prodotto dall’immaginazione dell’essere. Lo spazio quindi segna il confine tra visibile e invisibile.

1.18.Va da sé che oltre allo spazio vuoto, che ormai conosciamo come potenzialità di produrre l’immagine di una realtà, cioè un corpo, vi è anche lo spazio pieno, laddove l’immagine è prodotta in atto effettivamente. Noi conosciamo gli “oggetti” sotto forma di volumi carichi di qualità e proprietà; sappiamo anche che gli “oggetti” sono colonie di esseri microscopici che i fisici e i chimici chiamano atomi, aggregati insieme, così da avere anche una forma macroscopica che sa comunicarsi alla nostra coscienza, appunto, come volume e qualità; ma l’analisi degli “oggetti” (uso il termine tra virgolette, perché andrà ridefinito, a tempo debito) troverà degli sviluppi inaspettati, nei prossimi libri del presente scritto. Per ora basterà anticipare la seguente osservazione: se gli oggetti sono immagini dei contenuti del pensiero, e cioè sono pensieri, quando il pensiero li coglie, cioè quando una coscienza li percepisce, e li percepisce come pensieri, non sbaglia. Perché, non esiste un oggetto eterogeneo al pensiero, che non è immagine e che la mente abbia il compito di rappresentarsi cadendo così nell’impasse dovuto al fatto che le rappresentazioni sono tutte immagini e dunque non corrispondono mai all’oggetto esterno. Non esiste un oggetto esterno. Esiste un solo pensiero, che dà di sé rappresentazione alle proprie coscienze; e non esistono due cose, una fuori dalla coscienza che non è immagine e una dentro che è immagine, ma una sola: l’immagine. E l’immagine è la cosa.

1.19.Dunque, la coscienza, o mente, che dir si voglia, quando riceve un’immagine non sbaglia mai; e con questo abbiamo trovato la via d’uscita dai labirinti della gnoseologia e dell’epistemologia positivista e possiamo mettere fine agli incubi di quelli come T.Nagel (vedi nota 1) che per procurarsi una conoscenza oggettiva sono costretti a desiderare il paradosso di non esistere più.


NOTE AL LIBRO I.

 

 

Nota 1: per rendersi conto di questo è sufficiente leggere libri come, per esempio: T.Nagel, Uno sguardo in nessun luogo, Il Saggiatore 1988. Riporto qui un paragrafo di questo delirante studio, dove, senza rendersi conto della contraddizione, l’Autore va in cerca di un punto di vista oggettivo, ovvero impersonale ed esterno al soggetto, per evidenziare quali incubi possano intrappolare chi ometta di rettificare l’idea di essere: “Supponiamo che tutti i nervi che alimentano il mio cervello con dati sensoriali fossero tagliati, ma che in qualche modo io continuassi a respirare, nutrito e cosciente. E supponiamo che potessero essere prodotte in me esperienze uditive e visive, non attraverso il suono o la luce, ma tramite una stimolazione diretta dei nervi, in modo da poter ricevere informazioni in parole e immagini su ciò che avviene nel mondo, ciò che altri dicono e odono, e così via. Anche se lo raffigurassi a me stesso, non lo starei guardando da dove mi trovo. Si potrebbe anche dire che (…) in quelle circostanze non sarei nessuno (pag.78)”. Ma Nagel non si rende conto che questo “sé oggettivo” di cui sta parlando (ivi, pag.77) è una contraddizione in termini? E che anche questo “soggetto senza prospettiva” (ivi, pag.78), come lo vuol chiamare, non avrebbe affatto una rappresentazione oggettiva (che è una contraddizione in termini) della realtà? Sarebbe comunque dipendente dalle sensazioni soggettive di chi lo informa! La coscienza da questo positivismo, col concetto irrazionale di oggettività, è stata costretta a diffidare di sé stessa così tanto, da auspicare di potersi liberare da sé stessa, perché per poter conoscere oggettivamente la realtà, il soggetto dovrebbe… sparire! Ma dove starebbe la conoscenza, allora, senza un soggetto che conosca? Utile sarebbe anche la lettura di un testo d’insieme sulla storia del metodo quale, per esempio, D.Oldroyd, Storia della filosofia della scienza, Il Saggiatore 1989.

 

Nota 2: se  vuol conoscere da vicino un atteggiamento mentale del genere qui criticato, il Lettore, se ne ha la pazienza, può affrontare, per esempio, un testo di “operazionismo” che è la tendenza ad accreditare come scientifico un concetto solo se coincide con la somma delle operazioni mediante cui si misura una certa realtà.: P.W.Bridgman, The Logic of Modern Physics, New York 1927 (trad. it. di V.Somenzi, La logica della fisica moderna, Boringhieri 1965).

 

Nota 3: non sarebbe possibile un’esperienza oggettiva nemmeno nel senso “debole” del termine (il senso “forte” è quello di Nagel -cfr. nota 1- che vorrebbe arrivare a un’esperienza fuori dal soggetto che esperisce) e cioè come corrispondenza tra la rappresentazione di un soggetto e l’oggetto extramentale che la causerebbe. Infatti, se un oggetto ci fosse fuori dal pensiero, non potrebbe essere immagine (ragion sufficiente perché ci sia un’immagine è un’immaginazione che la immagini, da sé le immagini non si producono, né galleggiano nel vuoto); ma le nostre rappresentazioni sono tutte immagini e dunque non potrebbero mai essere identiche a un presunto oggetto extramentale che per definizione non è immagine (se fosse immagine infatti non sarebbe extramentale).

 

Nota 4: data la ridefinizione del concetto di corpo come immagine visibile della realtà invisibile e dunque la coincidenza del corporeo col visibile, anche la luce, nel nostro linguaggio, è un corpo. Non consideriamo corpo, infatti, solo ciò che è grave, impenetrabile e composto, ma anche ciò che è lieve, trasparente e semplice, purché sia visibile.

 

Nota 5: sulla materia vedi ultra, libro III.

 

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